Ciò che possiamo licenziare

sabato 16 agosto 2014

Non doveva finire così - 3#puntata, l'ultima.

«Eravamo felici come due bambine che stanno per andare in vacanza » si sorrise Marcella guardandosi nello specchietto retrovisore. 
Boosah fu puntuale all’appuntamento. A gesti spiegò che era meglio muoversi con il buio piuttosto che di giorno. La Renault 4 fu sottoposta alle peggiori torture, le tre donne con le macchine fotografiche stavano nel sedile anteriore, quello posteriore era stato tolto per far posto a taniche di benzina, agli zaini ed ai sacchi a pelo. Per precauzione avevano preso anche quattro ruote di scorta. Viaggiarono per circa una settimana salendo e scendendo e risalendo e riscendendo. Quindi finalmente all’alba del settimo giorno arrivarono all’imbocco della valle. Tutto era silenzio. Boosah suggerì di nascondersi in una grotta. L’auto fece un po’ di fatica ad inerpicarsi per quello stretto sentiero ma alla fine ce la fecero.
Aveva ragione Houshmand si dissero Ilenia e Marcella la valle era proprio un budello senza uscita. Dalla loro postazione potevano vedere, senza essere visti, tutto il villaggio, fino al monte con le pareti lisce come uno specchio. Videro le donne andare alla fontana, gli uomini muoversi con calma e i
bambini giocare a rincorrersi nelle strade. Tutto sembrava normale. Se non fosse stato per la guerra lo si sarebbe scambiato per un posto di vacanza. Boosah dissimulava appena la sua eccitazione.
Con l’arrivo della notte si misero nuovamente in movimento. Percorsero tutto il sentiero a marcia indietro poiché non fu possibile girare l’auto. Ci vollero quasi tre ore per percorrere quattrocento metri di curve a gomito. A fari spenti entrarono nel villaggio e Boosah indicò loro uno stretto vicolo ci si infilarono e lo percorsero tutto. Era tortuoso e lunghissimo.
«Mi pare che siamo vicini alla montagna.» disse Ilenia. Boosah assentì.
Continuarono a girare fino a che Boosah fece cenno di fermarsi. Avevano percorso quasi l’intero perimetro del villaggio e ora si trovavano in una stradina parallela alla fontana con il muso dell’auto rivolto verso l’uscita della valle.
Scesero in silenzio dall’auto, Boosah face capire loro che non dovevano portare le macchine fotografiche e strisciarono lungo i muri. Marcella decise di lasciare anche la pistola, sotto il sedile.
«Tanto – pensò – mi perquisiranno e se la trovano me la portano via. Meglio non rischiare.» C’era solo la luce della luna a rischiarare i loro passi. Boosah le precedeva di cinque metri e si muoveva speditamente, non aveva più l’aria del topino bagnato di quando era in casa di Houshmand. Finalmente una porta si aprì e Boosah fece cenno alle due donne di entrare. La stanza non era molto grande, nel centro un tavolino con una teiera, dei bicchierini, diversi piatti contenenti dolci, frutta e alcune ciotole con yogurt e attorno qualche sgabello. Il pavimento era ricoperto di tappeti. Alla parete di destra pendeva una tenda che, appena le tre donne furono entrate e la porta fu chiusa, si scostò e comparve Jahandar. La prima cosa che lui fece fu abbracciare Boosah, sua sorella. Quindi invitò le due donne a sedersi, sapeva già perché erano lì. Disse che non era abituato a farsi fotografare ma che l’avrebbe fatto se loro si fossero impegnate a raccontare le ragioni della sua ribellione. Le due fotografe accettarono e si accordarono per la mattina successiva. Jahandar lasciò la casa  mentre Boosah rimase.
Marcella e Ilenia cominciarono a parlare su come impostare le fotografie e che tipo di inquadrature proporre. Fecero fatica ad addormentarsi l’eccitazione era troppa, ma alla fine crollarono.
