Ciò che possiamo licenziare

sabato 6 dicembre 2014

Indovina chi si incontra a cena?

Roberto Saviano chiede spiegazioni per una cena di 4 anni fa. Il ministro Poletti trova «sgradevole essere tirato in ballo». Andreotti non accettava inviti se non conosceva i commensali e Cuccia dei suoi azionisti conosceva tutto, ma proprio tutto. Se si fanno minchionate è giusto essere bacchettati.

Giulio Poletti è stato attaccato da Roberto Saviano perché nel 2010 andò ad una cena dove sedeva il gotha di quello che poi è diventato il caso «Mafia Capitale» 
Narrano alcune leggende metropolitane, che di solito sono delle gran bufale ma qualche volta ci prendono, che Giulio Andreotti, detto il divo Giulio, ma anche lo zio Giulio, ma anche belzebù e anche la volpe, fosse solito, prima di accettare inviti a cena, chiedere chi fossero gli altri a tavola. E se aveva delle cattive impressioni declinava. Non che poi tutte le sue frequentazioni fossero specchiate, ma almeno un po' alle apparenze ci teneva. Inoltre i soliti bene informati dicono anche che volesse conoscere la disposizione dei posti in modo da avere affianco solo persone presentabili. Si fa per dire. Sempre le stesse leggende metropolitane raccontano che Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca, che peraltro non accettava mai inviti a cena, conoscesse per filo e per segno, comprese le magagne, tutti i suoi azionisti. E con prodigiosa memoria ricordasse, in privata sede e solo agli interessarti, episodi per così dire divertenti. Almeno finché rimanevano in quelle stanze che quei muri non aveno né bocca né orecchie. Leggende metropolitane. Ma come spesso raccontano i parroci di campagna bisogna sempre far tesoro di queste favole perché dentro nascondono spesso un bel po' di saggezza.

Giuliano Poletti invece andava a cena senza informarsi sugli altri commensali e soprattutto senza aver ben chiaro chi fossero i suoi associati. Già, perché allora non era ministro ma più semplicemente il presidente di Legacoop nazionale. A dirla così sembra una bocciofila mentre invece era ed è una potenza economica non da ridere. Nel 2009, l'anno prima della cena incriminata, la Legacoop nazionale gestiva 15.000 cooperative (sono 15.000 da sempre e in questo assomigliano ai cinesi di Milano che di numero non cambiano mai), ottomilioni di soci, quasi mezzo milione di dipendenti e circa 56 miliardi di fatturato. E così, neanche fosse l'ospite invitato all'ultimo perché gli altri a tavola erano in tredici, lui ci andò senza fare domande e si sedette proprio di fronte a Gianni Alemanno, allora sindaco. Già chiacchierato. E come niente fosse si trovò in compagnia di Salvatore Buzzi e di tutti quegli altri che ai giorni nostri vengono classificati in ordine alfabetico nel fascicolo «Mafia Capitale». 

Uno dice: «Mica si possono conoscere tutti i presidenti delle cooperative aderenti.» E questo è vero, ma quante cooperative fatturavano 16 milioni di euro in quegli anni? Che sono quanti ne faceva la cooperativa 29 giugno di Salvatore Buzzi nel 2009. Pochine vien da dire. Qualcuno avrebbe dovuto dirlo al presidente che si sarebbe trovato di fronte ad un fenomeno: perché una cooperativa di ex detenuti che mette insieme in pochi anni quel popò di giro d'affari dev'essere guidata proprio da un genio. Dato per scontato che quei soldi non li abbiano messi insieme facendo delle rapine. Se poi si pensa che quel gruzzoletto il Buzzi lo faceva con un'amministrazione comunale di colore avverso deve essere genio due volte.

Da cui discende che se quelli di destra utilizzano una cooperativa di sinistra i fatti sono due: o la 29 giugno ha prezzi e qualità strabilianti o viene usata come effetto candeggina. Ovverosia per dimostrare che tuttto è regolare e sbiancare eventuali magagne. Gli si fa vincere qualcosina. Garette marginali. Premi di consolazione. Ma sedici milioni di eurini non sono propriamente un premio di consolazione. E allora qui gatta ci cova.

E ci covava sì perché già allora si mormorava sulla «parentopoli nera» di Alemanno Ginni e anche sulle gare d'appalto qualcosa si diceva. E non erano cosa belle. Ma l'imolese Giuliano Poletti, presidente, non sapeva nulla. E nulla sapeva il suo staff e nulla la Legacoop di Roma e tanto meno quella del Lazio. Che a guardare solo gli ultimi due livelli, che sono quelli più legati al territorio, c'è da chiedersi come quell'organizzazione abbia potuto e possa tutt'ora mettere insieme quel bel fatturato degno di una multinazionale.


La vulgata, nel vecchio Pci, diceva che per i funzionari di carriera il partito fosse il paradiso, il sindacato il purgatorio e le associazioni di massa l'inferno. E lì stava Poletti. Poi le Coop un po' si sono risollevate perché controllare i flussi di cassa fa crescere nella scala sociale e nella reputazione. Soprattutto quando il partito non è più forte come un tempo e l'autonomia si è allargata. Però, magari, metterci un po' d testa quando si viene invitati da qualche parte o quando vien richiesto di stringere qualche mano, magari adesso che si è ministro, non fa male. Soprattutto se non si è in debito.

1 commento: