Ciò che possiamo licenziare

domenica 30 novembre 2014

Il Paese va a rotoli e loro giocano.

Berlusconi fa la parodia di Cetto La Qualunque, D’Alema pur di dar addosso a Renzi dice peste e corna delle sue scelte di quindici anni fa. Renzi distribuisce patenti d’eroismo che se si prendesse qualche weekend lungo non farebbe male. Intanto diminuiscono i consumi, cresce la disoccupazione e 11 miliardi delle tredicesime finiranno per pagare Imu, Tasi e balzelli vari.

Ci fosse ancora Totò direbbe: «c’è da scompisciarsi». A seguire le dichiarazioni dei vari personaggi che calcano il palcoscenico della politica peracottara. Sembrano ragazzini in gita scolastica: giocano. Galletti sempre pronti a beccarsi su tutto e non importa quale sia il tema all’ordine del giorno.

Berlusconi fa la caricatura di Cetto La Qualunque e  gli viene benissimo: quasi meglio dell'originale. Promette meno tasse per tutti come quell’altro prometteva «più pilu per tutti». Poi, come un televenditore, ci aggiunge l'aumento delle pensioni minime a 1.000€ e, non contento,  essendo uno che ha il cuore in mano e pure grande ci mette anche le dentiere gratis. Si vede che l’igiene dentale è rimasto un suo chiodo fisso. E gli porta alla memoria graziosi ricordi. Poi disquisisce sulle prossime elezioni per la presidenza della Repubblica e, a detta de commentatori che sembrano dei bookmaker, gioca spiazzare Renzi e a lasciarlo con il cerino in mano ponendo veti su questo e su quello e con l’aria di fare un favore chiede che tutto sia posticipato al giorno di poi del mese di mai. Tenendo comunque a specificare che la situazione è grave e lui lo deve dire. Che se magari tacesse questa sarebbe meno grave. Almeno per il sistema nervoso di quelli che ricordano aerei in overbooking e ristoranti pieni.

Renzi risponde dando patenti di eroismo, neanche si fosse sul Piave a tutti gli artigiani e imprenditori che si alzano al mattino. Come se operai, impiegati, contratti atipici, partite iva e precari non facessero lo stesso. Per informazione al vulcanico giovane presidente si aggiunge che anche i disoccupati, o come si usa dire i «diversamente occupati», lo fanno. Di alzarsi la mattina. E forse questi ultimi sono anche pià scattanti dei precedenti. Detto così, a spanne che ad entrare nei dettagli ci si fa solo male. Poi già che c’è anche lui dice che vuole abbassare le tasse, ma intanto non sa farsi rispettare dai petrolieri che non abbassano il prezzo della benzina e neancheriesce a riscuotere i crediti pregressi. Sarà poi da vedere se seguirà i suggerimenti della Corte dei Conti sull’8 per mille alle confessioni religiose. Che se ognuno si pagasse privatamente la sua chiesa e la sua fede sarebbe nel suo diritto e magari nel suo dovere. Ma sui fatti il fiorentino e i suoi paggetti e le sue ancelle latitano.

Chi non vuole latitare è l’immarcescibile Massimo D’Alema che intervistato questa volta da Paolo Valentino anziché dal solito Di Vico (che deve aver chiesto una dispensa) ha affermato che rifare quello che fece lui quindici anni fa sarebbe sbagliato. In verità in molti già lo sapevano e pure da quindici anni. Comunque pur di dare addosso a Renzi dice tutto e il suo contrario: sconfessa tutto o quasi quel che fece durante il suo governo che se non ci fosse mai stato ci si sarebbero risparmiati non pochi dei guai di adesso. Quindi, obnubilato dalla sua foga guerriera arriva addirittura a dire che bisogna fare più investimenti e anche pubblici. Che è proprio quel che sostiene Renzi. Ma non aveva detto dalla Gruber che ormai faceva un altro mestiere e girava il mondo? Perché non continua a farlo, il giramondo, e, come dicono i giovani non ci molla?

Nel mentre che i ragazzi guazzano nella pozzanghera della politica politicata la disoccupazione giovanile è salita al 43,3%, e quella generale al 13,2%, con l’incremento dell’1% dall’inizio dell’anno. Sei italiani su dieci hanno deciso di tagliare le spese natalizie (che tradotto per i cervelloni di cui sopra vuol dire meno consumi) e ben 11 miliardi delle tredicesime serviranno per pagare le varie tassazioni: Imu, Tasi ed addizionali varie. Poi bastano due gocce di pioggia e intere città finiscono sott’acqua. Le case popolari cadono a pezzi e solo a Milano ci sono migliaia di vani vuoti. E gli spazi vuoti, è una legge fisica, vengono riempiti, si sa.  Come tutto questo non fosse sufficiente c’è anche il pasticcio del bonus mamme lanciato nientepopodimenoche dal governo Monti. Dopo due anni non è chiaro a quanto ammonterà quali i limiti di reddito e neppure i tempi di erogazione. Probabilmente verrà consegnato quando i pargoli partiranno per il servizio militare. Ma ci saranno ancora la controfigura di Cettolaqualunque, un mezzo conte megalomane e un fiorentino dalla lingua sciolta. Auguri

venerdì 28 novembre 2014

Chi contro Renzi? Nessuno, uno, centomila.

Le ricerche dicono che l’approccio personalistico venga vissuto come concretezza. Ma lo affermavano prima delle ultime elezioni regionali. Adesso, sembra, che il leader lontano sia più debole del leader vicino. Se Renzi non sembra avere un avversario tra i big nazionali degli altri partiti forse ne può trovare centomila tra quelli locali.

Pirandello senz’altro apprezzerà il titolo. già di suo amava il paradosso e perdonerà pure che sia utilizzato, un po’ stiracchiato, per una questione non così importante e filosofica come la comprensione del proprio essere.  Al dunque questa è la domanda che attanaglia la stragrande maggioranza dei commentatori politici, giornalisti, conduttori di talk show e magari anche qualcuno degli elettori. Che trovarli in questi giorni diventa pure difficile.

Chi contro Renzi? Fino ad oggi la risposta sembra essere:«nessuno» Non viene in mente alcun nome nell’attuale panorama politico che sembri in grado di contrastare l’asfaltatore. Anche i più giovani come Fitto o come Alfano o come Cattaneo, sembrano non vecchi ma addirittura decrepiti: sono lì già da una vita. Da troppo tempo girano nel fantastico mondo della politica. Gli altri fanno parte del paleolitico. E Renzi di tutto questo se ne fa una ragione come peraltro  del dissenso del sindacato e anche della scarsa affluenza alle urne. E probabilmente si è fatto una ragione anche che il suo governo esista e che i sondaggi dicano che se si votasse adesso lui, nonostante il calo di consensi, vincerebbe alla grande. Quindi chi contro? Nessuno.

