Ciò che possiamo licenziare

lunedì 26 febbraio 2018

Legge Fornero e imbrogli di Stato.

Il lavoro precario non è una novità dei giorni nostri,  esiste in Italia dagli anni ’70. La protagonista di questa storia (purtroppo) vera ha perso sette anni di contributi non versati da un Comune dell’hinterland milanese. Dovrà lavorare sette anni di più per raggiungere il diritto alla pensione. Per la Fornero un caso comprensibile e rispettabile, ma non considerato.

Elsa Fornero - professoressa choosy
Si dice che il tempo lenisca tutti gli affanni e poco alla volta ci si abitui a tutto. Elsa Fornero ne è un tangibile esempio. Dopo lo scioglimento dell’esecutivo Monti di cui faceva parte è sparita sia dai mezzi di informazione più frivoli – dove discettava di abiti firmati mentre la sua legge metteva sul lastrico migliaia di famiglie – sia da quelli ritenuti autorevoli. Da qualche mese invece diverse trasmissioni televisive e radio hanno ripreso ad intervistarla sia sulla sua legge sia su futuri scenari economici. Elsa Fornero risponde ad ogni domanda compitamente scandendo ogni singola parola e con la pedanteria che gli italici hanno imparato a conoscere – ahiloro – ripete la giaculatoria di sempre. La legge andava fatta perché: lo chiedeva l’Europa, perché i mercati, perché il deficit, perché la spesa pubblica e via giaculatorando. Naturalmente omette di dire l’unica cosa vera e sensata: lei, e l’intero governo Monti, è andata a prendere i denari non dov’erano ma dov’era più facile arraffarli. Non mettendo nella vicenda alcuno sforzo di ragionamento, inventiva e, meno che mai, di creatività.

Durante le trasmissioni la Fornero ascolta con visibile pazienza gli interventi degli ascoltatori che presentano casi drammatici e di evidente ingiustizia. A questi risponde con arrogante sufficienza qualcosa del tipo:«tutti i singoli casi sono comprensibili e rispettabili, ma bisogna tener conto del dato generale.» Dimenticando che, come diceva il principe De Curtis:«è la somma che fa il totale.» Fosse andata più spesso al cinema avrebbe causato meno danni.
Quello che segue è uno dei tanti casi personali, «comprensibili e rispettabili», sui quali la Fornero, che è un tantinello choosy,  è passata sopra come un carro armato tanto lei dalla legge che porta il suo nome non è minimamente toccata. Quando l’ha scoperto ha senz’altro tirato un sospiro di sollievo.
 
La storia che segue è vera come la sua protagonista. Tutto cominciò nel 1978 quando la signora Diotima (nome di fantasia che tanto piaceva a Robert Musil)  aveva 21 anni. Dopo aver ottenuto un diploma parauniversitario, che oggi equivale ad una laurea triennale, ed aver spedito molte lettere, viene assunta da un Comune dell’hinterland milanese. Assunzione precaria. Già perché anche allora esisteva il precariato.  La signora Diotima è costretta ad aprire la partita IVA che dopo qualche tempo le verrà fatta chiudere per essere assunta con un altro contratto, bizzarro il giusto, per poi planare su un contratto a progetto. In tutti i contratti firmati si dice che “ è stato deliberato l’incarico d’opera professionale” e che “i limiti temporali del rapporto, dato il carattere precario dell’incarico, non comportante  subordinazione gerarchica da parte della S.V. e che quindi non instaura un rapporto di dipendenza con questo Ente”. Inutile dire che la signora Diotima firmava atti ufficiali che obbligavano “questo Ente” ad erogare prestazioni e servizi. Un non-sense, per non dire buffonata,  che neanche nelle comiche di Stanlio ed Olio. 

Comunque com’e come non è questa storia va avanti per ben sette anni, con rinnovi annuali, quando finalmente il Comune decide di indire un concorso. Diotima partecipa e lo vince, d’altra parte aveva maturato una bella esperienza settennale. Alleluja. A quel punto Diotima chiede di poter riscattare i sette anni pregressi e di versare all’Inps i contributi dovuti. Per intenderci quelli che avrebbe dovuto versare l’ente pubblico. Naturalmente, come nei migliori melodrammi l’ente pubblico risponde indignato che la cosa non si può fare. E così sette anni di lavoro e di mancati contributi passano in cavalleria, ovvero sono buttati. Non ci sono mai stati. E l’Inps ha perso sette anni di contributi. 

