Renato
Brunetta, genietto dell’italica economia, lancia il suo ultimo saggio
dall’emblematico titolo “La mia economia”. Se non fosse termine abusato lui
parlerebbe di capitalismo 2.0, ma il termine è stucchevole. Per questo si rifà
al pathos del capitano Achab che gli sembra più consono.
E così Renato Brunetta, genietto della scienza
economica italiana, ha deciso di dare alle stampe la sua utopia e per non
correre il rischio di essere confuso con Tommaso Moro ha voluto specificare nel
titolo che l’utopia di cui parla è proprio la sua.
L’utopia di Renato Brunetta.
E per essere ancor più certo che nessuno gli porti via la paternità delle idee,
se così le si vuol chiamare, che stanno dentro, magari un po’ strettine, nelle
160 pagine che compongono il saggio l’ha intitolato: “La mia utopia”. Che tutto
sommato ci sta, ognuno è libero di sognare la sua propria utopia. Che è solo sua.
Il che poi equivale a dire che vivendo in Paese libero ognuno può scrivere le
pazzate che gli giran per la testa. Se poi si trova qualcheduno che gliele
pubblica e magari pure chi è disposto a spendere 18 eurini per leggerle per
esteso allora si fa bingo. Che poi la casa editrice sia la Mondadori che guarda
caso è di proprietà del presidente del suo partito, il domiciliato di Arcore, è
un semplice accidente della storia.
In buona sostanza il professor Renato Brunetta, che
sotto sotto aspirerebbe al premio nobel per l’economia, e qualche volta questo
suo desiderio deve essergli anche scappato di bocca per garantire il buon umore
dei suoi amici, sostiene una tesi, lui dice del tutto nuova, che parte dal più
grave male che affligge l’Italia e buona parte del mondo occidentale: la
disoccupazione. Sconfiggere la disoccupazione è nobile obiettivo e come si fa?
Semplicissimo: si ribaltano formule vecchie e stantie. Il concetto di lavoro
nell’economia capitalistica è, nella sostanza, formato da due variabili che sono
l’occupazione e il salario di cui la seconda, il salario, risulta essere fissa
mentre l’altra, l’occupazione, risulta essere variabile. Ovvero come lo stesso
Brunetta dice in una intervista al Corsera
(20 aprile 2014) : « Se va giù l’economia, aumenta la disoccupazione. Non
si tagliano i salari ma si licenzia. Ribaltiamo la prospettiva e invece di
tener fisso il salario e mobile il rapporto tra occupati e disoccupati
invertiamo la priorità» Bellissimo quindi basta invertire l’ordine dei fattori
e, contrariamente a quanto si è pensato per qualche secolo, il risultato cambia.
Eccome se cambia.
Con questo piccolo e semplice pensiero, ma le grandi idee con
il senno di poi sono quasi sempre delle banalità e spesso i geni sono incompresi,
la paura che affligge i lavoratori del
mondo capitalistico di perdere il lavoro è cosa risolta. Tutti saranno occupati
ed avranno un lavoro. È splendido.
In realtà l’idea, almeno in parte, non è del tutto
nuova ci avevano già pensato anche altri utopisti: i ragazzi del ’68. Infatti
quei giovani scriteriati gridavano qualcosa di simile: «lavorare meno lavorare
tutti.» Brunetta in gioventù deve aver incrociato quella pazza idea, ci ha
ponzato sopra per quarantasei anni e ha scoperto dove stava l’errore. I
sessantottini non dicevano di voler ridurre contemporaneamente anche il
salario. A questo piccolo errore pone rimedio l’ormai maturo economista
Brunetta. Come non averci pensato prima?
Questa infatti è la prima parte del succulento ragionamento brunettiamo: tutti
al lavoro ma con meno salario.
Però, se c’è poca domanda si fanno pochi prodotti e
quindi come si concilia un gran numero di lavoratori, ancorché scarsamente
pagati, con i pochi manufatti su cui lavorare? Mistero. O meglio: «Il mercato resta
con la sua scopa. - dice il Brunetta - La piena occupazione è da intendersi nel
sistema nel suo complesso.». Elementare Watson. Che poi è come sperare che
chiusa un’azienda se ne apra subito un’altra. Ma qui più che ragionare di
utopia sembra si debba contare sui miracoli che in tempi di stagnazione o quasi
deflazione scarseggiano anch’essi.
E se quindi anche sui miracoli si può far poco conto
non resta che appoggiarsi sulla «Buona globalizzazione economica da intendersi
nel senso della interconnessione universale. – e qui c’è il cambio di passo che
fa la differenza tra un semplice economista e un genietto ancorché non
riconosciuto dall’accademia di Stoccolma – Questo tipo di economia non tollera
rigidità , esige partecipazione, flessibilità e intelligenza, perché esige e
determina sentimento di appartenenza, pathos. Lo stesso pathos che animava la
Pequod , il veliaro del capitano Achab.» Insomma tutto sta nel pathos.
Un paio di dettagli sfuggono al genietto aspirante
nobel. Il primo è che il pathos è sentimento da uomini e non da cose e quindi
più che al veliero andrebbe meglio riferito al capitano Achab. Il secondo è che
forse il Brunetta o non ha letto il libro per intero o non l’ha capito. Infatti
il capitano Achab, proprio perché trasportato da quel suo pathos muore. Che non
è propriamente una bella né auspicabile fine.
I paralleli letterari vanno scelti cum grano salis, che a un aspirante
nobel non dovrebbe mancare, altrimenti si corre il rischio di far emergere
quelle parti del proprio inconscio che sarebbe forse meglio sanare o alla peggio
tener nascoste. E l’esempio di D’Alema che battezza le sue barche Ikarus
qualcosa avrebbe dovuto insegnare.
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