Però qualcuno episodicamente ci prova a lanciare una candidatura. Magari a titolo personale. E qui entra in ballo l’uno pirandelliano. «Uno» è Salvini e «uno» è Passera. Qualche settimana addietro ha fatto una fugace apparizione come «uno» anche Diego Della Valle. Adesso è in ombra ma magari poi riappare. Cuperlo, Civati e Fassina forse hanno il buon senso di non considerarsi un «uno» che poi a stare a strascico se ne guadagna. Però, però. c'è Salvini, è come Bossi tutta demagogia nazionalpopolare o, lui lo preferirebbe, federalpopolare. E le sue cento felpe sono lì a dimostrarlo. E’ un Bossi in formato giovane, sguaiatello, senza competenze, già bollato in Europa come «assenteista» e definito da Maurizio Ferrara semplicemente  «un attaccamanifesti.» E Ferrara è uno che di patacche se ne intende non foss’altro per quelle che sostiene da trentanni e più. Data dalla sua conversione a Craxi

C’è anche Corrado Passera  che, lo ha dichiarato ufficialmente, si candiderà come aspirante premier per il centrodestra o i moderati o comunque per quelli non di sinistra. Si porta dietro, ahilui, non pochi “peccati mortali”: essere stato ministro del governo Monti e prima ancora amministratore delegato di banche che di loro non hanno un bel posizionamento nell’immaginario collettivo. Ma non solo: ha passeggiato anche con i capitani coraggiosi che hanno affossato Alitalia, facendola pagare ai contribuenti. Precedenti pesanti per presentarsi come il garante del bene comune. Forse se ne possono trovare di meglio. Ma si vedrà.

Le ricerche, però, dicono che nell’attuale contesto l’approccio “personalistico” pare funzionare e che sia anche considerato un elemento di concretezza. Ma le ultime elezioni in Emilia-Romagna suonano diversamente: non si va a votare per il leader regionale, lontano,  ma ci si sposta per quello locale:il sindaco. Lui lo si conosce e si sa cosa può fare e cosa no. Come dire che i centomila del territorio possono sparigliare. Che senz’altro è cosa che piacerebbe a Pirandello. Potrebbero i «centomila», se i singoli territori ne avessero la voglia e magari anche un po’ di capacità, connettersi e fare rete. E allora magari ogni singolo potrebbe mandare a Roma il politico che conosce meglio e di cui si fida. Che poi sarebbe un vincere facile: centomila contro uno solo. Si vince a mani basse. Lo dice anche la pubblicità.
La domanda è: chi si candida a fare da federatore dei centomila?


mercoledì 26 novembre 2014

Votare non è più di moda.

Dopo l’Emilia-Romagna e la Calabria anche la Camera dei deputati si adegua al nuovo trend. Nelle regioni non hanno votato di domenica che è giorno di festa e di santificazione. Nel Parlamento non l’hanno fatto di martedì che è giorno feriale e di lavoro.

Le mode, è appurato, non si sa dove nascano ma le si vede bene quando si consolidano.  È successo per l’hula-hoop, la minigonna, i capelli lunghi e poi la rasatura che è partita con gli skinhead dell’estrema destra per finire a nascondere la alopecia di manager, giornalisti e garzoni. E alla fine è giunta pure in Parlamento. E ci mancherebbe: il Parlamento è il collettore delle istanze popolari. E dunque in Parlamento è arrivata pure la moda del non-voto, che fra un po' si scriverà senza trattino e diventerà una parola nuova. In fondo il parlamento mica sta fuori dal mondo. Anzi.

Così dopo i calabresi e gli emiliano-romagnoli anche i parlamentari hanno deciso di non votare. Per cose importanti ovviamente perché invece ad astenersi sulle intriganti proposte della aspirante presidente della Repubblica Roberta Pinotti sulla “istituzione della banca del tempo” o sulla “istituzione della giornata dell’inno nazionale” non ci pensano proprio. Questa volta i non votanti alla Camera per il renziano Job Act sono stati solo il 48%, numerello ancora basso. Per questa volta non sono riusciti ad eguagliare il primato regionale ma d’altra parte si è solo agli inizi. Ci si rifarà alle prossime occasioni. D’altra parte mettendo in campo gente del calibro di Civati (il-vado-ma-no-resto), Cuperlo (lo scrittore dei discorsi di D’Alema) e Fassina (quello che si è arrabbiato perché non è stato nominato ministro ma solo sottosegretario) senz’altro si potrà fare di meglio. Senza contare poi che ci sono le vecchie volpi della Lega Nord come Bossi (c’è ancora) e  le valchirie forziste (anche loro ci sono ancora) e poi quelli di Sel (i non attratti dalla sirena Renzi) e infine i giovani virgulti del M5S. Ce la possono fare senz'altro. Con un po’ di impegno.

A parziale scusante per non aver raggiunto il top c’è da dire che i deputati si sono trovati a votare di martedì che è giorno feriale mentre agli elettori delle regionali hanno potuto esercitare il loro non-voto di domenica, il che è un bel vantaggio. Nei giorni di festa è più facile trovare delle scuse per sgattaiolare e, come dicono a Roma “darsi”. Di martedì invece è più difficile: inoltre per molti è il primo giorno lavorativo e si è più notati se ci si è piuttosto che se non ci si é. Almeno così è risolto il quarantennale dubbio morettiano: li si nota di più quando ci sono soprattutto perché per non pochi è un fatto eccezionale. Quindi la buvette è stata più affollata del solito e gli abitué se ne sono lamentati.

Come per le regionali Renzi ha esultato e l’ha fatto via twitter, ci mancherebbe altro, scrivendo «più tutele e lavoro» come se il lavoro potesse nascere per decreto. Queste cosucce il suo amico Marchionne potrebbe anche spiegargliele, nei momenti di pausa tra la stesura di un piano industriale e l’altro. Sul fatto che in aula fossero in pochi il Renzi se ne è fatto subito una ragione, come in quattro-e-quattro-otto, se l’era fatta per la scarsa partecipazione alle regionali. Poi, come dire, meno si è e più facile è governare. Meno interruzioni, meno opposizioni, meno chiacchiere. Tutto sommato meglio così. E poi, a dirsela chiara, chi sta cambiando il Paese non può perdere tempo con i dettagli anche se in questi si nasconde il diavolo, che notoriamente fa le pentole ma non i coperchi.


A rimanere in aula e a votare a favore del provvedimento c’è rimasto Bersani e un manipoletto dei suoi. Lui dice che l’ha fatto per il «bene della ditta» ma forse è perché non sa che pesci prendere. Comunque se la moda del non-voto prende piede stabilmente anche in Parlamento verrà più facile sfoltirne i ranghi. Così, tra amici, si gestisce meglio e pure si risparmia. Che di questi tempi non è poco. 

lunedì 24 novembre 2014

Calabria rossa

La Calabria si scopre terra rossa mentre l’ex rossa Emilia terra di conquista dei neo gallo-celti d’altra parte Bologna fu fondata dai Galli Boi. A votare vanno sempre meno. Le prossime elezioni in uno stadio per farle poi nel salotto di casa. Fino a quando gli assenti non decideranno di tornare presenti.

I vincitori: Gerardo Oliviero e Stefano Bonaccini
Adesso oltre ai giovani (ma questa è storia vecchia), alle mezze stagioni (di cui si dice da qualche decennio)  ed al potere dei sindacati (che invece è storia nuova)  neanche le regioni sono più come quelle di una volta. Tra Emilia-Romagna e Calabria la regione rossa adesso è la seconda, dove viene eletto un vecchio bersaniano che passa il turno con il 61,39% dei consensi. 

Oddio il numero suona tondo e anche un pochetto roboante se non fosse che a votare ci sono andati in pochini: solo il 44%. Ma che è un bel po’ di più della percentuale raccolta nella terra del liscio, del gnocco fritto e della (una volta) partecipazione: uno striminzito 37,7%. E allora a ben guardare il nuovo Governatore della Calabria è stato eletto con il consenso del 27% dei calabresi in età di ragione. Che non è poco ma a ben vedere non è neppure così tanto.  Mentre quello dell’Emilia ex rossa porta a casa un 44,52% che poi, nella realtà vera, è uno stiracchiato 16%. Ma ognuno si inganna come crede.