Quello svolto dalla signora Diotima in quel Comune non era un lavoro da scrivania, troppo facile, ma di territorio. Si doveva confrontare quotidianamente con situazioni socialmente complesse, spesso con famiglie emarginate e maggiormente bisognose di aiuto nelle  zone degradate del territorio. Uno di quei bei lavori che mettono l’operatore a contatto con le miserie della vita, anche le più turpi, che caricano di angoscia e richiedono grande forza d’animo per non lasciarsi scoraggiare ed abbattere. Lo si può definire un lavoro usurante non tanto nel fisico quanto nella mente. Ma far capire questo sottile passaggio ad una professoressa di economia politica choosy il giusto e  con un diploma di ragioneria è un’impresa disperata. E non lo stanno considerando neanche oggi quei simpatici parlamentari e sindacalisti che stanno stendendo la lista dei lavori usuranti.
Si arriva ai giorni nostri e la signora Diotima constata che per l’Inps lei ha lavorato solo 35 anni e non 42 come in effetti è successo e che per raggiungere la pensione – che un parlamentare raccoglie a 60 anni e dopo solo 5 anni di versamenti - dovrà lavorare ancora un bel po’ di annetti. Risultato finale la signora Diotima lavorerà fino a sessantasette anni, come prescrive la legge, figurando di averne lavorati solo per 42 quando in realtà saranno  stati invece 49. Questa è una delle somme che compongono il totale della legge Fornero. Naturalmente sul versante Inps si tace. 

Ultima chicca: essendo la Signora Diotima una dipendente pubblica quando finalmente, dopo 49 anni di lavoro, andrà in pensione dovrà attendere altri due anni per ricevere la liquidazione o tfr. E neanche tutta intera. Non come un qualsiasi deputato che, se non rieletto o non ripresentato, riceve in tempo pressoché reale, una bella liquidazione: pari all’80% dell’indennità parlamentare per ogni anno passato in parlamento. Evviva.

mercoledì 21 febbraio 2018

Fette di salame sugli occhi

Questa campagna elettorale dalla trista figura dimostra come i  pretesi grandi comunicatori, Berlusconi e Renzi, siano nella realtà dilettanti allo sbaraglio. Incapaci di convincere. Li salva la cronica decisione degli italici di mantenere fette di salame sugli occhi.

