Mi chiamo Jonathan e oggi, 12 maggio 2020, compio quarant’anni. Il numero venti con i suoi multipli e sottomultipli ha scandito le tappe importanti della mia vita.
Sono nato nel 1980 e nel 2000 ho compiuto vent’anni. Non è buon augurante superare la linea d’ombra proprio nel momento in cui un secolo si chiude e se ne apre un altro? Certo che sì mi sono risposto. E comunque tutti quelli che erano alla mia festa di compleanno non hanno fatto altro che ripetermelo. Quindi anche se avessi voluto non avrei potuto sottrarmi a questo mantra.
Il 2000 doveva essere per me una data fondamentale, a tutti i costi E me lo urlava con l’estrema dolcezza della panna e del caramello anche la torta che come decorazione portava in la scritta “A Jonathan che compie vent’anni nel 2000”. Quella frase in verità riecheggiava il titolo di un vecchio film girato verso la metà degli anni settanta. O forse poco dopo. Il titolo originale recitava, per l’appunto: “Jonathan che avrà vent’anni nel 2000”. Ecco, io, con il mio compleanno stavo facendo diventare presente il futuro di quel lontano passato. Il film era un trattato sull’utopia, pensato e girato da un regista svizzero utopista per un pubblico di utopisti. I miei genitori erano gli spettatori ideali: utopisti anche loro. Forse pure di più. Per questo mi chiamo Jonathan.
I miei vecchi si sono conosciuti nel febbraio del ’68 durante una delle tante occupazioni del Berchet. Il liceo classico Berchet, per chi non lo ricordasse, si trova in via della Commenda a metà strada tra porta Romana e piazza Missori, a due passi dai giardini della Guastalla e dalla sinagoga, a tre dalla biblioteca Sormani e dal tribunale e a quattro dalla sede della Umanitaria, la prima scuola milanese pensata per il popolo. Poi sono seguite a ruota le scuole civiche.
«Già, solo la collocazione di quel liceo ne faceva il luogo ideale per la formazione di ribelli se non proprio di rivoluzionari.» chiosò una volta mia madre.
Pare infatti che a quel tempo fosse normale occupare le scuole, le università e qualche volta anche le fabbriche. Gli uffici no, quelli non li ha mai voluti occupare nessuno.
«Troppo asettici, troppo poco vivi. Negli uffici non c’è odore, non c’è rumore, non c’è calore e soprattutto non c’è il piacere di vedere la materia grezza che, plasmata dalle mani dell’uomo, cambia di forma.» mi spiegò una volta mio padre. Ma a quel tempo internet, che pure già esisteva, non era a disposizione delle masse e in ogni caso Autocad e Photoshop ancora non erano stati inventati. Comunque, lui, mio padre, in quell’occupazione ci capitò per caso.Tanto per cominciare lui non studiava in quel liceo ma al Parini e poi quel giorno, quello del fatidico incontro, aveva appuntamento con altri della sua classe per andare allo Smeraldo ad un matinée di avanspettacolo con dodici-ballerine-dodici, meglio delle blue belle, ed una soubrette specializzata in danze esotiche.
«Che per tuo padre ed i suoi amici voleva dire erotiche.» commentò mia madre.
Invece sbagliò teatro, mio padre è sempre stato un po’ svanito e si trovò davanti al Carcano. Allora non c’erano i cellulari e il gps era di là da venire, se uno si perdeva era perso per davvero. La fortuna volle che davanti al teatro si radunasse, con tanto di bandiere e distribuzione del giornale Umanità Nova, un gruppetto di anarchici che andava a dar manforte agli occupanti del liceo. Già perché mio padre era ed è ancora un anarchico individualista che conosce a memoria interi brani de “L’unico e la sua proprietà” di Max Stirner. Fin da quando ero piccolo lo ho sentito recitare: « Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di "diritti dell'uomo". Il mio potere è la mia proprietà, il mio potere mi dà la proprietà. Io stesso sono il mio potere... e per esso sono la mia proprietà » E lo fa ancora adesso, di recitare questo pezzo. E un poco, anzi molto più di un poco, anzi direi proprio parecchio di quel suo pensiero mi ha influenzato. Infatti il mestiere che faccio è il più anarchico che ci sia. Mia madre, invece, militava in Avanguardia Operaia, un gruppo extraparlamentare che sulla base della teoria marxista aveva inserito molto del pensiero di Lev Trotsky e nonostante avesse solo sedici anni era già una accesa trotskista. Tra i due sono sempre scintille quando si parla di politica ma su un punto sono d’accordo: hanno ancora la speranza di poter vedere il sogno del ’68 realizzato. Vogliono ostinatamente continuare a credere che finalmente sarà vietato vietare e che c’est ne qu’un debut nous continuons le combat e che la fantasia prenderà il potere e che a ciascuno secondo il suo bisogno. E sono disposti a vedere tutto questo anche sotto altre spoglie che non siano quelle tramandate dalle tradizioni. Su questo punto sono molto elastici e credono che per prendere i topi non sia importante il colore del gatto.