Una volta gli sconfitti delle elezioni guardavano i dati con la lente di ingrandimento e per dire d’aver in qualche modo vinto facevano raffronti con anni lontani o andavano a scovare minuscole località e le portavano a testimonianza dell’incremento di voti o di percentuale. Lo fece anche il povero Bersani nel 2012, pare oltre un secolo fa, quando andò a contrapporre alla sconfitta di Parma la vittoria di Budrio. Paese di ocarine eletta a nuova Stalingrado. Tenerezze d’altri tempi.

Adesso chi vince fa il contrario: non guarda nulla. Nulla che non sia l’ultima riga del verbale elettorale, quella che riporta i seggi ripartiti per partiti e non si perita di notare  quanto gli manca tutto attorno. E così si esulta per il 2 a 0, alla Renzi, dicendo al massimo che sì l’affluenza alle urne non è stata tanta. Pazienza. Andrà meglio la prossima volta. Come pure esulta l’aspirante gallo-celta Salvini, che si chiami Matteo come l’altro, dev’essere uno di quei colpi gobbi di cui è piena la storia, che si ringalluzzisce per il risultato emiliano-romagnolo che si scrive 19,42% ma va letto come 7,32%. E nella foga dell’esaltazione si dimentica di rivendicare che Bologna fu fondata dai Galli Boi e magari adesso toccherà vedere bolognesi con corna e spadoni mettersi a bere l’acqua del Savena o del Reno. Entrambi,i vincitori, uno un po’ più uno un po’ meno, si appropriano delle penne altrui per parere un po’ più belli: Salvini dei voti e dei seggi di Forza Italia e di Fratelli d’Italia mentre Renzi di quelli di Sel e di due altri minori.

Ma per fortuna c’è la Calabria, terra rossa, seppur di recente conio, dove il Pd si vanta del 22% dei voti che poi letti in filigrana diventano un poco meno del 10%. Ma l’importante al solito è crederci. E gli eletti, si sa, sono disposti a credere a tutto. In tutti i campi, e in tutti i tempi. E qui al Pd è andata pure bene perché, al di là degli sparuti cinque stelle, gli altri concorrenti erano i nuovi amici del Nazareno e i discepoli di Alfano. Come dire il nulla.

Se si andrà avanti di questo passo le prossime consultazioni si terranno in uno stadio, poi in una palestra  e sempre più a rimpicciolire lo spazio fino ad arrivare al giardino e al salotto di casa. E lì i capi di partito finalmente godranno per intero. Salvo che nel frattempo gli assenti non tornino presenti.
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http://ilvicarioimperiale.blogspot.it/2012/05/budrio-e-la-nuova-stalingrado-ditalia.html

venerdì 21 novembre 2014

Eternit: il diritto si mangia la giustizia.

Iacoviello: «Talvolta accade che diritto e giustizia vadano da parti opposte» Il reato ambientale si è esaurito con la chiusura dello stabilimento nel 1986. I morti sono altra cosa.  Dice la difesa che il reato non è agganciato alle morti. Autunno felice per l’avvocato della difesa Franco Coppi, in poco più di un mese due assoluzioni eccellenti: Eternit e Berlusconi.

A sentire le parole pronunciate del sostituto procuratore generale della cassazione Francesco Iacoviello durante il processo contro Stephan Schmidheiny proprietario superstite di Eternit tornano  alla mente, quei bei compiti di matematica in cui tutti i passaggi erano giusti ma il risultato finale sbagliato. Ci si impazziva sui quei compiti così come oggi si impazzisce sulla sentenza dell’amianto. Si dice che un conto sia il diritto (la legalità) ed altro la giustizia. Piacerebbe ai semplici che i due termini fossero sinonimi.

Dice Iacoviello: «[l’imputato] è responsabile di tutte le condotte a lui ascritte» e «Per reati come le morti per amianto che ha latenza di decenni serve un intervento legislativo» e «[talvolta accade che] diritto e giustizia vadano da parti opposte». Perfetto quindi condanna. No:«Reato prescritto» Che della prescrizione non si sono accorti né i giudici di primo grado né quelli d’appello. Delle due l’una : o i primi erano ciechi o i giudici della Corte di Cassazione hanno rimirato il codice con la lente d’ingrandimento e scovato un codicillo piccolo piccolo, se lo son baloccato fino ad ingrandirlo all’inverosimile e quindi «Reato prescritto.» Che la prescrizione era più che conclamata se si fa risalire il tutto al 1986 anno di chiusura dello stabilimento mentre invece scoppia come un palloncino portato a contatto con un aghetto se si sta a guardare la macabra contabilità dei morti. L’ultima in ordine di tempo l’hanno seppellita sabato 15 novembre 2014. E come non bastasse in aula c’era anche chi per respirare ha bisogno della bomboletta dell’ossigeno e sa con certezza che per lui i giorni son contati con più micragnosa pignoleria. 

Diceva Cesare Beccaria che: «Non v'è cosa più pericolosa di quell'assioma comune che bisogna risalire allo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinione.» Forse nessuno ha parlato di spirito della legge ma è come se così fosse stato fatto  Si giustificano i giudici, ed è ben triste faccenda quando i giudici si devono giustificare,  che loro non eran lì per sentenziare sui morti.  No, certo. Erano lì per altro:« oggetto del giudizio era esclusivamente l'esistenza o meno del disastro ambientale, la cui sussistenza è stata affermata dalla Corte, che ha dovuto, però, prendere atto dell'avvenuta prescrizione del reato essendosi l'evento consumato con la chiusura degli stabilimenti Eternit, avvenuta nel 1986, data dalla quale ha iniziato a decorrere il termine di prescrizione. Non erano, quindi, oggetto del giudizio i singoli episodi di morti e patologie sopravvenute, dei quali la Corte non si è occupata.» Che se il disastro ambientale in questione abbia generato le patologie e i morti che già sono stati e di altri che a stretto giro saranno, questo è un puro accidente della storia. Come dire che si processano le uova e non la frittata. 

Ha commentato il legale della difesa Franco Coppi che è stato «Un reato [di disastro ambientale] non agganciato alle lesioni e alle morti.» Che per agganciarlo chissà che si doveva fare.  In ogni caso per arrivare a questo risultato ci sono voluti cinque anni. Da decidere se sono tanti o sono pochi.
Comunque ad oggi i morti più o meno sono stati 2.200 ma la storia non è finita poiché il picco delle morti è previsto a cavallo del 2020 e poi, come sempre, dopo il picco ci sarà la striscia della discesa. Assai lunga e ugualmente dolorosa. Adesso il pubblico ministero Raffaele Guariniello si prepara a rilanciare sul  processo bis, questa volta tutto centrato sull’accusa di omicidio. A questo punto ci si domanderà se dopo la sentenza di Cassazione e il rilancio del processo bis per omicidio le multinazionali avranno più o meno paura di come viene gestita la giustizia, pardon, il diritto in Italia.

Restano a corollario di tutta la faccenda la dichiarazione della difesa dello svizzero Schmidheiny che suona così: «Ora basta processi ingiustificati.» Che infatti non piacciono a nessuno e in più costano. E come secondo il trascurabile fatto che stabilimenti Eternit con la loro polverina bianca di amianto pare siano attivi in Cina e Brasile.  Come dire che i padroni di Eternit di quanto successo in Italia han capito poco o punto e in ogni caso non ne hanno  tratto alcuna lezione.