Stava cominciando ad albeggiare quando sentirono il primo colpo di mortaio e le urla della gente e altri cinque, sei, dieci colpi. Un vero cannoneggiamento. Poi ci fu silenzio per una decina di minuti.  Guardarono Boosah che non parve assolutamente smarrita fece loro cenno di seguirla ma quando furono nel vicolo Ilenia decise di tornare all’automobile per prendere le macchine fotografiche. Marcella cercava di trattenerla ma Ilenia sembrava impazzita e urlava che voleva le sue macchine. Contemporaneamente Boosah tirava Marcella per l’altro braccio nella direzione opposta. Ilenia riuscì a divincolarsi e correva in senso contrario a tutti gli altri del villaggio che andavano verso la montagna.  Dai tetti di alcune case si cominciò a rispondere al fuoco. La confusione era massima. Marcella vedeva Ileana allontanarsi e non poteva lasciarla andare da sola. Si liberò con uno strattone di Boosah e si mise a correre nella direzione presa da Ileana. Faticava a starle dietro e il vestito pashtun che portava non l’aiutava di certo.  Se ne liberò velocemente e riprese a correre. L’auto non poteva essere lontana oramai. Quando la raggiunse Ileana non c’era. Strano fosse arrivata lei per prima. Impossibile che l’avesse superata e non se ne fosse accorta. Aprì la portiera di destra, si lanciò sotto il sedile e afferrò la Beretta. Mise il colpo in canna e continuò ad avanzare. Superò l’auto di una decina di metri, camminava con cautela stando leggermente piegata. Oramai non c’era più nessuno che corresse in senso opposto al suo. Sentì degli urli e riconobbe la voce di Ilenia. Svoltò un angolo e le parve d’intendere che le voci venissero dalla casa che aveva di fronte. La porta era aperta. Con cautela si avvicinò e guardò dentro: Ileana era a terra quattro soldati la stavano picchiando con pugni e calci, uno la teneva per i capelli e le scuoteva la testa così forte che delle ciocche gli rimanevano tra le dita della mano e un’altro si preparava a violentarla. Marcella gridò e il suo urlo per un istante bloccò ogni azione, gli uomini si voltarono verso la porta  e lei fece fuoco a ripetizione fino a scaricare completamente l’arma. I quattro caddero come fantocci. Poi Marcella si avvicinò a Ileana che era in un lago di sangue, cercò di metterla in piedi ma per Ileana era uno sforzo troppo grande. Allora se la caricò sulle spalle e barcollando raggiunse la Renault 4. Riuscì a farcela entrare. Mise in moto e partì facendo fischiare le gomme. Ileana si lamentava e piangeva. Marcella guidava veloce e sfregava contro le pareti del vicolo. Un paio di volte nel fare gli angoli dovette effettuare due o tre manovre poi finalmente entrò nella strada principale. La situazione era surreale i soldati che incontrava erano sbalorditi dal vedersi piombare addosso quella auto che procedeva a velocità folle sbandando e zigzagando. Dopo quei pochi attimi di stupore si ripresero e cominciarono a sparare. Le raffiche si susseguivano. Marcella sentiva le pallottole rimbalzare sulla carrozzeria poi una fitta al fianco, istintivamente si toccò e quando ritirò la mano scoprì che era insanguinata. Continuò a correre fino a che il motore non rispose più alle sollecitazioni dell’acceleratore. L’automobile proseguì per forza d’inerzia fino a quando si fermò in una curva sul ciglio di uno strapiombo.
Solo in quel momento Marcella guardò il suo fianco e vide il sangue che si stava allargando sulla camicia e cominciava a raggiungere i pantaloni. Prese uno straccio e iniziò a tamponare.
«Quante fesserie abbiamo fatto» si disse Marcella ora che aveva ripercorso tutte le tappe della storia.
Si volse nuovamente verso Ilenia, era immobile e sembrava non respirare. Con fatica Marcella allungò il braccio destro per toccarle l’aorta, Quando la trovò sentiva che non pulsava. Provò a scuoterla gridando il suo nome ma Ilenia non rispose . Era morta.
Il suo sguardo passò nuovamente sullo specchietto retrovisore e le parve di vedere qualcosa muoversi in fondo alla strada, provò nuovamente a mettere in moto e solo allora si accorse che una spia segnava rosso. Non c’era più benzina. Forse un colpo aveva centrato il serbatoio.
Aprì la portiera, voleva scendere e prendere una tanica dal sedile posteriore. Le piacque sentire la pioggia sul viso e sorrise guardando in alto. Nel movimento la pistola cadde per terra.
«Non importa, la raccoglierò dopo.» si disse.
Poi guardò verso il fondo della via, dei soldati stavano avanzando verso di lei con i mitra spianati. Si gettò bocconi a terra e a tentoni con la mano destra raggiunse la pistola. Sentiva che la ferita aveva ripreso a sanguinare. Sparò qualche colpo e quelli risposero con raffiche di mitra.
Smise di sparare.
«Non voglio morire come Ilenia.» si disse

Si portò la pistola alla tempia e mentre premeva il grilletto pensò: «Non doveva finire così.» (fine)

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