«Certo che Milano è molto cambiata – ha detto guardandomi e ad un mio cenno d’intesa ha aggiunto – mi chiamo Kofi Annan sono ghanese e faccio l’impresario teatrale. Sono qui per cercare spettacoli da portare nel mio paese e in tutto il resto dell’Africa.»
«Molto piacere» ho risposto presentandomi a mia volta ed allungandogli la mano che ha stretto con un certo vigore, sorridendo.
«Non vengo in questa vostra bella città da cinque anni, dall’Expo, evento memorabile e la trovo assai cambiata. Tutto mi pare funzioni meglio, la circolazione è assolutamente più scorrevole non c’è più il traffico di un tempo, la qualità dell’aria è migliorata e soprattutto dalle finestre sono sparite quelle orrende antenne paraboliche kitsch. Ma soprattutto girando per i vostri teatri underground, e ne avete veramente tanti, ho constatato, oltre alla qualità delle rappresentazioni, anche una grande affluenza di pubblico. Un pubblico composto non solo da italiani. Direi un pubblico cosmopolita, almeno a giudicare dalle facce.»
«Bene che anche lei se ne sia accorto. – gli ho risposto – Quello che ha visto è un pubblico italo-internazionale. Molti proprietari di quelle facce da straniero sono nati a Milano o comunque qui cresciuti, ed educati. Tanti di loro parlano in milanese e io non son capace. La scolarizzazione degli stranieri, sia bambini sia adulti, è stato uno dei più importanti cambiamenti sociali di Milano. E poi ci sono gli stranieri veri, quelli che vengono dal resto del mondo per assistere alle migliori performance dell’avanguardia culturale, partecipare agli eventi professionali e per visitare i nostri musei che hanno spazi nuovi e adesso rimangono aperti anche per 16 ore al giorno. E sono sempre affollati. Molti poi vengono a Milano anche per acquistare moda e arte digitale: pezzi unici. Si è passati dalla serialità all’unicità. »
«Nel mondo si parla molto del vostro artigianato digitale: come garanzia di qualità e prestigio il
thought in Milan come marchio di garanzia sta superando il
made in Italy.»
«Oramai più del 30% della forza lavoro milanese è impegnata in attività creative che vuol dire ricerca in tutti i settori dell’industria, dalla fisica alla bioingegneria genetica, e arte. Siamo la città più creativa d’Europa nella progettazione, nel design, nella letteratura, nel teatro, nella pittura e nella scultura.»
«Vero. Qui lavorano degli scultori digitali molto creativi. Ho appena acquistato una scultura digitale da Bérénice De Mannelli.»
«Molto brava. La conosco.»
«Come è stato possibile tanto cambiamento in così poco tempo?» mi ha subito chiesto Kofi, nel frattempo eravamo passati al tu.
«L’Expo è stato un grande volano. Mano a mano che l’evento si formava in crisi, pezzo dopo pezzo, la vecchia concezione della città, del suo modo di produrre e soprattutto del suo modo di essere vissuta. Certo la tecnologia ha avuto un ruolo importante, anzi importantissimo, ma l’ingrediente fondamentale è stata la volontà di cambiare. Volontà generalizzata che ha coinvolto tutti. Incredibilmente la città è diventata più grande, più cosmopolita: qui trovi tutti i ristoranti del mondo e senti parlare quasi tutte le lingue. Oggi Milano è più popolata, quelli che negli anni passati se ne erano andati sono ritornati portandosi dietro amici e parenti. E per quanto paradossale possa sembrare più vivibile.»
«E gli altri ingredienti?»
«Aver creduto nella importanza della rete, il wi-fi è su tutto il territorio della città, e aver capovolto il processo di generazione delle idee: stimolarne la nascita dal basso anziché calarle dall’alto. In buona sostanza chiedere alle persone comuni, che sono quelle che ne utilizzano i risultati, cosa avrebbero voluto e come avrebbero agito per ottenerlo.»
«Molto interessante – commentò l’impresario – e il processo come si è sviluppato?»
Conosco molto bene la storia avendovi partecipato in piccola parte e così la raccontai.
Tutto cominciò quando, nel giro di pochi giorni trasportai sul mio taxi, per la quinta volta la stessa persona. Il fatto di incontrare lo stesso passeggero nel giro di breve tempo non è poi così usuale, infatti il taxi è un po’ come l’acqua di TEraclito: in quella è impossibile bagnarsi per più di una volta e sullo stesso taxi è assai improbabile salirci due volte. Proprio per questo motivo il mio mestiere mi affascina ogni giorno di più: tante corse faccio tante sono le tipologie di persone che incontro, tante sono le opinioni che sento. Con molti dei miei passeggeri parlo e di tutti, anche non volendo, ascolto i discorsi e così mi faccio un’idea di come sta girando il mondo. I sociologi Gli istituti demoscopici di tanto in tanto dovrebbero intervistare noi tassisti, senz’altro ne caverebbero informazioni molto interessanti. Ma questo è solo un suggerimento che poco ha a che fare con questa storia. Dicevo dunque che nel giro di pochi giorni, al massimo una decina, mi capitò di trasportare per la quinta volta la stessa persona. In verità nelle quattro volte precedenti era in compagnia di altri che però variavano ad ogni corsa. E questa non era la sola improbabile e strana casualità: l’avevo caricata sempre in posti diversi e portata ogni volta a destinazioni diverse. Ciò che avevo colto dai loro discorsi, non sempre comprensibili ad onor del vero, era che fossero impegnati in uno studio sul cambiamento, strutturale loro dicevano, della città. Chi ora stavo trasportando, se non avevo capito male, era la coordinatrice del progetto. Sì, si trattava di una donna. Una bella donna di media statura di carnagione olivastra, zigomi alti, occhi castani, vivissimi, incastonati in due orbite dal sapore mediorientale. Indossava in genere dei tailleur, talvolta con gonna talaltra con pantaloni, le sue camicette erano di colori freschi e vivaci. Per leggere inforcava un paio di occhiali con una grossa montatura come quelle che andavano di moda negli anni sessanta. Nel comportamento più che nelle fattezze ricordava vagamente un’attrice ma non sono mai riuscito ad individuare quale. Pazienza.
