Ciò che possiamo licenziare

lunedì 28 settembre 2015

Pietro Ingrao: Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto persuaso.

Era un visionario e come tutti i visionari vedeva oltre il proprio naso. Troppo per gli apparatinichi del Pci e non solo. Nel 1966 si scontrò con i miglioristi, perse ma alla luce della storia aveva ragione. Da quella sconfitta venne fuori la politica come è oggi. Nel 1976 scrisse Masse e Potere fu letto poco e ancor meno capito. In quello c’era già molto dei giorni nostri.  

Probabilmente in questa frase: «Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto convinto» c’è tutto Pietro Ingrao. La pronunciò durante l’XI congresso del Pci nel 1966. Congresso importantissimo per la definizione del successivo posizionamento e della nuova missione del Pci. Dal punto di vista storico quel congresso segnò il punto di svolta: principio della fine del partito dell’alternativa.

Nel 1966 si scontrarono due linee, quella di Amendola e quella di Ingrao. Il primo sosteneva che bisognava incalzare il centro-sinistra, nato due anni prima ma che già dimostrava tutte le sue deficienze, nell’attuazione del programma con l’obiettivo di dimostrarne l’inefficienza e proporsi come partner risolutivo. Questi erano i futuri miglioristi tra i quali, come ti sbagli, stava Giorgio Napolitano. La posizione di Ingrao andava nella direzione opposta poiché chiaramente vedeva nel centro-sinistra un pericoloso disegno di integrazione culturale e sociale di una parte del movimento operaio, e dunque il pericolo di subalternità e omologazione. Come è avvenuto. Quindi la sua proposta: non inseguire la chimera migliorista ma lavorare per un reale modello di sviluppo economico e sociale alternativo. Di cui ora si parla e si scrive, Piketty (1971) non era ancora nato. L’ha capito, adesso, anche D’Alema.  Forse.

Quel congresso fu vinto dalla componente migliorista che pose le basi per l’involuzione delle cooperative, la sola rivendicazione salariale dei sindacati e, come una buona chioccia, si mise a covare i futuri politici manager. Quelli di cui Cesare Romiti, quasi trent’anni dopo, disse «se nei ministeri gestiti da loro si fosse parlato in inglese sarebbe parso di stare in una merchant bank.» Ma in realtà risultarono inefficienti come politici dell’innovazione e manager incapaci.

Nel 1977 pubblicò “Masse e potere” raccolta di saggi visionari nei quali ipotizza «fusione tra iniziativa economica coordinata e scienza sociale» e vede come nemico del concetto di partito (di sinistra)  «la sua riduzione a coacervo di mediazioni corporative ad amministratore e sensale di spezzoni sociali e di equilibri tra confraternite.» Spiegarlo a Renzi no  sarebbe male. E aggiunge che «le fortezze ministeriali romane non sono capaci di padroneggiare la società multiforme e contraddittoria in cui viviamo.» Per finire scrive di: «assemblee che contano non per il numero e la minuzia delle leggi, ma per il coordinamento che realizzano, per la loro capacità di controllare non solo i pezzi ma l’insieme.» Bossi era di là da venire. E di citazioni se ne potrebbero fare a iosa. Non fu ascoltato allora e non è letto adesso. E poiché quelle 390 paginette formato mezzo uni sono illuminanti quanto basta capire quello che ci sta succedendo meglio lasciarle riposare sullo scaffale della libreria.

Voleva la luna, Pietro Ingrao e non l’ha avuta, ma in compenso vide con illuminante chiarezza le radici delle nostre attuali sciagure e le segnalò. Quelli che gli stavano attorno rimasero ciechi e oggi se ne pagano le conseguenze. Comunque ogni suo atto ha dato una scossa , scomoda e per questo non appieno valutata e seguita, alla coscienza collettiva del Paese. L’ha fatto anche con la sua dipartita: su twitter per alcune ore ha svuotato la componente renziana. Molti fra gli attuali supporter del fiorentino (tutti ex di qualcosa) si sono messi ad esaltarlo non capendo che ogni parola detta in suo omaggio è contestualmente di condanna alla loro attuale posizione. D’altra parte se l’avessero capito non sarebbero renziani. Spesso d’accatto. Il solito sciacallaggio.


Piccola nota biografica: in quell’anno un professore di sociologia, alla Statale di Milano, mi rifiutò la tesi su quel testo. Troppo scarno, disse. Troppo idiota, pensai.

5 commenti:

  1. vero..... lo ritiro fuori.... del '76? oddio, sono proprio acciaccata perché l'avrei spostato di 10 anni in avanti...

    RispondiElimina
  2. No no è di quell'epoca, credo di averci anche polemizzato, prima o poi mi deciderò a leggerlo Emoticon smile

    RispondiElimina
    Risposte
    1. polemica a.... prescindere..... non proprio corretto, sotto ogni punto di vista

      Elimina
    2. ma dài, avrò polemizzato con le posizioni di Ingrao parlando con te o al bar con qualche conoscente... scherzavo. Di sicuro lo comprai in pompa magna e lo sfogliai solo

      Elimina
    3. Invece avevo letto Amendola, che mi aveva persuaso, sono ricordi lontani, ma mi sembra per la sua solida impostazione storica e l'attenzione ai fatti economici e alle ordinarie dialettiche di classe. Ingrao ni pareva - ma senza una documentazione tale da sostenerlo per iscritto! - un figlio non di una antica tradizione demoliberale inciampata poi su Stalin per i casi della Storia, come Amendola, ma delle elaborazioni della gioventù dei Gruppi Universitari Fascisti transitati poi all'antifascismo in tempi non sospetti, lavoranti su entità più astratte. Ma ti dico, varrebbe la pena di informarsi seriamente. Erano chiacchiere che si facevano ordinariamente fra chi seguiva la politica, non nelle biblioteche ma sui giornali in tv eccetera

      Elimina