Dice la vulgata
che molte imprese straniere non sono disposte ad investire nell’italico stivale
perché temono i biblici tempi della nostrana giustizia,
la non certezza delle leggi e un fisco esoso e talvolta iniquo. L’IMU, la tassa
simil-patrimoniale sulla casa che quest’anno frutterà all’erario, spannometricamente
calcolati 25 miliardi, nel suo piccolo, rappresenta il paradigma del malessere
dell’apparto legislativo-giudiziario-fiscale del Belpaese. Ne sono testimoni i tanti
contenziosi che stanno scandendo la vita
di questa tassa. Ci si domanderà perché si parli proprio di IMU quando ben
altre e ancor più macroscopiche sono le deficienze del sistema e la risposta è
semplice: perché il diavolo si annida nei dettagli e poi che questi sono tempi
di IMU. Molto di quello che riguarda questa tassa è un bel papocchio. Una volta
c’era l’ICI, semplice e chiara tassa comunale sugli immobili che, con
demagogico gesto fu abolita di punto in bianco per far vincere le elezione alla prima versione del populismo nostrano. Il popolo nella sua versione bue, per un
piatto di lenticchie si predispose ad una ben più onerosa tassazione. Ma
tant’è: gli italici non brillano per lungimiranza politica, sempre disposti come
sono a seguire il pifferaio magico di turno. Infatti, a breve giro, per colmare
il buco del mancato introito dell’ICI arrivò l’IMU, assai più onerosa. L’IMU non
si applica sulla abitazione principale o prima casa, sempre che non sia di
lusso o un castello, ma solo sulla seconda e altre possedute e qui un minimo di
logica ci sta. Sulla definizione di abitazione principale e suoi corollari
inizia la confusione: cos’è abitazione principale? Logica, sempre lei, vorrebbe
che si intendesse l’unica dove il proprietario dimora e abitualmente vive. Ma
così non è: come per incanto appare il sociologico concetto di nucleo familiare. E qui il gatto si morde la coda: poiché il nucleo familiare è dato dai componenti
che vivono sotto lo stesso tetto, ma quel tetto è principale solo se il nucleo familiare ci vive. Comma 22. Si dirà;
c’è l’anagrafe che può dirimere il busillis.
Già, ma il fatto è che, DPR 30 maggio 1989, una
famiglia anagrafica può essere composta da una sola persona. E qui si
aprono i contenziosi: due coniugi ciascuno proprietario di un immobile, che per
motivi loro, hanno deciso di vivere abitualmente in due dimore diverse, in
comuni e provincie o regioni diverse come si devono comportare? Il MEF,
Ministero dell’Economia e delle Finanze, aveva stranamente previsto questa
possibilità e quindi aveva stabilito con lungimiranza, circolare 3/DF maggio
2012, che nel caso in questione: due coniugi, due proprietari al 100%, due
abitazioni, due comuni, se verificata l’abitualità della dimora, dimostrata dai
consumi di acqua, elettricità, telefono, ognuna avesse diritto ad essere
considerata abitazione principale. Sembra logico: due nuclei familiari uguale
due abitazioni principali. Ma i Comuni hanno necessità di rimpinguare le loro
casse e allora come non dare un aiutino, magari dalla magistratura. E infatti,
a questo punto (febbraio 2020) interviene la Cassazione che, ex abrupto, con due ordinanze, che si
svolgono in camera di consiglio dunque senza possibilità di contraddittorio tra
le parti, stabilisce come sostanzialmente non validi sia il DPR del 1989 sia la
circolare del Ministero del 2012, a cui molti contribuenti si sono attenuti
negli anni. Questo detto a proposito della certezza del diritto. Ma la questione
non finisce qui. Poiché ci vogliono in media,millecentodieci
giorni, tradotto tre anni e briscola, perché un
procedimento si chiuda in Cassazione, cui vanno sommati i tempi di primo
grado ed appello che cubano mediamente ad altri tre anni e briscola; totale sei
anni e briscola, fonte Ministero della Giustizia, ci si può ben immaginare il danno a
strascico che si viene a creare nei confronti di chi fino a quel momento ha
seguito le indicazioni del Ministero. Come aggiunta: l’ordinanza in questione
ha effetto retroattivo. E non, come sarebbe ovvio, dal momento di
emissione della ordinanza stessa in avanti. Questa
è la diversità tra legalità e giustizia. Infine il soccombente si troverà a
dover saldare oltre all’imposta che legittimamente riteneva non dovuta anche
more, interessi e sanzioni.
Dice
la vulgata che molte imprese straniere non sono disposte ad investire
nell’italico stivale perché temono i biblici tempi della nostrana giustizia, la non certezza delle leggi e un fisco esoso e
talvolta iniquo. Chi l’avrebbe mai detto.
Buona
settimana e buona fortuna.
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