A chiusura un’altra frase di Cesare Beccaria: «Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che di impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.» 

A margine della vicenda la constatazione che questo sia stato un autunno fortunato per l’avvocato Franco Coppi che in poco più di un mese ha ottenuto due vittorie importanti: il caso Ruby Berlusconi e questo di Eternit. Complimenti.

Verrebbe da dire: good night, good luck.

mercoledì 19 novembre 2014

Piove: governo ladro!

La frase ha origini antiche: risale al lombardo veneto. Con la pioggia viene  a galla quanto è stato rubato di territorio, di sicurezza e anche di denaro, ma soprattutto di civiltà. La pioggia fa danno quando annaffia l’ignoranza e l’ingordigia. Che i ladri se ne vadano con la piena.

I lapidari detti del popolo ed i proverbi assai spesso, per non dire sempre, racchiudono preziose perle di saggezza che col tempo sono viepiù scoperte ed apprezzate. 
Il detto «piove: governo ladro» per anni, decenni e magari anche un secolo e mezzo è stato considerato come un’affermazione qualunquista di nessuno spessore politico che stava sulla bocca dei perennemente scontenti. Gente di poca cultura che pur di parlar male degli altri e specificatamente del governo (per dire quelli che contano) era pronta a cogliere ogni occasione. Sembrava, ma così non era. La saggezza popolare sa addirittura precorrere i tempi. Come dire: il popolo ha l’occhio lungo. Che se poi ci vedesse anche da vicino non sarebbe male. Ma questa è un’altra storia.

Non che quando l’affermazione venne utilizzata per la prima volta si vivesse un’era dell’oro, che francamente nel Belpaese quando si sono palesate situazioni brillanti hanno avuto la breve durata dello spazio di un mattino, tutt’altro. Pare che la frasetta sia originaria del lombardo-veneto, dominazione austriaca, quindi risalga agli inizi dell’ottocento e fosse in relazione al fatto che con le piogge il raccolto sarebbe stato (forse) più ricco e quindi maggiormente tassato. I contadini così imprecavano alla pioggia (che mette l’umido nelle ossa) e contemporaneamente al governo. Anche i polentoni d’antan avevano il lamento facile e nel loro innocente petto ancor batteva l’anelito dell’Alberto da Giussano, Bei tempi quelli. Poi sono venuti i moderni amici del carroccio che non gli sovvengon più né le calen di marzo né i vestiti fatti di sacco ma solo i figli, le mogli, le amiche e le amichette e poi le scuole e le banche e i diamanti e le famiglie varie e si son dati da fare per stare dall’altra parte. Quella del governo che con la pioggia è ladro. Son cose che capitano.

Oggi l’imprecazione, se proprio la si vuol definire tale che forse è piuttosto un’affermazione ben corroborata da prove, calza a pennello. Con la pioggia viene a galla quanto è stato rubato. S’è rubato territorio e sicurezza e qualche vita ma soprattutto civiltà. Talvolta s’è rubato anche denaro come nel caso di opere mal fatte che si sono inghiottite, chissà come e chissà da chi, milionate di euro (che se poi gli importi fossero riportati alla vecchia liretta i mancamenti verrebbero al volo) e poi magari, ma è brutto dirlo, ci son state anche tengentine, tangenti e tangentone a volte finite in casse di partito e a volte (forse le più?) in tasche private. E i colpevoli, pure con poca voglia e scarso impegno, si possono ben vedere anche perché stan sempre lì. E scansarli vien difficile.

I condoni sono un furto, le locali concessioni edilizie che permettono di costruire dove non si deve sono un furto e lo sono anche le conseguenti opere di urbanizzazione. Sono un furto gli interramenti dei corsi d’acqua e anche di più la loro non manutenzione. L’incapacità di gestire è un furto. E sono un doppio furto, all’intelligenza, come dire al buon senso e al territorio rivestire gli argini di cemento che così non solo l’acqua non viene assorbita ma alla bisogna acquista maggior velocità e con più forza va a sbattere contro i piloni dei ponti ed ogni altro ostacolo. E c’è anche furto di coscienze da parte di chi nel nome del popolo (per non dir dei deboli) inneggia alla crescita e allo sviluppo senza vedere l’impatto sul contesto. 

Che a rubare siano tutti, un po' di qua e un po' di là,  non li fa tutti assolti nella logica del mal comune mezzo gaudio, ma solo pronti, tutti, ad essere cambiati. E che se ne vadan con la piena. 
Piove, governo ladro.. E via i ladri dal governo. Anche se è programma troppo ambizioso. Ahinoi.

martedì 18 novembre 2014

Ci si ammazza di meno ma si ruba di più.

La percentuale di incremento dei reati pare bassa, 2,6%, ma il numero assoluto è impressionante. Molti reati,  quelli contro la persona e quelli di corruzione, spesso non vengono denunciati. Un po’ c’entra anche la crisi ma neanche tanto. 

Apparentemente ci sarebbe da rallegrasi: una vita vale di più di un oggetto, e questo è ovvio. E quindi pari e patta. In teoria. Nella pratica le cose son ben diverse. Soprattutto se ci si imbatte nel concetto della statistica che Trilussa definiva così:
Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d'adesso
risurta che te tocca un pollo all'anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t'entra ne la statistica lo stesso
perch'è c'è un antro che ne magna due.

Conviene allora fare un po’ di conti e raffrontarsi con i numeri. Quelli veri. Che pur anche sommati, divisi o sottratti, pari e patta per davvero non la fanno mai.

Il rapporto del ministero dell’Interno racconta infatti che il numero dei reati nel 2013 è aumentato, complessivamente, del 2,6% che magari pare pure una piccola percentuale ma che in numeri veri racconta che questi sono stati la bellezza (si fa per dire) di duemilioni e novecentomila. Messi tutti in fila l’uno dopo l’altro e, soprattutto, rapportati con il numero dei giorni, delle ore e dei minuti, sempre secondo le bizzarre regole della statistica si scopre che la legge penale viene quotidianamente infranta 7.945 volte il vuol dire 331 ogni sessanta minuti e 5 ogni secondo che passa. In altre parole prima che sia finita la lettura di questo pezzo saranno stati commessi all’incirca 1.655 reati. Il che non è male. Si fa sempre per dire.

Calano dunque i morti ammazzati, che comunque sono stati 502, un po’ più di uno al giorno, ma per il resto le cose non si son messe proprio bene. Sono aumentate le rapine, + 10% e le estorsioni  + 9%, ed anche i furti in appartamento, + 6%, che sono stati oltre 250.000. E questi son dati solo quantitativi che altro sarebbe poter considerare qual è il peso che implicano in valore sia monetario sia, soprattutto, di costo sociale. Nella speciale classifica  dei reati con maggior incremento si stanno facendo largo le truffe informatiche che toccano il picco del + 16% rispetto all’anno precedente. Perché i reati evolvono con l’evolvere della società: più internet più reati attraverso la rete. Vien da dire che è naturale.

Tuttavia sono da aggiungere un paio di questioni: la prima è che non sempre all’azione delinquente corrisponde una denuncia ed è il caso della violenza verso la persona ed in particolare della violenza domestica verso le donne che troppo subiscono e troppo tacciono. Senza dire della corruzione, delle estorsione e del riciclaggio. La seconda è che il senso di insicurezza ormai inghiotte oltre il 50% degli italiani. Il che non è rassicurante.