Berlusconi Silvio e Renzi Matteo: pretesi grandi comunicatori
Rivelare ad un popolo che si crede furbo che furbo non è e che anzi deambula con fette di salame sugli occhi, è come dire ad un bambino che Babbo Natale non esiste. E come il bambino tenderà a non credere. A togliere quelle fette di salame dagli occhi degli italiani ci hanno provato in tanti ma con scarso successo. Ci si è messo anche Indro Montanelli, che di diplomazia se ne intendeva, con tre vivide metafore. La prima: «Siamo il Paese nel quale il maggior quotidiano nazionale si chiama Corriere della Sera ed esce al mattino.» La seconda «Da noi i treni lenti si chiamano accelerati.» Per finire con:«Solo in Italia poteva succedere che il fondatore di un partito non fosse in grado di pronunciarne correttamente il nome che gli aveva dato.» Il riferimento era a Mussolini che pronunciava fasismo. Ce n’era a sufficienza per aprire gli occhi anche di un cieco, ma non quelli degli italici che sono ben foderati di salame. E qui un paio di esempi. I primi.
In questi giorni non si fa che parlare, anche da parte degli avversari, di Berlusconi Silvio non come del grande frodatore dello Stato, ma come del grande comunicatore capace di ribaltare ogni campagna elettorale. La prima affermazione è vera, ma non la vede nessuno, anzi il Presidente della Repubblica lo riceve al Quirinale, mentre la seconda è una colossale bufala che solo chi ha fette di salame sugli occhi non vede. Grande comunicatore è chi riesce a convincere e a far cambiare idea a chi la pensa diversamente e questo il Berlusconi Silvio non l’ha mai saputo fare. Si è sempre accodato ai desideri della italica pancia e i numeri lo dimostrano. Alle elezioni del 2008 il partito berlusconiano che allora si chiamava Polo delle libertà. Pdl, ottenne il 38% dei voti, cinque anni dopo, 2013, il grande comunicatore perde, mal contati, sette milioni di voti e finisce a quota 21%. Diciassette punti percentuali in meno. Adesso i sondaggi danno Forza Italia, si tornati al vecchio nome, è al 16%. Altri cinque punti percentuali in meno. Senza contare che tutte queste percentuali si riferiscono solo ai votanti e non al numero complessivo degli elettori che se si facesse la proporzione con questi si scoprirebbe che oggi il grande comunicatore è seguito all’incirca da un modesto e mal contato, dieci per cento. Ben poca cosa. Se questi sono i risultati di un grande comunicatore cosa si dovrebbe dire di Salvini Matteo che è diventato segretario della Lega quando questa valeva, elettoralmente, all’incirca il 4% ed ora veleggia verso il 14%? Definirlo il Buonarroti  della comunicazione?
Anche il Renzi Matteo passa per essere un grande comunicatore anche se fino ad ora tutte le prove elettorali, ad eccezione di quella delle europee, vinte inaspettatamente sulle ali di una illusione, peraltro di breve durata, lo hanno visto soccombere. Dalle elezioni locali al referendum . Adesso è scatenato sugli scontrini dei pentastellati. Commentando: «Se non sanno gestire gli scontrini come possono gestire  conti dello Stato?» Bella domanda. Poi il fiorentino se ne va in tv e sbandierando gli estratti di due conti correnti (solo due?) e dichiara che con la politica lui, negli ultimi tre anni, ci ha rimesso. Il saldo dei due conti fa: meno cinquemila euro. Già, dimentica però di dire che lo stipendio, ancorchè lordo, del presidente del consiglio è di 114.796€. Il che significa che il netto si aggira intorno ai 72.000€ netti che moltiplicato per i tre anni di presidenza fa, più o meno 216.000€. Questo bel malloppetto è stato completamente speso. Con in più i cinquemila euro di differenza mostrati con i due conti correnti. In altre parole uno con le mani bucate. Se non ci si può fidare di quelli che non sanno gestire gli scontrini, come ci si può fidare di uno che si fucila oltre duecentomila euro, e non riesce a risparmiare neanche un centesino? E anche lui passa per uno che sa comunicare. E fare autogol.
Entrambi promettono l’impossibile, l’ottuagenario piazzista, come lo chiamava Montanelli, un po’ di più, ma in fondo sono dettagli. L’ideale sarebbe che gli italici smettessero di fare i furbi (finti) e si togliessero le fette di salame dagli occhi. Forse non è difficile. Forse.

domenica 4 febbraio 2018

Renzi ripulisce il Pd.

A liste finalmente decise e depositate si può far qualche considerazione. Quasi nessuno dei candidati Pd è dove dovrebbe essere. La questione dei territori è per i più una fola, ma questo lo si sapeva già. Stare in due o tre collegi, di cui non si sa nulla, è quasi la norma. E così Il Renzi Matteo si fa i gruppi parlamentari come gli piacciono.

