La retorica, un po' piagnona,
del politicamente corretto vuole che quando un giornale chiude si
levino alti lai. E più il giornale è ininfluente più alti siano i lai. Nel caso del'Unità i lai sono altissimi. Con la
chiusura di un giornale, recita sempre la retorica del politicamente
corretto (comunque sempre piagnona) si perde un pezzo di democrazia e
di libertà. Cosa che da un certo punto di vista non solo è vera ma
è verissima: si perde la libertà di fare un brutto giornale che
pochi comprano e ancor meno leggono. Già, perché i lettori possono
democraticamente esercitare anche loro una qualche libertà: di
comprare i giornali che gli piacciono e di non comprare quelli che
non li convincono.
Nel panorama editoriale italiano
fogli con un numero di acquirenti che sta sui listelli di un
pallottoliere ce ne sono diversi, tenuti in piedi da tycoon brianzoli
o imprenditori dall'animo samaritano. Che però qualche cosa da
qualche parte ci devono pur guadagnare perché un conto è essere
samaritani e un conto è essere fessi. Anche se ai poveri cristi che
sono costretti a sbarcare il lunario in fabbrica (sempre meno) o in
ufficio (qualcuno di più) o ad arricchire il popolo delle partite
IVA o del precariato (tantissimi) dove stia il tornaconto di quelli
che Fortebraccio chiamava lor signori non l'hanno mai capito.
Peraltro non è cosa che si possa sbandierare alla luce del sole.
Come, d'altronde, certi odierni patti.
A piangere sulla scomparsa del
l'Unità sono i soliti di
sempre (anche Anna Maria Bernini di Forza Italia) con l'aggiunta di ex direttori, guarda caso proprio quelli che
il giornale, in epoche varie hanno contribuito ad affossarlo ben
bene. Forse non erano capaci? Dubbio amletico che ben volentieri si
può lasciare ai posteri. Tra questi però almeno due vanno
ricordati: Walter Veltroni e Peppino Caldarola.
Il
primo che mai è stato comunista, sono parole sue, ma berlingueriano
di fede, come se Berlinguer Enrico, che comunista diceva di essere,
facesse il segretario generale del Pci a sua insaputa. Anche se la
dizione del a sua insaputa
fu coniata qualche decennio dopo e per altro tipo di storia. Comunque
il buon Veltroni Walter, ben liquidato dalla Camera dei deputati e
già suo pensionato, quando fu direttore del giornale fondato da
Antonio Gramsci (altro comunista) riuscì a risollevare le sorti del
quotidiano arrivando a vendere anche 320mila copie. Ma solo il sabato
e col trucco. Nel senso che le copie erano vere ma non sole. Infatti
erano ben accompagnate da gadget di
vario tipo: videocassette,
audiocassette, libri ma anche riedizioni degli album delle figurine
Panini. Giusto per intendersi il film che iniziò la serie fu Ultimo
tango a Parigi. Grande
capolavoro si intende ma che andò a ruba nelle zone bianche e un po'
bigotte, Chissà perché. Operazione di promozione fantastica. Il
Veltroni ci provò anche con il marketing strategico da segretario di
partito ma fu un fiasco. Un conto è gestire la tattica delle
promozioni e un conto la strategia politica. Comunque con le
promozioni talvolta si mettono a posto i conti ma queste non possono essere
infinite e alla lunga stancano pure e quando i gadget
finiscono casca il castello, perché se manca la sostanza, il
prodotto, quello vero che il lettore compra, il fallimento è
assicurato. E questo chi lavora nel marketing delle aziende lo sa
bene. Ma Veltroni Walter ovviamente no. Comunque lui ha detto che:«
Senza l'Unità
siamo
tutti più poveri.»
Chissà che avrà voluto dire?
Ha
parlato anche
Caldarola Peppino, che de l'Unità
fu direttore due volte (errare
humanum est, perseverare autem diabolicum),
con un'intervista al Corsera (31luglio). In questa racconta che se il giornale
vuole rinascere deve cambiare nome (giusto per capitalizzare sulla
storia) che lui quest'idea l'aveva già avuta nel 1989, dopo la
svolta della Bolognina. Il nome che aveva in testa era Novità.
E
non è una battuta dadaista. La genialata consisteva nel fatto che le
ultime tre lettere – ità
– «fossero
uguali al nome precedente».
Che chissà cosa ci avevano di male le prime tre. Negli anni dei due
regni caldaroliani le vendite sono state direttamente proporzionali
alla creatività summenzionata: un disastro. Naturalmente Caldarola
Peppino nell'intervista di cui sopra non pensa neanche lontanamente
ad alcuna autocritica. Che non fa fine. Meglio la parte del solone. Anchwe lui pensionato della Camera dei deputati. Evviva.
Tutto
ciò posto va tuttavia ricordato che l'Unità
è stata una grande palestra di cultura su cui hanno scritto
importanti intellettuali, non solo italiani, del novecento: Hemingway
, Garçia
Lorca, Louis Aragon e anche Italo Calvino, Elio Vittorini, Cesare
Pavese, Pierpaolo Pasolini ed è un peccato vedere un simile
patrimonio culturale sparire. E che è arrivato a diffondere fino ad 1milione di copie. Ma un giornale per essere tale deve
vivere di lettori e se i lettori non comprano un motivo certo c'è. E
non si può dare la colpa al «destino cinico e baro» ma piuttosto a
coloro che non hanno saputo cogliere il sentire della società e poi
gestire la gran quantità di denaro che l'Unità
ha ricevuto negli anni.
Adesso
le lacrime sparse sul prossimo centinaio di disoccupati assomigliano
molto a quelle dei coccodrilli che piangono dopo aver mangiato.. E veder piangere i satolli fa
crescere la rabbia.
Come si fa a vendere un quotidiano necessitato ad appiattirsi sul governo Renzo?
RispondiEliminain qualche modo l'Unità restava una bandiera per quanti militavano o simpatizzavano per il Pd , ma con ancor viva la memoria del Pci;; un numero di miiltanti che , per il solo passar degli anni, era inevitabilmente sempre minore; Passa la storia, passa la vita e passano anche i giornali ed a mantenere in vita le culture politiche del passato non bastano le bandiere se non sono accompagnate da una costante scuola di pensiero politico;e gran parte degli ex comunisti si sono trovati a coltivare memorie che essi ste
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