Dopo l’università, sono laureato in filosofia come mio padre mentre mamma è biologa, mi presi qualche mese e vagabondai un po’ per l’Europa, il nord Africa e la Turchia giusto per vedere cosa c’era di nuovo. Poi, quando tornai dissi che volevo fare un lavoro che, nell’ordine, mi consentisse di continuare a leggere (e magari anche studiare), mi permettesse di ascoltare la radio tutto il giorno, mi desse la possibilità di esprimere la mia poca creatività scrivendo, mi facesse incontrare tante persone delle più diverse qualità e che poi non fosse opprimente con gli orari e non mi bloccasse su una scrivania, mi concedesse di andare in giro per la città e magari pure per i suoi dintorni e infine che mi lasciasse tutto il tempo libero necessario.
«Un lavoro del genere non esiste.» mi risposero i più. E anch’io stavo per convincermene quando mi capitò tra le mani un vecchio libro di Somerset Maugham: Il filo del rasoio. Dopo averlo letto capii che quel mestiere esisteva. Il protagonista del romanzo è Larry Darrell, pilota d’aviazione durante la prima guerra mondiale, che dopo qualche anno speso a girovagare per il mondo alla ricerca di sé stesso e dopo essersi trovato, decise di essere taxista a New York. Io più modestamente pensai di essere taxista a Milano. Peraltro ho girato molto meno e mi sono trovato quasi subito.
Il lavoro del taxista oltre a tutte le caratteristiche che ho indicato prima ne comprende un’altra che nella sua eccezionalità rappresenta la ciliegina sulla torta: tutto il lavoro non fatto oggi non te lo ritroverai sul tavolo domani. Semplicemente non c’è più. Splendido. Grazie a questo lavoro, che poi per la verità credo sia il miglior modo di vivere senza lavorare, ho potuto vedere cambiare la città, la gente e pure trovare, anzi essere trovato da mia moglie. Ma di questo dirò poi. La città in soli diciotto anni, questa è la mia anzianità di servizio, è cambiata tantissimo e, strano a dirsi, in meglio. Adesso è raro che qualcuno dei miei passeggeri si lamenti e attacchi la solita tiritera “di quanto si stava meglio una volta”. Ora sembrano tutti contenti di vivere a Milano perché è diventata la prima metropoli europea, se non addirittura mondiale, a misura d’uomo. Sembra un ossimoro metropoli a misura d’uomo e invece non lo è affattoIeri pomeriggio mi sono preso qualche ora di vacanza e me ne sono andato ai giardini Indro Montanelli e mentre gustavo un gelato, rigorosamente cioccolato e limone, riflettevo su quanto questi, i giardini intendo, fossero cambiati rispetto anche solo a qualche anno fa. No, non tanto per la struttura che più o meno credo sia la stessa da sempre quanto per la gente. Nonostante fosse martedì c’erano molte persone, tante quante negli anni passati se ve vedeva solo di domenica. Ovviamente mamme con bambini, ovviamente anziani, ovviamente i soliti del jogging, ovviamente qualcuno portato a spasso dal cane ma anche tanti altri che nei tempi passati e negli stessi orari sarebbero stati chiusi in un ufficio.
Questa volta erano ai giardini non perché disoccupati, come accadde a molti agli inizi della passata decade, ma nella pienezza della loro funzione lavorativa. Per tante professioni adesso non è più obbligatorio avere una scrivania in un ufficio, le loro mansioni possono essere espletate dove meglio si crede: a casa, al bar o ai giardini pubblici, come stava per l’appunto accadendo ieri. E tutto questo in virtù delle quasi infinite possibilità della rete. La municipalità, in accordo con i Consigli di zona ha esteso il servizio wi-fi a tutta la città. Grazie a questa semplice piccola innovazione si sono liberati tantissimi spazi e anche tantissimo tempo. Non si sprecano più ore di vita per i trasferimenti da casa all’ufficio e ritorno e nelle persone c’è maggiore coscienza di questa fondamentale risorsa che è il tempo. Certo di uffici ce ne sono ancora ma è cambiata la loro funzione ora sono solo dei punti d’appoggio. Gli effetti collaterali di questa innovazione sono stati tanti e tutti interessanti: buona parte dei palazzi del centro è tornata ad essere adibita ad uso abitativo il che ha portato a due ulteriori novità: i prezzi ora sono accessibili e che il centro è vivo anche dopo le 19,00 e non solo per l’ entrata e l’uscita dai cinema. Inoltre, dicono le ricerche, il tasso di socialità, è sensibilmente aumentato e se ne prevede una ulteriore crescita negli anni a venire. Infine ne ha guadagnato anche il traffico e la viabilità e molta più gente usa le biciclette. E quasi ogni strada oggi è dotata di una pista ciclabile per ogni senso di marcia.
Mentre facevo queste riflessioni si è avvicinato alla panchina un distinto signore che dopo avermi augurato «buon pomeriggio» mi ha chiesto se i posti accanto al mio fossero liberi e avutane conferma si è seduto. Anche lui aveva l’aria di prendersi una pausa e infatti non accennò minimamente ad estrarre il computer dalla borsa che aveva appoggiato tra noi. Pure lui si è messo ad osservare. (la puntate successive usciranno il 25 e la terza il 26 agosto)
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