Con quel foulard e quegli occhiali sembrava la reincarnazione di Grace Kelly in Caccia al ladro. Ma io non assomiglio a Cary Grant. Neanche per sbaglio.
Piazzai il suo borsone sul microscopico sedile posteriore della Duetto e mi misi alla guida, lei girò la testa verso di me e abbozzò un sorriso che sembrava dire “Bravo, ce l'hai fatta. Ora vogliamo partire?”. Risposi muto girando la chiave d'avviamento, il motore emise il solito borbottante canto e partimmo.
Mentre ci allontanavamo lanciai ancora uno sguardo pieno d'amore alla Cadillac Eldorado, color verde acqua abbandonata sulla strada che da Chia porta a Cagliari.
Lei guardava dritto davanti a sé, non disse una parola ed io la assecondai. Mi pareva di viaggiare solo e godevo della sinfonia del motore e degli scorci di paesaggio fino a quando arrivammo a Cagliari.
“Io mi chiamo Lee Jeane e tu?” disse
“Manrico” risposi secco senza distogliere lo sguardo dalla strada anche se ne avevo una voglia maledetta e sopratutto, ostentatamente, non diedi alcun segno per il confidenziale passaggio al tu.
“Bene Manrico, tu, dove abiti?”
“Nella zona di Stampace” risposi
“Allora puoi lasciarmi davanti alla stazione, prenderò un taxi. Io vado da tutt'altra parte.” disse lei.
Lanciai, senza parere, un'occhiata all'orologio, ormai mancava poco alle otto, non sarei mai riuscito ad arrivare in tempo al teatro Lirico. Il Don Carlos era perso. Mi maledìi. Ma lo feci in silenzio.
Guidai lentamente verso la stazione e quando vi giunsi non c'erano taxi.
“Se ti fa piacere posso accompagnarti” dissi sforzandomi di guardare ben dritto sulla strada anche se con la coda dell'occhio cercavo di captare ogni suo movimento.
“Io abito da una mia amica a Villanova. Conosci via san Saturnino?”
“Certo – risposi – ci abita una mia vecchia zia.” Non era vero ma mi sembrava una bella risposta.
“Okey allora andiamo là”
“Lo sai di essere molto direttiva, vero?”
“Sì” fu la risposta. Sintetica.
Dal secchiello prese il cellulare e schiacciò due volte un tasto. Rimase un bel po' di tempo con l'apparecchio incollato all'orecchio, senza parlare. Nessuno rispose alla sua chiamata.
Intanto eravamo arrivati alla fine di via Roma e dopo un paio di svolte imboccai via regina Margherita, superato il Bastione mi infilai nelle viuzze che portano a san Saturnino. Fermai dove lei mi indicò. Scese rapida dall'auto, afferrò il borsone, mi salutò con un “Bye” che aveva tutta l'aria di essere definitivo e soprattutto di non attendere alcuna risposta. Si diresse verso il portone. Spensi il motore e rimasi seduto in auto, la guardavo camminare e pensai che aveva un incedere regale.
Sciolse il nodo del foulard e lo face scivolare dal capo sulle spalle mentre pigiava il campanello. Attese una decina di secondi, pigiò una seconda volta e attese molto meno e poi in sequenza una terza ed una quarta volta. Quindi la sentì chiaramente dire: “Shit. Fucking bastard.”
Si girò, mi vide e disse. “Sei ancora qui?”
“Già – risposi – Vuoi continuare a maledire il mondo o preferisci mangiare qualcosa?”
“Tipo?” rispose
“Puoi scegliere tra carne e pesce”
“Se dico carne?” domandò
“Dovremo fare qualche chilometro ma sarà un'esperienza unica.”
“Vada per l'esperienza unica.”
Rimise il suo borsone sul sedile posteriore e si calò nuovamente nella Duetto. Spostò gli occhiali dal naso al centro della testa quasi fossero un ferma capelli e svelò i suoi occhi. Erano grigio verdi, più grandi di una moneta da due euro. Non c'è uomo al mondo che non avrebbe voluto caderci dentro. Ma erano occhi impossibili. Erano belli e infidi come un ghiacciaio in primavera.