E la crisi in tutto questo? Senz’altro gioca un ruolo ma nella parte bassa del mercato della illegalità che anche per la delinquenza ci vuole una certa professionalità e chi fino all’altro ieri era operaio o impiegato o  magari anche appartenente alla categoria del middle management non è formato a questo mestiere. 

martedì 11 novembre 2014

Rieccolo: è D’Alema.

Attacca un po’ l’Europa dei politici, ma anche le banche italiane che si sono domiciliate in Lussemburgo, come se lui venisse da un altro mondo. Rivendica di aver pensato a una donna per la presidenza della Repubblica prima di tutti. Minaccia la scissione ma poi si impapocchia. E ci si chiede perché c’è Renzi.

Si avvicina l’elezione del Presidente della Repubblica e forse, a stretto giro anche quelle politiche e quindi rieccolo: è D’Alema. 
L’idea di poter ancora una volta trafficare su qualcosa di importante, di manovrare dietro le quinte e di immergersi in estenuanti trattative talvolta fa resuscitare anche i (politicamente) morti e questo si presenta come uno dei casi da manuale  Da qualche settimana del D’Alema si erano perse le tracce e i più se ne stavano facendo seppure festosamente una ragione, quando si è diffusa la voce che Giorgio Napolitano potrebbe dimettersi nel giro di qualche mese ed eccolo allora rimettersi nuovamente in moto. Uomo senza pace.

Blocco di partenza questa volta è stata la trasmissione di Lilli Gruber graziando così il Corriere della Sera e l’ottimo Dario Di Vico impegnato  in una serie di assai interessanti articoli sul tema del lavoro.  Sparring partner un po’ annoiato e appena sottopelle anche un tantinello antipatizzante è Beppe Severgnini. L’intervento di quello che lo spiritoso Cossiga definiva il più intelligente è stato vacuo e, nella sostanza inutile. Impietosamente ripreso in campo lungo così da mostrarlo appollaiato sullo sgabello con i piedi a venti centimetri dal pavimento l’ex lìder massimo ha spaziato su quasi tutto: l’Europa mal gestita dai politici, Jeam-Claude Juncker che dovrebbe, forse, dimettersi e le banche che pagavano le tasse in Lussemburgo. Cose che non si fanno. Chissà lui dov’era: otto legislature (qualcuna per suo merito corta) in Italia ed una in Europa.

Comunque ha tenuto ha spiegare che:«Oggi giro il mondo e faccio un altro mestiere.» meno male. Però è sempre qua. Se viaggiare  era la sua aspirazione avrebbe potuto arruolarsi già diciottenne nella Marina Militare che proprio questo ha sempre promesso ai giovani di belle speranze: «Diventerai un tecnico e girerai il mondo.» Il mondo lui l’avrebbe girato prima e agli italiani sarebbero stati risparmiati altri giramenti. Peccato che il giovane D’Alema non abbia colto a suo tempo questa opportunità e si sia messo a seguire le orme del papà che fu deputato per cinque legislature che allora erano lunghe e quindi fa un totale di venticinque anni. Ma si sa che nel Belpaese i figli dei farmacisti fanno i farmacisti quelli degli avvocati si ritrovano avvocati e quelli dei politici non possono quasi mai scantonare: politici anche loro. Peccato.

Un po’ maliziosamente la Gruber ha fatto notare al suo ospite di aver perso l’occasione di diventare Mr. Pesc e che, pure in questa tornata, non ci sia per lui alcuna speranza di aspirare alla sostituzione di Napolitano. Il nostro sulla prima ha sorvolato mentre sulla seconda ha risposto:«Io penso che è tempo (per lui i congiuntivi sono sempre stati un optional) di eleggere  una donna.» La Gruber ha sottolineato che  è la stessa opinione della Boldrini e qui il vecchio leone ha reagito da par suo: lui l’aveva detto prima. Sottolineatura fondamentale da tramandare ai posteri. Così come, sempre grazie a lui, l’Italia ha avuto Ciampi e Napolitano perché il suo intervento in entrambe le elezioni è stato cruciale. Chi mai avrebbe potuto metterlo in dubbio.

Chicchetta (nel senso di piccola chicca) della trasmissione, il D’Alema prima ha minacciato la scissione «Se qualcuno pensa che la sinistra, lasciamo stare la generazione, abbia smobilitato si sbaglia. Fa un calcolo sbagliato e secondo me si troverà di fronte a qualche sorpresa.» Quale sorpresa? « Beh, che a un certo punto una parte di questo partito prenda un’attitudine più combattiva. Nel senso che la pazienza se sfidata oltre un certo limite potrebbe ….» Potrebbe cosa? «Sempre minoranza resta ma potrebbe alternarsi, maggioranza, minoranza si può tornare maggioranza dipende la vita politica è piena … anche qui non è finita la storia.» Proprio un bel discorsino sembrava di ascoltare Ferrero, il Presidente della Sampdoria. Il tutto condito dal solito armamentario: l’intercalare «Diciamo», lo sguardo talvolta perso nell’infinito, risatine solitarie e mossettine  alla Ridolini. E poi ci si domanda perché il partito prima e gli elettori poi abbiano scelto Matteo Renzi: non perché sia più bravo ma semplicemente perché è meno peggio. E la quantità di peggio che il fiorentino si è trovato di fronte era veramente tanta,troppa. Bastava di calare solo di un pochetto.

lunedì 10 novembre 2014

Roberto Calderoli il vendicatore.

Dopo i fatti di via Erborosa a  Bologna ha preso la parola il truce Caldseroli. Parla di vendetta e di legge del taglione. Da irresponsabile ha  sommato alle due precedenti imbecillità la sua terza. Magari vorrà calzare l’elmo con ampie corna e correre a vendicare l’oltraggiato orgoglio padano. Faccia attenzione alle arti magiche delle fattucchiere rom.

Roberto Calderoli si deve essere ripreso dalla fattura voodoo che pensava gli avesse rifilato il padre dell’ex ministro Kyenge e come prima reazione ha ripreso a parlare. Anche se «parlare» nel caso specifico sembra essere una parola grossa.  Comunque le sue parole sono state: «Non è più tollerabile che i balordi dei centri sociali possano continuare a esercitare violenza e a calpestare le regole della democrazia e del codice penale. Se non li fermeranno le Forze dell’Ordine non porgeremo l’altra guancia ma verrà la legge del taglione. Occhio per occhio, dente per dente. Si tratta di gentaglia e di parassiti, una forma di fascismo, tollerato da una sinistra che ha sempre loro strizzato l’occhiolino»

Calderoli ha dato fiato ai suoi polmoni in diretta conseguenza a quel pregevole teatrino messo in scena il suo segretario federale, Matteo Salvini. Come noto il segretario padano ha pensato bene di andare a controllare lo stato dei pagamenti delle bollette della luce in un campo di nomadi in quel di Bologna. L’esperienza di Salvini nonostante a quel campo non sia mai arrivato è stata un bel po’ movimentata. Alcuni ragazzi dei centri sociali hanno cercato di bloccarne l’auto e dato il via alle solite manifestazioni: urla del tipo «buffone e vergogna» mentre in contemporanea colpivano la vettura blindata con pugni e forse qualche calcio. Insomma nella squallida provocazione ci sono caduti come dei boccaloni. E uno che si era arrampicato sul tetto dell’auto, appena l’autista ha accelerato, è planato a terra. E un altro è stato urtato. Le immagini non lo raccontano chiaramente, ma è probabile anche se non sembra provato, sia volato un sasso o similare e che questo abbia sfondato il lunotto posteriore. Insomma si sono sommate due imbecillità. E poiché non c’è due senza tre ecco aggiungersi quella di Calderoli.  Ulteriore provocazione. Del tutto fessa.