Il Renzi Matteo si allena a far quadrata la mascella
  Era da tanto tempo che non si vedeva un bel repulisti nella politica italiana, anzi in verità non lo si è mai visto. In nessun partito è mai successo che il segretario si facesse i gruppi parlamentari a sua immagine e somiglianza. Neppure ai tempi dello stalinista Togliatti, che faceva finta di essere un democratico, neppure con Pietro Longo, sempre Pci, che di essere stalinista dentro non lo mandava a dire. E non è nemmeno mai successo nella Democrazia Cristiana che interclassista ed ecumenica com’era riusciva a tenere insieme il sociale (all’apparenza) spinto ed il capitale più retrivo. Non vi era giunto neanche Bettino Craxi che della democrazia aveva un concetto tutto suo. In compenso c’è riuscito il Renzi Matteo, democristiano dichiarato, ma con atteggiamenti mussoliniani, sta perfino tentando di far diventare quadrata la mascella.  Giusto! Non ci riuscì neanche Mussolini che fu costretto a convivere, che vuol dire contrattare, anche lui, con correnti e spifferi di vario ordine e grado: da Farinacci a Federzoni, da Bottai a Pavolini. All’epoca i capi corrente erano detti Ras. Reminiscenze della guerra d’Etiopia. Oggi i Ras sono rassetti anzi ascari. E come gli ascari devono dimostrare la loro fedeltà con la maggior ferocia: più sono feroci con gli avversari più (sperano) saranno considerati fedeli dl capo.
C’è da dire che lui, il Renzi Matteo, ha un grande vantaggio rispetto a tutti gli altri segretari di tutti i partiti di tutti i tempi: una minoranza incapace e imbelle oltre il giusto che ha nell’arretrare con pervicacia la sua abilità migliore. E si sa che a forza di arretrare, dicendo alla Gotor «non è il momento», prima o poi ci si trova con davanti il mare o le montagne e alle spalle il nemico. E quando per scappare non c’è più spazio dovrebbe venir fuori il coraggio della disperazione e magari anche un pizzico di dignità. In entrambi i casi: merce rara. Specialmente nel Pd di adesso. Al dunque come criticare il segretario Renzi se decide di disfarsi di chi è addirittura incapace di fare opposizione e di piccoli ex traditori di altri (presunti) leader? Renzi sa bene che chi ha tradito una volta tradisce sempre. Lo racconta la storia. E quindi poco alla volta si disfa dei più imbarazzanti tra gli ex dalemiani, lettiani, bersaniani, veltroniani,prodiani e…(n)ani andando.
Al grido di «largo al nuovo» l’aspirante mascelluto Renzi ha inserito in lista la cariatide democristiana Pierferdinando Casini (solo nove legislature), ma d’altra parte non riteneva la commissione banche necessaria e l’ex pioniere Piero Fassino (solo cinque legislature). Fassino che è piemontese non correrà in Piemonte, «è finito un ciclo» ha detto, ma in Emilia, dove «sarò più utile». Che ha dirla tutta sarà l’Emilia e gli ex comunisti di quelle plaghe ad essere utili a lui. Garantendogli la sesta legislatura. Chissà se ce l’avrebbe fatta a Torino. E poi dentro anche Cesare Damiano, l’uomo dalle due pensioni: da deputato e da metalmeccanico. Che per essere sicuri di raccattare qualche voto di nostalgia per il sol dell’avvenire viene candidato a Terni: una volta tutta acciaio e classe operaia. Una spruzzatina di simil sinistra non va male. E nel nuovo anche Valeria Fedeli che di nuovo, dopo decenni nel sindacato, ha solo la tinta dei capelli. Nella passata competizione si presentò nel collegio che era stato in prcedenza del marito adesso è in lizza a Pisa ma anche a Pavia-Cremona-Mantova e, già che c’è, pure a Caserta-Benevento-Avellino. Chissà che ne sa di quei territori. Niente-niente è una bella forma di desistenza? In compenso Ernesto Carboni, che si definisce  superdemocristiano, pur essendo calabrese se ne sta ben lontano, e corre (si fa per dire) guarda caso in Emilia. Al suo posto in Calabria un tal Giacomo Mancini definito forzista-meloniano in lista per il Pd. By the way nipote del vecchio Giacomo Mancini ex segretario Psi e tante altre cose ancora. D’altra parte neanche Minniti Marco, calabrese, si presenta nella terra natia, più comodo stare nelle Marche, sarà un paracadute? E in Campania in compagnia del figlio di De Luca e di Franco Alfieri, quello delle fritture di pesce. Nel collegio di Minniti c’è pure Battipaglia dove nel 1969 si sparò sui braccianti agricoli.  Sarà mica nemesi storica?
Degli altri meglio non dire. Anche commentare il nulla politico ha un limite e non superarlo è un bel merito.
Con l’onestà intellettuale che ha sempre contraddistinto i padroni delle ferriere il Renzi Matteo continua a dire di lealtà e non di fedeltà, che nella sua testa sono sinonimi: «dimmi pure di no ma poi vota quel che chiedo di votare.» Una volta si chiamava centralismo democratico, ma i tempi sono cambiati e anche gli obiettivi e i personaggi(etti). Ora si tratterà di vedere quando piacerà  ai nipoti dei fondatori delle case del popolo e delle cooperative questa bella pulizia del Pd. Si transeat gloria mundi.

lunedì 15 gennaio 2018

Napolitano disse no a Gratteri Ministro della Giustizia.



