Elsa Fornero - professoressa choosy |
Si dice che il tempo
lenisca tutti gli affanni e poco alla volta ci si abitui a tutto. Elsa Fornero
ne è un tangibile esempio. Dopo lo scioglimento dell’esecutivo Monti di cui
faceva parte è sparita sia dai mezzi di informazione più frivoli – dove
discettava di abiti firmati mentre la sua legge metteva sul lastrico migliaia
di famiglie – sia da quelli ritenuti autorevoli. Da qualche mese invece diverse
trasmissioni televisive e radio hanno ripreso ad intervistarla sia sulla sua
legge sia su futuri scenari economici. Elsa Fornero risponde ad ogni domanda
compitamente scandendo ogni singola parola e con la pedanteria che gli italici
hanno imparato a conoscere – ahiloro – ripete la giaculatoria di sempre. La
legge andava fatta perché: lo chiedeva l’Europa, perché i mercati, perché il
deficit, perché la spesa pubblica e via giaculatorando. Naturalmente omette di
dire l’unica cosa vera e sensata: lei, e l’intero governo Monti, è andata a
prendere i denari non dov’erano ma dov’era più facile arraffarli. Non mettendo
nella vicenda alcuno sforzo di ragionamento, inventiva e, meno che mai, di
creatività.
Durante le trasmissioni la Fornero ascolta con visibile pazienza gli interventi degli ascoltatori che presentano casi drammatici e di evidente ingiustizia. A questi risponde con arrogante sufficienza qualcosa del tipo:«tutti i singoli casi sono comprensibili e rispettabili, ma bisogna tener conto del dato generale.» Dimenticando che, come diceva il principe De Curtis:«è la somma che fa il totale.» Fosse andata più spesso al cinema avrebbe causato meno danni.
Quello che segue è uno
dei tanti casi personali, «comprensibili e rispettabili», sui quali la Fornero,
che è un tantinello choosy, è passata
sopra come un carro armato tanto lei dalla legge che porta il suo nome non è
minimamente toccata. Quando l’ha scoperto ha senz’altro tirato un sospiro di
sollievo.
La storia che segue è
vera come la sua protagonista. Tutto cominciò nel 1978 quando la signora
Diotima (nome di fantasia che tanto piaceva a Robert Musil) aveva 21 anni. Dopo aver ottenuto un diploma
parauniversitario, che oggi equivale ad una laurea triennale, ed aver spedito
molte lettere, viene assunta da un Comune dell’hinterland milanese. Assunzione
precaria. Già perché anche allora esisteva il precariato. La signora Diotima è costretta ad aprire la
partita IVA che dopo qualche tempo le verrà fatta chiudere per essere assunta
con un altro contratto, bizzarro il giusto, per poi planare su un contratto a
progetto. In tutti i contratti firmati si dice che “ è stato deliberato
l’incarico d’opera professionale” e che “i limiti temporali del rapporto, dato
il carattere precario dell’incarico, non comportante subordinazione gerarchica da parte della S.V.
e che quindi non instaura un rapporto di dipendenza con questo Ente”. Inutile
dire che la signora Diotima firmava atti ufficiali che obbligavano “questo
Ente” ad erogare prestazioni e servizi. Un non-sense, per non dire
buffonata, che neanche nelle comiche di
Stanlio ed Olio.
Comunque com’e come non è questa storia va avanti per ben sette anni, con rinnovi annuali, quando finalmente il Comune decide di indire un concorso. Diotima partecipa e lo vince, d’altra parte aveva maturato una bella esperienza settennale. Alleluja. A quel punto Diotima chiede di poter riscattare i sette anni pregressi e di versare all’Inps i contributi dovuti. Per intenderci quelli che avrebbe dovuto versare l’ente pubblico. Naturalmente, come nei migliori melodrammi l’ente pubblico risponde indignato che la cosa non si può fare. E così sette anni di lavoro e di mancati contributi passano in cavalleria, ovvero sono buttati. Non ci sono mai stati. E l’Inps ha perso sette anni di contributi.