Dopo quelle ficcanti e temerarie parole ci si aspetterebbe di vedere il vicepresidente del Senato, Calderoli è anche questo per miracolo della Repubblica, calzare il celtico elmetto ben dotato di abbondanti corna, afferrare lo spadone e precipitarsi a Bologna per fare giustizia. Ma così non sarà. Per fortuna. Ma per disgrazia, e si spera di no, ci potrebbe essere qualche idiota che, data l’autorevolezza della fonte si metta in testa di perseguire una qualche privata giustizia: magari di notte, in tanti contro uno solo. E lì allora sarebbero guai. Veri. E se così fosse la responsabilità per qualsiasi cosa accadesse, foss’anche la sbucciatura di un ginocchio o di un gomito, sarà solo del Calderoli, sedicente vendicatore che personalmente non vendicherà mai un bel niente ma se ne starà sempre al caldo e bello comodo in poltrona. Che il codardo «armiamoci e partite» è sempre di moda.

Il Presidente Grasso dovrebbe riconsiderare l’idea di togliere nuovamente la presidenza del Senato a questo suo vicepresidente, come peraltro già fece qualche tempo addietro, proprio in occasione del caso Kyenge. Poiché alcune posizioni meritano  se non un alto almeno un medio buon senso. Al Calderoli una sola raccomandazione: stia in guardia dalle arti magiche delle fattucchiere rom. Possonno portare una sfiga infinita.

domenica 9 novembre 2014

Chi è Matteo Salvini il controllore della luce.

Una vita spesa a spaccarsi la schiena nella politica. Ha sempre svolto più di un lavoro qualche volta due ma anche tre. Nell’ultima settimana ha deciso di sommare all’incarico di segretario federale della Lega Nord e di europarlamentare anche quello di free lance per le compagnie energetiche. Vuole scoprire chi non paga le bollette.

Matteo Salvini ha quarantun anni e da quando ne aveva diciassette, 1990, si spezza la schiena nel mondo della politica. 
Fatica vera dimostrata non foss’altro da come in questi anni  è ingrassato. Da quel fatidico 1990 ha occupato lo scranno di consigliere comunale a Milano, per cinque volte, a occhio e croce circa 19 anni nei quali è stato contemporaneamente anche  parlamentare europeo, per tre volte e, ovviamente, deputato al parlamento italiano, due elezioni ma in entrambi i casi si è dimesso optando per l’Europa. Strasburgo gli piace di più, forse perché si è meno controllati dagli elettori. Senz’altro non per lo stipendio e il rimborso spese. Pensiero meschino. 

Comunque, sia quel che sia, al secessionista Salvini piace stare all’estero. magari per abituarsi all’idea di non essere più italiano. Oddio non è che in Europa abbia fatto delle gran belle figure anzi. È stato infatti motivo di grande  divertimento quando il deputato belga Marc Tarabella, parlando in italiano perché il padano capisse tutto e proprio bene e non ci fossero edulcorazioni nella traduzione, l’ha definito «fannullone ed assenteista.» Come non spesso gli accade ha abbozzato e non ha replicato. Gli altri deputati europei hanno riso alla grande. Grazie.

Però la biografia di Salvini dice l’opposto di quanto affermato dal Tarabella, origini versiliane, e per questo magari un po’ seccato dal comportamento del padano fancazzista. Infatti il meneghino Matteo ha sempre pensato che un solo lavoro per lui non fosse sufficiente e si sempre dato da fare per averne un secondo e talvolta anche un terzo. Mica come quegli scansafatiche dei disoccupati che di lavoro non riescono a rimediarne neanche uno. Infatti mentre era in consiglio comunale si adoperava  per diventate giornalista e quindi si impegnava come cronista de la Padania e conduttore ai microfoni di Radio Padania Libera. Durante le trasmissioni di quest’ultima si prodigava nel buttare benzina sul fuoco del razzismo leghista. Per la cronaca nel 2003 ottiene l’iscrizione all’Albo dei giornalisti nell’elenco dei giornalisti professionisti. Ça va sans dire.

Naturalmente come tutti i milanesi che notoriamente hanno il cuore in mano ha aiutato quelli non baciati dalla fortuna. Eccolo allora nel ruolo di agenzia interinale assumere come suo assistente in  Europa tal Franco Bossi. Casualmente si tratta del fratello del suo ex capo leghista Umberto. All’epoca lui per il Bossi stravedeva. Che dire? Se non si aiutano gli amici e i fratelli degli amici chi si aiuta? Magari la compagna del momento che lascia il posto in Asl per prenderne uno in regione al doppio dello stipendio. Cose che capitano. A pochi.

Mentre nominalmente era all’estero ha proseguito alacremente anche nell’attività di partito facendo di tutto e di più. fino ad diventare segretario federale.  Ma essere leader del movimento padano e deputato europeo evidentemente non gli basta, gli rimane del tempo libero. Eccolo allora agire come free lance nel ruolo di controllore dell’azienda energetica comunale e dunque mettersi alla caccia di chi non paga le bollette della luce. E i Rom per i quali pare nutrire una certa predilezione sono stati i primi che è andato a controllare.

Ha iniziato da Bologna: si è presentato al campo di via Erbosa ma non l’hanno fatto entrare. Anche perché quello è un campo Sinti cioè di nomadi italiani. Come dire che ha sbagliato indirizzo. Soprattutto se cercava stranieri. C’erano poi dei giovani robin hood dei centri sociali dal sangue calliente e dalla testa poco fredda poiché sono cascati nella provocazione. Che non è bello. I veri rivoluzionari quando li hanno dispongono di nervi d’acciaio altrimenti il sistema nervoso se lo sono venduti da piccoli. Quindi è successo quello che il leghista si aspettava: impossibilità ad entrare nel campo e reazione scomposta. Piccolo dettaglio: l’autista dell’europarlamentare quando ha visto l’auto circondata ed aggredita ha pensato bene di accelerare per togliersi dall’impiccio. Con un qualche pericolo per gli assalitori: il ragazzo che si era appollaiato sul tetto è volato giù e un altro che stava lì attorno è stato urtato. Alla fine nessuno s’è fatto male per davvero. Per fortuna.

Sulle prime il Salvini ha cercato di sfruttare l’evento con un twitter poi ha minacciato denunce. A ventiquattrore di distanza ha detto che non ne vuol più parlare. Meglio. Soprattutto se smetterà i panni del controllore, non richiesto, e si dedicherà ad altro.  Perché un conto è fare il provocatore alla radio, come faceva a Radio Padania Libera e un altro è  farlo di persona. Le conseguenze possono essere ben diverse. Per gli altri ma anche per lui. E in questo momento non c’è bisogno di martiri che ce ne sono a sufficienza.

venerdì 7 novembre 2014

Papa Bergoglio spariglia anche sul divorzio.

Adesso papa Bergoglio spariglia pure sul divorzio. La Rota, non più Sacra ma Romana, deve essere  veloce e a costo zero. E per avere maggiore efficienza vuole più sedi sul territorio: mica si possono perdere giorni di lavoro per un divorzio.