Senza giri di parole il Procuratore Capo di Catanzaro dice quel che pensa. Gli basta un «sì» e un «no» Quando ha paura la lingua gli diventa amara. Non apprezza la riforma della giustizia di Orlando e dice che la politica di Minniti è solo un tappo.

Nicola Gratteri Procuratore a Catanzaro intervistato da Minoli

Qualche volta, non così spesso, succede che vengano svelati i motivi di scelte che, alla apparenza, siano risultate incomprensibili. Talvolta per arrivare a galla la verità ci mette secoli o decenni altre volte “solo” pochi anni. Il caso di Nicola Gratteri, mancato Ministro della Giustizia nel 2013, fa parte di questa seconda serie.
Nicola Gratteri, calabrese di Gerace, dal 1989 vive sotto scorta e dal 21 aprile 2016 è Procuratore della Repubblica in quel di Catanzaro. Un bel personaggio ritenuto dalla  n’dranghta pericoloso il giusto. E forse anche qual cosina di più. Parla in modo pacato e tranquillo come fanno quelli che sanno di avere la ragione dalla loro. E che per questo rischiano la pelle. Durante le interviste dà risposte chiare e secche, che talvolta non vanno oltre il «sì» o  il «no». E in un monosillabo c’è la quantità di senso che un parolaio di professione, Renzi? Berlusconi? Salvini?, non riuscirebbe ad esplicitare neppure in una decina di comizi.
Durante lla trasmissione  Faccia-a-Faccia di Minoli Gianni si è svolto questo dialogo. Domanda: «Lei ha detto che questo è solo l’inizio della guerra [contro la n’drangheta ndr ]. Veramente questo è solo l’inizio»  Risposta: «Sì»
Domanda: «Da quando è a Catanzaro lei ha arrestato mille e duecento persone, a quante vuole arrivare» Risposta: « Il più possibile»
Domanda: «Vuole arrestare tutti gli n’dranghetisti di Calabria?» Risposta:«Ci proviamo»
Domanda:«Ha paura?» Risposta «Mi diventa la lingua amara quando ho paura.»  Sì, anche Nicola Gratteri, come tutti quelli che corrono rischi, ha paura.
Niente retorica, niente voli pindarici, niente sbragamenti: la realtà così com’è. E Nicola Gratteri si sente di dire quel che deve dire non solo alla n’drangheta ed al resto delle mafie lo fa anche quando si tratta di “personaggi importanti” che detengono il potere. E quindi con la semplicità e trasparenza dei forti dice che la riforma della giustizia varata da Orlando è largamente deficitaria e  la politica di Minniti sulla immigrazione è sbagliata. «Un tappo» che per ciò stesso non è  strutturale e che duemila immigrati in meno al giorno sono nulla se si sa, come si sa, che nei campi profughi della Libia ogni giorno donne vengono violentate e bambini vengono percossi. Lo sa anche il ministro Minniti che però non muove un dito per evitare questo scempio e si limita a passerelle, osannate dalla destra (becera), durante le quali butta polvere negli occhi dell’intero paese. Come curare una polmonite con un’aspirina. Ed in questa pratica molti ministri e ministre sono ampiamente specializzati.
Con la stessa tranquillità Nicola Gratteri ha raccontato che nel 2013 non è stato nominato Ministro della Giustizia perché Napolitano Giorgio, il presidente dei moniti,  e delle leggi ad personam firmate al primo colpo, non ha voluto. Il messaggio di Gratteri è stato forte e chiaro. A questo punto sarebbe bello se anche  il presidente dei due mandati, tra i peggiori avuti, con uguale chiarezza raccontasse in televisione perché non ha voluto che Nicola Gratteri fosse ministro.  Sarebbe bello, ma non accadrà.
Un conto è lanciare moniti, stando comodi, altro è sentirsi la lingua amara in bocca lavorando tutto il giorno per tutti i giorni.

lunedì 8 gennaio 2018

Elezioni 4 marzo: rodomonte Salvini se ne andrà a braccetto con Mastella.