Non mi chiese dove intendessi condurla. Era talmente sicura di sé da non temere alcuna situazione. Non si rimise il foulard e neppure fece scendere gli occhiali sul naso. Di proposito non la guardai.
Misi in moto e mi diressi verso la strada 128, direzione Barbàgia. A giugno le giornate sono infinitamente lunghe e i tramonti di Sardegna sono meravigliosi. La luce del giorno si stava attenuando pigramente mentre noi correvamo verso nord. Le auto si diradavano sempre di più. Dopo neanche mezz'ora di viaggio eravamo soli. I suoi capelli a coda danzavano nell'aria.
“Questa strada mi ricorda quella che da Trinity porta a Houston” disse.
Io tacqui.
“Sono nata a Trinity nel Texas e Houston è la più grande città dello Stato. Conosci?”
“Sia il Texas, sia Houston sia Trinity. Uno dei miei autori preferiti è nato a Trinity”
“Intendi William Goyen?”
“Sì. Esattamente lui: William Goyen. Il suo capolavoro, per me, è La casa in un soffio”
“Veramente conosci William Goyen?”
“Sì. Perché ti stupisci?”
“Non è certo uno dei più famosi Anch'io amo tantissimo The House of Breath. Racconto intrigante.”
“Molto, specialmente per le implicazioni psicologiche. Parli bene l'italiano, dove l'hai imparato?”
“Sono stata sposata per circa tre anni con professore di santa Cecilia. Ho scoperto che il miglior metodo per imparare una lingua è andarci a letto.” Sentii che rideva in silenzio. “All'inizio tutto di lui mi affascinava: la sua musica, la sua cultura, la sua cucina. Poi ho scoperto che amavo i suoi optional più di quanto amassi lui. Una volta dismessi i panni di divulgatore culturale era mortalmente noioso e prevedibile. Così abbiamo divorziato.” Rise di nuovo, in silenzio.
S'era fatto buio e da un pezzo avevamo abbandonato la strada 128 per arrampicarci verso Seùi. La luce lattea della luna illuminava la valle del Flumendosa. Lee Jeane mi toccò la spalla delicatamente, quasi un niente, che percepii solo nel momento in cui parlò.
“Fermati appena puoi – disse in un soffio e poi – voglio godere questo momento e riempirmene.”
Ora il suo tono era nuovo, particolare, non ancora udito. La sua voce si era arrochita. Istintivamente mi girai. Lei mi stava già guardando e mi sorrise con tenerezza. I suoi occhi brillavano. La luna illuminava il suo viso in pieno. Non l'avevo mai vista così bella. Anch'io volevo riempirmi gli occhi della sua bellezza,
Dovetti percorrere ancora un paio di tornanti prima di trovare un punto in cui parcheggiare. Presi dal bagagliaio un vecchio maglione che tenevo per l'emergenza. Lei ristette seduta in auto per ancora qualche istante, immobile. Poi rapida tirò fuori dal secchiello una felpa che indossò in un un attimo. I suoi capelli lanciarono un paio di lampi quando li liberò dal cappuccio che ripiegò sulle spalle. Feci il giro dell'auto e le aprii la portiera. Le sue lunghe gambe uscirono unite e quando toccarono terra mi porse la mano L'aiutai ad alzarsi. Quando fu in piedi ci trovammo vicinissimi, ci separava una manciata di centimetri. Sentivo il suo odore di donna e il suo alito caldo mi accarezzò il viso. Attraversammo la strada accennando due passi di corsa e continuando a tenerci per mano. La sua era morbida e calda. Sotto di noi si apriva la valle del Flumendosa. Il silenzio era palpabile come non mai. Sfilò la sua mano dalla mia fece qualche passo verso il ciglio dello strapiombo e allargò le braccia come per abbracciare l'intero universo. Poi mi venne vicino, appoggiò le sue spalle sul mio petto e disse: “Abbracciami.” Lo disse dolcemente. Non era un ordine e neppure una preghiera. Misi le mie mani sulle sue e la cinsi, stringendola leggermente. Il suo corpo aderiva al mio. Sentivo l'alzarsi e l'abbassarsi del suo seno sulle mie braccia. Lei appoggiò la sua guancia sulla mia. Scostai leggermente la testa per baciarla e lei con un filo di voce disse: “Non farlo. Sarebbe banale.” Rimanemmo così, sotto la luna a guardare la valle e a raccogliere la fresca brezza della notte per un tempo infinito. Fu lei a sciogliersi, si rigirò per essermi di fronte mi accarezzò la guancia sinistra e mormorò: “Andiamo.” Tenendoci per mano riattraversammo la strada. L'aiutai a rientrare in auto e ripartimmo. Il silenzio parlava per noi.