Lo sparigliatore Bergoglio sta mettendo in seria difficoltà i laici e gli anticlericali dell’intero mondo e d’Italia in particolare. Perché qui ci sono quelli più vigorosi e i più agguerriti. Poi vengono i francesi e gli spagnoli che sono più efficienti e anche più efficaci. Sarà perché i francesi sono nazionalisti e l’allure napoleonica della grandeur e dell’indipendenza è rimasta attaccata anche alle gerarchie ecclesiastiche  e sarà pure perché gli spagnoli hanno subìto di più l’Inquisizione e quindi stanchi di parole preferiscono i fatti. E poi ci sono quelli del resto del mondo che prendono tutto con una scrollata di spalle pensando che Roma è la città eterna e proprio perché eterna non può succedervi niente. E qui si sbagliano. Bergoglio, noto anche come Francesco, di professione non fa il Papa ma lo sparigliatore.

Bergoglio ha cominciato con uno spariglietto da niente: salutando il popolo esultante con un tranquillo «Buona sera.» che forse ha recuperato da un vecchio spot pubblicitario. Poi ha proseguito cazziando in diretta tv le guardie del corpo che gli impedivano di accarezzare i pargoli e scambiarsi le papaline con i festanti, neanche si fosse a una convention dove ci si scambiano le cravatte. Ha continuato con la questione dei pedofili ma lì le botte vere (si dice) le ha menate in privato e sempre in privato, che se lo facesse in pubblico sarebbero tutti più contenti, deve aver tirato le orecchie e mollato qualche scapaccione a quelli che vivono in appartamenti sovradimensionati. Adesso non contento si mette pure a teorizzare il divorzio non breve, che il parlamento italiano sul tema ci ha perso il sonno per anni, ma brevissimo, a costo e chilometro zero. Probabilmente Ignazio di Loyola avrà avuto qualche sobbalzo ma d’altra parte ha sempre saputo che nella sua squadra non tutti sono quadrati.

I marpioni del Vaticano sulla questione del divorzio hanno avuto l’occhio lungo ed hanno cominciato a pensarci con la Sacra Rota fin dal 16 dicembre 1331 con l’avvallo di Giovanni XXII. Poi ci si domanda perché s’è dovuto aspettare seicento anni perché arrivasse il ventitreesimo  della serie. Qualche volta sono stati molto rigidi tanto  da giocarsi addirittura uno scisma ma nella più parte dei casi, a seconda delle convenienze, sono stati anche pragmatici e flessibili. Quindi attenti alla dottrina e al contempo disposti a chiudere un occhio e magari anche tutti e due se il peso della borsa aveva un suo perché. È stata anche una questione di status: si è partiti con le teste coronate e poi si sono accettati anche politici,  professionisti e attori di fama. Sulla carta le scuse erano in qualche modo plausibili, in seguito la fantasia ha preso il sopravvento e si è arrivati all’impotenza e alla non consumazione post litteram. Nel senso che l’hanno accettata anche per chi di figli, autentiche fotocopie, ne avevano già fatti circolare una mezza dozzina. Ma comunque sempre condannando le separazioni ed i divorzi degli altri. E un po’ agli anticlericali questa posizione faceva comodo.

Adesso Bergoglio ha deciso di togliere anche questa stampella e si è messo a dire che la Rota, non più Sacra ma Romana, deve essere più veloce, primo traballo nelle sacre stanze. Quindi, secondo traballo, ha detto che non possono passare anni e anni prima della decisione definitiva. e poi ha aggiunto che le filiali del tribunale devono essere ben distribuite sul territorio. Mica si possono perdere giorni di lavoro per sistemare la faccenda. Infine, terzo e più grave traballo, la questione  della pecunia: tutto deve essere gratis. Ci han lucrato anche troppo.

Se Bergoglio fosse stato eletto quant'anni fa Giacinto Pannella detto Marco si sarebbe risparmiato un sacco di digiuni e anche pasti a base di cappuccini che alla lunga danno acidità di stomaco. E Adele Faccio con Bonino, Spadaccia, Rutelli, Quagliariello e gli altri radicali tantissimi banchetti per la raccolta delle firme che poi sono diventati una piacevole abitudine per qualsiasi nobile causa. Il metodo ha fatto scuola e tra i proseliti più diligenti ci sono i celti della Lega Nord che hanno obbiettivi quanto meno borderline.

Il fatto è che il divorzio con la Sacra Rota corre il rischio di essere più veloce e meno oneroso di quello laico e di Stato anche se lascia qualche dubbio sulla protezione del coniuge più debole. Per fortuna il Parlamento è riuscito ad approvare in data 6 novembre 2014 il divorzio breve che ci mancava solo di essere batti dalla Chiesa anche su questo tema. Sempre che non si scopra a posteriore qualche trucco.

lunedì 3 novembre 2014

Il caso Cucchi: le parole non dette fanno male più di quelle dette.

Nel caso Cucchi colpisce, a proposito di ecchimosi, il silenzio delle grandi istituzioni. Del ministro della Giustizia, del ministro dell’Interno, del Presidente del Consiglio. Del Presidente della Repubblica, che presiede anche il Csm. In compenso hanno parlato due sindacati di polizia. Meglio, per loro se tacevano.

La morte (infame) di Stefano Cucchi sta diventando, per grande fortuna di tutti ma se ne sarebbe fatto volentieri a meno,  un caso nazionale e forse nel prossimo futuro anche europeo. Cosa quest’ultima che senz’altro non gioverà alla reputazione dell’Italia ma forse l’aiuterà a crescere. Caso importante, quello della morte (uccisione) di Stefano Cucchi perché a seconda di come si andrà sviluppando e delle prese di posizione delle istituzioni si vedrà e si peserà il grado di civiltà del Paese. 

Uno Stato è degno di questo nome quanto più sa essere giusto ed imparziale nel trattare i suoi cittadini e sa esercitare la capacità di riconoscere i propri errori e gli errori di coloro che lo servono. Quando una istituzione si chiude a riccio, a difesa di casta o usa come scudo il reato di vilipendio altro non fa che dimostrare tangibilmente la sua fragilità. Chi è degno di rispetto sa che riconoscere un torto fatto non è segno di debolezza. Uno Stato degno di questo nome è in grado di ridurre drasticamente la forbice che intercorre tra il senso di legalità e quello di giustizia. Ché la loro distanza altro non è che testimonianza e prova provata, di inanità. La vicenda di Stefano Cucchi, come peraltro anche quelli di Federico Aldrovandi, di Riccardo Magherini e dei tanti della scuola Diaz di Genova, è emblematica.

Nel caso di Stefano Cucchi, come negli altri,  fan più male le parole non sentite che quelle dette. Che queste ultime ci si augura possano essere catalogate tra quelle dal sen fuggite e che abbiano tradito il pensiero di chi le ha pronunciate. Anche se,magari no. Capita che cervello e lingua talvolta non siano in connessione. In ogni caso comunque, il silenzio ha colpito (in parallelo con le ecchimosi di Stefano Cucci)  più duro delle parole.

