Ciò che possiamo licenziare

giovedì 18 dicembre 2014

Cuba è più vicina, i due marò invece no.

Dietro il ravvicinamento tra Cuba e Washington  pare ci sia la manina di papa Francesco: un paio di lettere e qualche telefonata. L’Italia in tre anni ha fatto sempre la stessa cosa: figura di palta. E se la si  affidasse a Bergoglio la questione dei marò?

Grande notizia sui giornali di tutto il mondo: finalmente il disgelo tra Cuba e gli Stati Uniti d’America. Dopo 63 anni riprenderanno a parlarsi e si riconosceranno reciprocamente. Bel colpo di cui (quasi) tutto il mondo è felice. Saranno un po’ perplessi i sognatori: mitizzatori del Che e di Fidel. Ma pazienza, forse sono rimasti pure in pochi. Gli statunitensi hanno scoperto che l’isolazionismo non funziona mentre i cubani da oggi rientrano nella grande famiglia americana. «Todos somos americanos.» lo ha detto Obama. Che tanto lo erano anche prima ma un bollino yankee fa sempre comodo.

Gli effetti collaterali non sono pochi. Innanzi tutto il nome di Cuba verrà depennato dalla lista nera degli stati canaglia (brillante invenzione USA) poi lo zucchero potrà potrà essere venduto a poche miglia di distanza e non fare il giro del mondo e infine i cubani residenti potranno ricevere più soldi da quelli espatriati: da 500 a 2.000 dollari per trimestre. Per gli USA il primo e più importante beneficio sarà che la Cia potrà smettere di scervellarsi sul come ammazzare Fidel. Ci hanno provato 638 volte compresa quella di avvelenare suoi sigari. A riprova che più il consesso è serio e più l’umorismo ha libero accesso.  La seconda è che Michele Obama e figlie potranno farsi un altro viaggetto. Sulla porta di casa, ma comunque esotico dove potranno visitare il più grande museo all’aria aperta d’auto d’epoca yankee. Fine tessitore del miracolo: Jorge Bergoglio in arte papa Francesco, da solo diciotto mesi residente a Roma. Gli sono bastate un paio di lettere e qualche telefonata.

Mentre tutto questo succedeva ad occidente della città eterna da oriente arrivava allo Stato italico  l’ennesimo smataflone. Targato India, naturalmente. Da tre anni la Corte Suprema indiana tiene in ostaggio due fucilieri, Latorre e Girone, senza emettere un capo di imputazione. Anche qui c’è la perfida ironia delle cose umane. E italiche in particolare. I fucilieri sono nella sostanza prigionieri ma senza accusa. Non sono in carcere, ma all’ambasciata. Ogni tanto hanno fruito di permessi, quasi delle licenze e qualche volta moglie e figli li hanno raggiunti. Un brillante ministro degli esteri durante una loro venuta sul patrio suolo non li voleva far ritornare nonostante la parola data. E per essere certo che la cosa girasse bene lo fece sapere alla stampa. Gli indiani, alle spalle una civiltà millenaria hanno capito in breve che degli italici non ci si può fidare. Per loro deve essere stata una scoperta. Pari a quella di Colombo Cristoforo quando trovò le indie occidentali.  Per cui Latorre, in Italia per curarsi, deve tornare nei tempi stabiliti e Girone non si può allontanare. Meglio tenersene uno ben stretto avranno pensato a New Delhi.

Comunque, dal momento del fermo dei due del San Marco sono passati tre governi e non è successo nulla. O meglio è stato reiterato per tre il solito atto: figura di palta. Adesso con due ministri di polso: alla difesa Pinotti, che non è parente di Gianni perché quello è il cognome e di nome fa Roberta e agli esteri Gentiloni Paolo, la situazione è rimasta nelle orme della tradizione manzoniana. Grida ferocissime e fegato di burro. Anche perché tuonare aggiungendo dei “ma” raramente ha portato da qualche parte. Rivolgersi a Veltroni Walter per spiegazioni in merito. Se poi si cerca di intervenire sulla Corte Suprema, istituzione indipendente, facendo pressioni sul governo indiano si dimostra che «non tutto il mondo è paese.» Ché magari si fosse chiesto subito l’arbitrato internazionale la cosa sarebbe ormai risolta.  Ma non ci si può aspettare da chi è senza denti di mordere.

In tutto questo bailamme è intervenuto anche il Colle. Napolitano si è detto «fortemente contrariato», in inglese «very dissatisfied.» La Corte Suprema indiana sarà rimasta impressionata da quel «fortemente.» Si fosse trattato di Regno Unito, USA o Germania o anche Francia sarebbe bastato «contrariato» Ma questi non sono loro, avranno pensato i giudici indiani.  Dagli torto.

Naturalmente in questi tre anni solidarietà a fiumi, qualche lacrima, alcuni viaggi ministeriale a spese del contribuente. Insomma la solita rappresentazione. Magari un suggerimento a Renzi e Napolitano, prima che se ne vada, lo si potrebbe dare: perché non chiedere a Bergoglio di occuparsi della questione? Questi del Vaticano a volte sono lenti, mai quanto i diversi inquilini della Farnesina, ma quando si fissano ottengono quel che vogliono.



5 commenti:

  1. non mi sembra il tramite giusto, l'India è anche una democrazia ma secondo i nostri criteri (umanistici) è la civiltà più distante, ostile al principio della compassione. Provare piuttosto coi reali da parata imperiale degli Inglesi, dominatori di cui conoscono le nequizie ma ammirano e han saputo imitare moltissime cose

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    1. Massimo, non dimenticare la forza missionaria dei gesuiti

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    2. può darsi. mi sembra ci sia un insediamento importante, qualche milione di cattolici, nello stato sudoccidentale del Kerala (se non sbaglio posizione). Ma adesso al potere c'è la destra indù

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  2. La chiesa è realmente radicata in america latina, e per di più è "americano" anche Papa Bergoglio.
    Non è così in India, tutta impegnata a dimostrare di non essere "succube" degli occidentali, premuta com'è dalla Cina, da una vasta popolazione musulmana interna ed esterna, e da un'opposizione interna anti Ghandi

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  3. Ma poi com'è che quando dei pubblici ufficiali pestano uno spacciatore rimbambito dalla droga ma abbastanza lucido da non vuotare il sacco, ve la prendete così tanto, e poi, quando due ufficiali così ignoranti da non saper distinguere le coste indiane da quelle somale, uccidono due pescatori senza una straccio di patente nautica, vi accalorate così tanto?
    Che brutta carriera quella dei "giornalisti aspiranti onorevoli"

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