Dopo pochi chilometri incontrammo sulla destra una strada bianca che pareva abbandonata. La percorsi per circa un chilometro quando fui colpito da un fascio di luce accecante. Frenai di colpo.
“Manrico che ci fai qui?” riconobbi la voce di Efisio.
“Efisio – risposi - sei pazzo ad accecare la gente con questa luce”
“Tu sei pazzo a venirtene a quest'ora senza avvisare, con il rischio di prenderti una fucilata. - gli occhi di Efisio si erano spostati su Lee Jeane - Che ci sei venuto a fare qua? E per giunta con una donna.”
“Siamo venuti per le costolette di capretto. Buone come quelle che sa fare tuo nonno non ce n'è.”
“Ge de creu (e ci credo) – chiosò Efisio in sardo – Bai ai nantisi maccu! (vai avanti, matto!).”
Percorremmo ancora qualche centinaio di metri e sullo spiazzo antistante la casa trovammo zio Gavino. Lo chiamo zio ma in realtà è il fratello di mia nonna Celestina. Da che è rimasto vedovo ha deciso di curare personalmente gli allevamenti della famiglia e si è trasferito in campagna. L'ho sempre visto vestito allo stesso modo: pantaloni , panciotto e giacca di fustagno nero, camicia bianca senza collo, stivali e berretto che si toglie solo quando entra in casa. Ancora adesso cavalca come un ragazzino.
Zio Gavino prima lanciò un'occhiata a Lee Jeane e quindi mi chiese, in italiano, perché fossi lì. Glielo spiegai e lui rispose che avevano ragione a chiamarmi su maccu (il matto). Quando gli presentai Lee
Jeane, lui si tolse il berretto, fece un inchino e baciò la mano che lei gli porgeva. Lee Jeane non fu per nulla sorpresa né confusa da questo gesto. Zio Gavino chiamò uno dei famigli e gli ordinò di preparare il fuoco, di togliere le costolette dalla ghiacciaia, di portare dell'olio, di recuperare qualche rametto di rosmarino e di stappare una bottiglia di Cannonau. Quando fu avvisato che tutto era a posto ci fece strada verso l'enorme cucina dove era il più grande camino che avessi mai visto. I due fraternizzarono immediatamente e mi esclusero dalla conversazione. Lui le svelava il suo segreto per ottenere costolette morbide e grasso croccante e lei gli diceva di quanto il Texas assomigliasse alla Sardegna, lui le raccontava la storia della famiglia e lei di quanto fossero lunghe le corna dei longhorn e brindavano a tutte le cose che avevano in comune. Ed erano tante. Era uno spettacolo vederli e quella sera zio Gavino cenò per la seconda volta. Quando fu passata la mezzanotte zio Gavino mi guardò e disse: “Stiamo risistemando tutte le stanze è rimasta solo la tua che immagino vorrai cedere a Lee Jeane.”
“E lui dove dormirà?” chiese lei
“Nel pagliaio. Come quando era ragazzo. Allora scappava dalla stanza per dormire nel pagliaio” rispose zio Gavino. E così fu.(continua 12 agosto - http://ilvicarioimperiale.blogspot.it/2014/08/la-cadillac-eldorado-color-verde-acqua_11.html)
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