Prima non voleva essere l’arca di Noè del centrodestra. Ha insultato tutto e tutti, ma poi le elezioni si vincono coi voti e chiunque porti voti è ben accetto, anche Lupi, anche Zanetti. Tutto fa brodo: anche Mastella.

Mastella all'opera sui banchi di un governo qualsiasi
Non è certo che tutti se lo ricordino, ma il segretario della Lega, Salvini Matteo, ha passato diversi mesi a dir male dell’ex alleato e ora acerrimo avversario, Angelimo Alfano. E con lui di tutta la sua truppa: Lupi, Formigoni, Barbara Saltamartini e Pietro Langella che però ha fatto una ulteriore capriola carpiata doppia per finire con Verdini. Cosa vuol dire quando si ha il fisico. Oltre a dirne male aggiungeva anche che mai si sarebbe accompagnato a simili personaggi. Si intende che non si parla di persone ma di politica. 
Quando a Berlusconi venne l’idea della cosiddetta quarta gamba, dopo Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia al Matteo scoppiò l’orticaria e subito schernì l’idea: «Un conto è la quarta gamba, ma qui l’alleanza sta diventando un millepiedi.» Anche se l’idea di lanciare bordate contro qualcun altro che non fosse il solito Renzi lo stimolava. Poteva fare il Savonarola anche in casa sua. Un po’ di verginità nuova non fa mai male. E quindi agli alfaniani ormai privi di Alfano disse che la coalizione di centrodestra «non era l’arca di Noè » A cui il Lupi rispose con due battute una peggio dell’altra. La prima:«a Salvini ricordo che Noè sull'arca accolse solo animali» Facile immaginare le sghignazzate private e semipubbliche. Che doppiò con un altrettanto infelice: «Stia tranquillo, non appartenendo alla categoria, anche se mi chiamo Lupi, noi sulla sua di arca non abbiamo nessuna intenzione di salire. Anche perché non c'è nessun diluvio e lui non è certamente Noè.» Mentre invece tutti sapevano (e sanno) che quello di salire, arca o non arca, per garantirsi almeno uno strapuntino in corridoio, era (ed è) l’ambizione massima di tutta quella schiera. 
Trattandosi non di gamba ma di millepiedi ecco saltar fuori tra altri allegri personaggi della prima repubblica, uno che a vederlo mette subito simpatia: Clemente Mastella, quello che si definì il Moggi del parlamento, forse per via di deputati comprati e venduti. Quello che dopo aver fatto cadere un governo di centrosinistra di cui faceva parte ed essersi fatto un po’ di purgatorio, è tornato in corsa riuscendo a farsi eleggere sindaco di Benevento con 7416 voti. E al disprezzo salviniano rispondeva:«sei un mezzo leader, Ma chi te vole, hai perso anche a Varese “ – e aggiungeva -  Mai con Salvini.»  Anche se mai è parola ardua da dire.
Comunque per mettere una pietra tombale sull’argomento il Salvini ha dichiarato: «non c'è un progetto di Italia condivisa. Lupi è una bravissima persona, così come Zanetti di Scelta Civica, ma sono portatori di idee diverse dalle nostra.» Vero e dunque? 
E dunque le questioni serie si discutono a tavola, con un menu leggero leggero studiato apposta per convalescenti (tortelli di zucca, brasato, tortino al cioccolato) e dopo il caffè e l’ammazzacaffè che succede? Che la quarta gamba, nel frattempo ha cambiato nome e si chiama quarto polo, viene accettata da tutti anche dal rodomonte Salvini. Con un pannicello sulle pudenda: i tre del pranzo decideranno sulle candidature del quarto polo. Bah. Il fatto al dunque si risolve con Salvini che si  troverà seduti accanto pezzi di prima repubblica, ex sostenitori del governo di centrosinistra e saltimbanchi vari. 
Eggià perché c’è forse qualcuno che vuole rinunciare ai settemila e briscola voti di Mastella a Benevento? E a quelli dei simpatici fanciullini di Comunione e Liberazione e magari anche a quei due o tre che sono rimasti impigliati con Scelta Civica? La risposta è semplice: no. Aggiungendo sottovoce: non è conveniente. E allora avanti come se nulla fosse perché la convenienza è importante: è il maggior plus dei supermercati.

sabato 6 gennaio 2018

Canone RAI si anticipa il carnevale



Orfini Matteo, presidente Pd, sul canone va oltre Renzi. Meglio la fiscalizzazione che il canone. Come si fa ad essere indipendenti se si dipende da qualcuno per i fondi di mantenimento? Amletico quesito che Orfini Matteo, ex portaborse dalemiano e ora renziano, non si è mai posto.