Quello svolto dalla signora Diotima in quel Comune non era un lavoro da scrivania, troppo facile, ma di territorio. Si doveva confrontare quotidianamente con situazioni socialmente complesse, spesso con famiglie emarginate e maggiormente bisognose di aiuto nelle zone degradate del territorio. Uno di quei bei lavori che mettono l’operatore a contatto con le miserie della vita, anche le più turpi, che caricano di angoscia e richiedono grande forza d’animo per non lasciarsi scoraggiare ed abbattere. Lo si può definire un lavoro usurante non tanto nel fisico quanto nella mente. Ma far capire questo sottile passaggio ad una professoressa di economia politica choosy il giusto e con un diploma di ragioneria è un’impresa disperata. E non lo stanno considerando neanche oggi quei simpatici parlamentari e sindacalisti che stanno stendendo la lista dei lavori usuranti.
Comunque com’e come non è questa storia va avanti per ben sette anni, con rinnovi annuali, quando finalmente il Comune decide di indire un concorso. Diotima partecipa e lo vince, d’altra parte aveva maturato una bella esperienza settennale. Alleluja. A quel punto Diotima chiede di poter riscattare i sette anni pregressi e di versare all’Inps i contributi dovuti. Per intenderci quelli che avrebbe dovuto versare l’ente pubblico. Naturalmente, come nei migliori melodrammi l’ente pubblico risponde indignato che la cosa non si può fare. E così sette anni di lavoro e di mancati contributi passano in cavalleria, ovvero sono buttati. Non ci sono mai stati. E l’Inps ha perso sette anni di contributi.
Quello svolto dalla signora Diotima in quel Comune non era un lavoro da scrivania, troppo facile, ma di territorio. Si doveva confrontare quotidianamente con situazioni socialmente complesse, spesso con famiglie emarginate e maggiormente bisognose di aiuto nelle zone degradate del territorio. Uno di quei bei lavori che mettono l’operatore a contatto con le miserie della vita, anche le più turpi, che caricano di angoscia e richiedono grande forza d’animo per non lasciarsi scoraggiare ed abbattere. Lo si può definire un lavoro usurante non tanto nel fisico quanto nella mente. Ma far capire questo sottile passaggio ad una professoressa di economia politica choosy il giusto e con un diploma di ragioneria è un’impresa disperata. E non lo stanno considerando neanche oggi quei simpatici parlamentari e sindacalisti che stanno stendendo la lista dei lavori usuranti.
Si arriva ai giorni
nostri e la signora Diotima constata che per l’Inps lei ha lavorato solo 35
anni e non 42 come in effetti è successo e che per raggiungere la pensione – che
un parlamentare raccoglie a 60 anni e dopo solo 5 anni di versamenti - dovrà
lavorare ancora un bel po’ di annetti. Risultato finale la signora Diotima
lavorerà fino a sessantasette anni, come prescrive la legge, figurando di averne
lavorati solo per 42 quando in realtà saranno
stati invece 49. Questa è una delle somme che compongono il totale della
legge Fornero. Naturalmente sul versante Inps si tace.
Ultima chicca: essendo la Signora Diotima una dipendente pubblica quando finalmente, dopo 49 anni di lavoro, andrà in pensione dovrà attendere altri due anni per ricevere la liquidazione o tfr. E neanche tutta intera. Non come un qualsiasi deputato che, se non rieletto o non ripresentato, riceve in tempo pressoché reale, una bella liquidazione: pari all’80% dell’indennità parlamentare per ogni anno passato in parlamento. Evviva.
Ultima chicca: essendo la Signora Diotima una dipendente pubblica quando finalmente, dopo 49 anni di lavoro, andrà in pensione dovrà attendere altri due anni per ricevere la liquidazione o tfr. E neanche tutta intera. Non come un qualsiasi deputato che, se non rieletto o non ripresentato, riceve in tempo pressoché reale, una bella liquidazione: pari all’80% dell’indennità parlamentare per ogni anno passato in parlamento. Evviva.