Quando la caricai per l’ennesima volta le dissi del parallelo tra l’acqua di Eraclito e il taxi. Ne fu stupita.
«Lei conosce Eraclito?» mi chiese
«Abbiamo fatto amicizia al liceo – risposi – e siamo diventati intimi durante l’università.»
«Laureato in filosofia?»
«Sì… non è grave, vero?»
«Sono sul taxi dell’unico tassista laureato in filosofia!»
«Forse l’unico laureato, ma non è detto. E comunque senz’altro non l’unico tassista filosofo.»
Lei rise e dallo specchietto retrovisore, intravidi schiudersi le sue labbra carnose e brillare i suoi denti regolari, forti e incredibilmente bianchi. Così cominciammo a chiacchierare e il traffico in questo ci fu di grande aiuto, si procedeva assai lentamente su due file, in viale Maino. In quegli anni una delle strade più trafficate della città.. Inoltre era l’orario dell’uscita da scuola e le auto piazzate in seconda file stringevano ulteriormente la carreggiata. Ovviamente un paio di virtuosi del clacson si sfidavano componendo ardite composizioni cui assegnavano il potere sciamanico di fare sparire, come per incanto, ogni ostacolo davanti a loro. Quindi la nostra conversazione poteva procedere con una tranquillità. Avevamo tempo. Così Ludmilla, questo il suo nome, di origine moldava ma nata a Milano, mi raccontò che lei con un nutrito gruppo di teste d’uovo stavano studiando come rendere, strutturalmente per l’appunto, la città più vivibile. Quindi con
meno traffico, meno smog, mobilità più facile magari anche maggiori possibilità di lavoro dato la crisi stava mordendo con maggior cattiveria. Poi, all’improvviso, mi chiese se anch’io volessi partecipare al gruppo e magari dare delle idee. La richiesta mi prese in contropiede e quindi, dopo un primo momento di sorpresa, risposi proponendole di pranzare insieme. Incredibilmente accettò. Fece una telefonata e posticipò di un paio d’ore l’appuntamento verso il quale la stavo portando. Pragmatica e diretta. Mi piacque ancora di più. Mi diressi in via Villoresi, da Felicita, cucina casalinga.
Durante il pranzo Ludmilla fu incalzante mi spronava a esprimermi senza reticenze. Io in realtà sapevo bene cosa dire ma tutto mi sembrava talmente semplice e ovvio che ero titubante. Ma lei insisteva. Le raccontai dunque della mia città ideale e cominciai dall’argomento che mi è più vicino: la viabilità. Le dissi quindi che avrei voluto che tutte le auto parcheggiate lungo le strade sparissero visto che ciascuna, tra il lusco ed il brusco, occupa circa una decina di metri quadrati e che quello spazio, con poca spesa avrebbe potuto essere destinato alle biciclette.
«E le auto dove le mettiamo?» chiese lei.
«Sotto terra.» risposi io
«Ma questa è un’idea vecchia»
«Certo, ma non sempre messa in pratica correttamente. E quando s’è fatto ci sono stati enormi ritardi nei lavori e aumenti sbalorditivi dei costi.»
«E dunque qual è la tua ricetta?»
E così, avutone il permesso ufficiale diedi sfogo a tutti i sogni di papà e mamma. Ovviamente pensando in maniera strutturale perché altrimenti non c’è divertimento a impostare il cambiamento. Quindi, mentre ci portavano un antipasto di nervetti e peperoni sott’olio iniziai con il suggerire il capovolgimento dei ruoli tra l’istituzione Comune ed i Consigli di Zona. Ai secondi il potere di fare le cose, potere che deve stare sempre vicino ai cittadini che così possono meglio vedere dove vanno a finire i loro soldi. Quindi una sorta di “tutto il potere ai soviet”. Mentre all’autorità centrale i ruoli di programmazione, coordinamento e soprattutto di controllo delle procedure e dei costi. Tanto per fare un esempio il costo industriale di un garage sotterraneo non può essere influenzato dalla zona in cui viene costruito ma solo dalle oggettive difficoltà di realizzazione e quindi dalla natura del sottosuolo. E poiché il sottosuolo della città è noto, non foss’altro che per i tanti enti che vi lavorano e ci mettono mano ecco che taluni costi extra che in passato erano apparsi nei consuntivi di alcune realizzazioni facendone lievitare i costi anche oltre il 70% non avrebbero più avuto ragione d’essere.
«Bene e così fai scomparire le auto e poi?»
(continua, la terza e ultima puntata sarà pubblicata domani, 26 agosto)