Orfini Matteo - Presidente Pd - ex portaborse di  D'Alema
                                                         
Il carnevale 2018 cadrà nella seconda settimana di febbraio e l’11 del mese sarà sabato grasso. Quindi festa e scherzi a più non posso, per le donne e gli uomini normali di questo paese. Ma la regola non vale per i bonzi del Pd che vogliono anticipare il divertimento già all’inizio di gennaio. E quindi pensa che ti ripensa sono giunti alla conclusione che sarebbe stata una bellissima barzelletta lanciare l’idea dell’abolizione del canone RAI. Risate a crepapelle.
Tra quelli che si sono messi subito in scia, aumentando le risate, l’Orfini Matteo, come ti sbagli. L’Orfini, una vita da portaborse: prima di D’Alema, grazie al quale entra in parlamento, ed ora di Renzi grazie al quale è diventato presidente del Pd. E con il peso della sua carica, che conta come il due di picche quando la briscola è cuori, sostiene che il canone va tolto del tutto e che la sua fiscalizzazione fa più forte la RAI. Giusto per spiegare ad Orfini quel che ha detto, per fiscalizzazione si intende che i costi RAI saranno sostenuti dallo Stato. Mica male come idea. Che poi ci si domandi da dove lo Stato (o il governo) trarrà i soldi è un dettaglio del tutto trascurabile. Magari da tasse indirette che toccano chi ha meno e lasciano indenni chi ha di più. Come si possa essere più forti dipendendo dallo Stato (e dal governo) piuttosto che dal canone è tutto da dimostrare. Ma l’esperienza della vita questo ha dimostrato all’Orfini Matteo: dipendere è meglio che essere autonomi.
 Quando nel 2016 il governo Renzi decise di inserire il canone RAI nella bolletta della luce si sollevarono alti lai solo dal gotha della nazione (come non ricordare le critiche del Testa Chicco) mentre ai più il provvedimento non faceva né caldo né freddo: tanto il canone già lo pagavano. Anzi alcuni ne furono addirittura felici: calava di qualche euro, veniva rateizzato, ma soprattutto andava a pescare quei furbetti e quelle furbette, alla Santanché, che non lo pagavano. Quindi un bel colpo per ridurre l’evasione. Ovviamente l’idea di aver fatto una cosa giusta, ancorché un po’ pasticciata, deve aver sconvolto sia il Renzi Matteo che i suoi pasdaran e, come noto, i pasdaran non brillano per acume. Ora nel Pd e nel governo si trovano ancora dei pensanti, pochi, che a far la parte dei buffoni non ci stanno.
Uno di questi, il ministro Calenda ha dichiarato che da qui alle elezioni, il 4 marzo, si assisterà ad una sorta di Truman show dove, ma questo era sottinteso tutti i cialtronazzi che calcheranno il palcoscenico lanceranno le più esilaranti promesse. Da chi prometterà di  regalare la pasta per dentiere a chi dirà di voler togliere l’Iva da questo o quel prodotto a chi garantirà che sarà tre volte natale e  festa tutti i giorni. Magari anche la vita eterna, ma a rate. E l’abolizione del canone Rai rientra a pieno titolo in questo filone. Alleluja.
Con la fine del carnevale finiranno anche le corbellerie in libertà? Sarebbe auspicabile ma non accadrà.

martedì 2 gennaio 2018

Il 2017 si chiude con il discorso del Presidente.



Il cerimoniale ha voluto essere innovativo, quasi rivoluzionario, il Presidente seduto in poltrona anziché assiso alla scrivania. Il discorso è scivolato secondo  i soliti canoni. Temi appena sfiorati «non tocca a me» Solidarietà a go-go e l’idea che chi riveste ruolo istituzionale ha responsabilità verso la Repubblica. Pensava a Minniti e Caldarozzi? Il tutto in dieci minuti, altra innovazione.