Ha colpito il silenzio del ministro della Giustizia, il doroteo (definizione di Matteo Renzi) Andrea Orlando, che è tanto prodigo di parole quando si tratta della riforma della giustizia che lo vede duramente impegnato nella battaglia per la riduzione delle ferie dei magistrati e nello smantellamento di tribunali così come nella chiusura della carceri situate nel centro della città, aree appetibili per la  speculazione edilizia. Così come ha colpito anche il silenzio  dei responsabili del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) la cui voce si era prontamente levata a supporto della chiusura di san Vittore.  Ha colpito il silenzio del ministro dell’Interno il mancante di quid (definizione dell’ex mentore Silvio Berlusconi) Angelino Alfano. Ha colpito il silenzio del Presidente del Consiglio innamorato della gioventù e sempre prodigo di suggerimenti e consigli ai giovani. Ha colpito il silenzio del Presidente della Repubblica, anche Presidente del Csm, che un monitino (monito in formato mignon) gli poteva pure scappare per questo fatto eclatante che vede un uomo affidato a strutture dello Stato uscirne cadavere. E senza che sia stato individuato alcun colpevole. Mica doveva essere un monito crudo e aspro. Ci si sarebbe accontentati pure di un monito sfumato e felpato. All’uso della casa quando i temi sono scottanti. Non rispondere alle richieste, come fu fatto con Cira Antignano la madre di Daniele Franceschi ucciso nelle carceri francesi, dice della distanza della Istituzione dalla gente comune più di cento trattati di sociologia.

C’è invece chi ha parlato: il segretario del Sap, sindacato autonomo polizia, Gianni Tonelli: «Se uno disprezza la propria salute e conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze.» e anche il  Coisp, sigla che sta per Coordinamento per l’Indipendenza delle forze di polizia:«Per certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia.». Frasi difficili da commentare. Come d’altra parte tutte le affermazioni sciocche. Che il bon ton chiede di andare oltre. 

Ovviamente le parole di comprensione, se verranno, s'immagina saranno ben accette soprattutto se non gronde di retorica e comunque a queste dovranno presto essere seguite da ben precisi fatti.

domenica 2 novembre 2014

Le sentenze si accettano e non si commentano: Stefano Cucchi.

Sentenza della Corte d’Appello: tutti assolti. Il cadavere c’è quel che manca è il come e il chi. Giovanardi giganteggia (non è ironia). Ora si attendono le motivazioni della sentenza. . E poi Cassazione e Corte europea dei diritti dell’uomo. Per Eluana Englaro l'alimentazione fu coatta per Cucchi invece no, Forse anche per questi fatti i capitali non vengono in Italia.

E così dopo il processo d’appello sulla vicenda, tragica di Stefano Cucchi la Corte è giunta alla conclusione che non c’è alcun colpevole. Soprattutto a causa della mancanza di prove ché se queste ci fossero state un qualche colpevole lo si sarebbe indicato. Felicità per quelli che la galera l’hanno scampata e qualche perplessità, poiché la sobrietà non deve passar di moda, per la famiglia Cucchi che si ritrova con figlio, e fratello morto, Verrebbe da dire ammazzato, ma non si sa come  e da chi.

Uno dei refrain che ballonzolano nei corridoi dei tribunali e anche sui giornali e pure sulla bocca di non pochi politici è che: «Le sentenze si accettano (o si rispettano, in alternativa paritaria) e non si commentano.»  La frase un  qualche effetto ce l’ha. Come tutte quelle che di stampo sono retoriche. Salvo poi dare risposta alla  più tranquilla delle domande: «perché?» Già, perché una sentenza si deve accettare (rispettare) e non si deve discutere? Sul fatto che la si debba accettare (rispettare) magari lì sui due piedi, in verità non c’è storia: la legislazione stessa prevede che una sentenza la si possa non accettare (e non rispettare) per un certo numero di volte. In ambito nazionale due sono quelle previste dopo il primo grado di giudizio: l’appello e la cassazione ed una ulteriore in ambito Ue, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Quindi una sentenza la si può accettare e magari pure rispettare solo a iter concluso. Una volta raggiunto il passaggio finale va da sé che la sentenza va accettata obtorto collo e di conseguenza pure rispettata. Sul fatto del commentare questo non può essere negato neppure a iter terminato salvo voler negare il diritto di parola e di pensiero. Che poi su quello di parola ci si è provato varie volte con un qualche effimero successo mentre sul pensiero proprio non ce la si fa.

Ora sul caso di Stefano Cucchi quel che colpisce (ironia involontaria) è che non ci siano prove, quando la prova per così dire provata, ad occhio e croce, sembra il Cucchi stesso. Ovvero i suoi lividi e le sue ammaccature, che se uno un braccio se lo può rompere scivolando dalle scale e le carceri sono fitte di scale, un occhio nero vien più difficile farselo accidentalmente. Che per dirla senza tanta poesia solo a guardar le fotografie del ragazzo, si intende che da qualcuno deve averle buscate. Di norma quando si entra in carcere in gergo si dice nuovo giunto,  si è ben sottoposti ad una visita medica,che ha lo scopo primario di mallevare il carcere da eccessi compiuti da altri. Se si entra ammaccati la cosa vien segnata sulla cartella clinica e ne risponderanno quelli che l’han portato. Prova che quindi vale pure per contrario: se si è entrati interi e si esce tumefatti vuol dire che a qualcuno è venuto il prurito alle mani. S’è letto in giro che chiamasi squadretta (facile il riferimento storico)  composta da diversi in qualche modo attrezzati contro uno che può opporre a difesa solo le sue ossa e la sua carne. E di solito il servizio vien fatto di notte ché si spera nel sonno duro degli altri e nella segretezza delle segrete. E lì però quel che resta, almeno per qualche tempo, sono i lividi, le ecchimosi e qualche dente rotto o magari anche una costola. Quando invece ci van di mezzo organi o emorragie interne è il caso in cui si dice che il lavoro non  è stato fatto a dovere.  Nel caso di Stefano Cucchi i segni c’erano ed erano evidenti e pure fotografati. Come dire che carta canta e villan dorme. 

Però Stefano non è morto per le percosse, peraltro impunite, ma per qualcosa d’altro che non si sa cosa sia. Magari denutrizione, constatati i dieci chili persi in sei giorni? Non ci sono prove certe, dice la sentenza. Che peraltro se così fosse la responsabilità sarebbe del Cucchi che non ha voluto nutrirsi rifiutando il sondino. Come se fosse possibile a chi sta obbligatoriamente dentro una struttura come il reparto detentivo di un ospedale decidere se alimentarsi o meno. Quando accade, fatta la segnalazione, nella decisione subentra il magistrato che ordina l’alimentazione coatta. Ma per Stefano Cucchi non c’è stata segnalazione e quindi decisione. Strano come per Eluana Englaro molti si prodigarono per mantenere l’alimentazione forzata che pure lei non la voleva mentre per Cucchi la cosa sia andata liscia. E non c’è neppure il più vago sospetto da parte dei giudici della Corte d’Appello che ci sia stata negligenza. Mancano le prove. Però c’è il cadavere. E il risarcimento pagato dall’ospedale. Che non son prove. Al confronto Carlo Giovanardi giganteggia: «Stefano Cucchi doveva essere curato e alimento anche coattivamente in quanto non in grado di gestirsi.»

Ora si attendono le motivazioni. Per quel che potranno portare. Di certo ci saranno il ricorso alla Corte di Cassazione e poi a quella dei diritti dell’uomo. Mai denominazione fu più azzeccata.

Poiché tutto alla fine si tiene e la questione giustizia pare essere fondamentale nella trasformazione del Paese e in questa la capacità di attrarre capitali esteri per il rilancio dell'economia, magari potrebbe venire il dubbio che questi non vengano perché non si sa come va a finire quando si è fermati per qualche grammo di hashish o per aver bevuto un bicchiere di troppo.   Il che sommato all’articolo 18 diventa miscela, come dire, repellente.