Il Presidente Sergio Mattarella durante il discorso di fine anno 2017


Come succede da millanta anni il 31 dicembre ore 20,30 o giù di lì. all’italica nazione viene regalato il discorso del Presidente della Repubblica. Il fatto è a reti unificate: televisione e radio, sia di Stato sia private. In altre parole non si può sfuggire all’evento. Il 2017, per non essere da meno degli altri anni che l’hanno preceduto, ha mantenuto la formalità del rito pure se il cerimoniale ha voluto essere innovativo, quasi rivoluzionario. Questa volta il presidente non era assiso alla scrivania - metamessaggio: sto lavorando anche l’ultimo giorno dell’anno e voi siete già a tavola - ma più familiarmente accomodato in una poltrona - metamessaggio: bando alle formalità, sono il Presidente ma facciamo finta che siamo uguali: il Nonno della nazione.
Dopo questo primo strappo alla regola il discorso è scivolato secondo i soliti canoni. In sintesi segue la cronaca
L’apertura è dedicata al settantesimo anniversario della Costituzione: lo si sapeva già. È da un anno che se ne parla e c’è chi ha l’idea di cambiarla anziché attuarla. Ma è storia vecchia.
Il secondo tema: le prossime elezioni, con l’invito ad andare alle urne. Banale. E ovviamente nessuna considerazione sul perché si teme che il 4 di marzo una bella fetta di elettori farà tutt’altro. Troppo complicato ed autolesionistico.
A seguire uno spruzzo di retorica sul centenario della vittoria nella Grande Guerra e sulle «immani sofferenze provocate dal conflitto». Superficiale. Se ne poteva fare a meno, Anche perché non era quella l’occasione per dire che fu, come sempre, un conflitto al quale la nazione si presentò impreparata con truppe mal addestrate, equipaggiamenti infami, le scarpe di cartone, e generali cialtroni e incapaci oltre il lecito. A chi ordinò le decimazioni sono state  in seguito dedicate piazze e vie. Vergogna.
Quanto poi all’accostamento tra gli attuali diciottenni ai “ ragazzi del ’99”: un infortunio. Salvo non si volesse sottintendere che la nuova generazione corre il serio rischio di fare la fine di quella di cent’anni addietro: essere carne da macello. E il trito riferimento al futuro, come sempre, lascia il tempo che trova.
Aggiungere che il lavoro è la priorità massima è ormai parte integrante delle giaculatorie di ogni politico. Quanto poi al fare è tutto un altro discorso soprattutto se, per istituzionale correttezza, ci si chiama fuori: «Non è mio compito formulare indicazioni» Anche se chi un lavoro non ce l’ha della correttezza istituzionale non sa che farsene.
Sul finire solidarietà a gog-go, tanto non costa nulla, ai terremotati dell’anno scorso, secondo anno senza casa e casette e di quest’anno e agli alluvionati. Di L’Aquila non si parla più. Acqua passata non macina più.
Come chiusura: il ringraziamento alle Forse dell’Ordine, ai servizi di intelligence, alle Forze Armate e a tutti quelli impegnati al lavoro durante le festività. E poi il monito: « Tutti, specialmente chi riveste un ruolo istituzionale deve avvertire, in modo particolare, la responsabilità nei confronti della Repubblica.» Chissà se nel pronunciare quest’ultima frase ha pensato al ministro Minniti Marco, che ha avuto la brillante idea di nominare vicedirettore della DIA tale Gilberto Caldarozzi, pregiudicato, 3 anni e 8 mesi, abile costruttore di prove false, che prese parte alla “macelleria messicana” della scuola Diaz a Genova e, per soprammercato definito dalla Cassazione “vergogna del Paese.” Ma quasi sicuramente no, non pensava a Minniti né ad alcun altro. Era giusto per dire.
Il tutto in circa dieci minuti un’altra bella novità: un’intramuscolo quasi indolore rispetto ai tanto ponderosi quanto noiosi ed inefficaci saluti di Napolitano Giorgio. Alla fine si trova sempre qualcosa di positivo in ogni situazione.