Ciò che possiamo licenziare

giovedì 11 settembre 2014

L'incontro 2#puntata

Continuava a spingere e faceva piccoli passi nella direzione stabilita. Ormai mancavano pochi metri a raggiungere la parte esterna della folla quando avvertì un forte strappo e perse la cartella. Gli era rimasto in mano solo il manico. Lo lasciò cadere. Ancora pochi metri e da superare due imbecilli che spingevano per entrare nel girone dei pazzi e sarebbe stato completamente fuori. Quando ne fu uscito era sudato, ansante e affaticato.  Si appoggiò con la schiena ad un pilone e scivolò fino a terra. In quel momento si accorse che erano saltati quasi tutti i bottoni del suo bel cappotto di cachemire . Ne era rimasto solo uno, quello più in basso. Gli era stato strappato anche il taschino della giacca e con lui se n’era andato pure il fazzoletto giallo che considerava il suo portafortuna. Controllò il cellulare e scoprì che era rotto. Non aveva retto alla pressione. «Peggio di così non può andare.» pensò Donnino. Quindi pur rimanendo seduto a terra iniziò a circumnavigare il pilone. Voleva portarsi nella posizione più tranquilla per rilassarsi con calma e concentrazione.
Quando fu dalla parte opposta a dove stava la folla decise che quello era il punto giusto per iniziare una sessione di training autogeno. Si tolse il cappotto e per ottenere una sorta di sgabello, lo appallottolò e lo mise sopra uno zaino abbandonato che si trovava lì attorno. Ci si sedette sopra ed assunse la posizione del cocchiere. Pensò che si sarebbe rilassato meravigliosamente, che non avrebbe più sentito il vociare della gente, che il tempo sarebbe passato senza dargli fastidio e che nessuno l’avrebbe disturbato. Scostò la schiena dal pilone e la fletté in avanti appoggiando gli avambracci sulle cosce e lasciando ciondolare le mani. Fece scendere la testa verso il petto e chiuse gli occhi. Dopo pochi istanti sentì che la rilassatezza cominciava a spandersi dolcemente nel suo corpo. Partiva dalla testa e scendeva verso i piedi. La testa era leggera e iniziava a perdersi nel nulla.
Chissà da quanto tempo era in quella posizione quando sentì una mano che gli toccava la spalla destra. All’inizio era un tocco leggero, delicato poi si faceva via via più forte e vigoroso. Aprì gli occhi, sollevò la testa, la ruotò verso destra e si trovò dinanzi il viso di suo fratello. Non ne era certo ma gli pareva proprio suo fratello.
«Donnino, sono io, Mario» disse l’uomo che gli stava toccando la spalla
Donnino sbatté le palpebre un paio di volte poi, senza dire parola, si strofinò le mani tre volte e se le passò prima sul viso e poi sulla testa. Compì anche questa operazione per tre volte quindi riguardò suo fratello, sorrise e si alzò.
Non si vedevano da anni e da anni non si parlavano e non si scrivevano. In qualche modo avevano cercato di dimenticarsi l’uno dell’altro.
«Ciao Mario – disse Donnino - che ci fai qui?»
«Stavo cercando di partire, come immagino volessi fare anche tu.» rispose Mario
« Già – disse Donnino poi chiese - Hai qualche novità sulla situazione?»
«Non so fino a che punto tu sia arrivato – rispose Mario - ma da pochi minuti hanno detto che le condizioni del tempo sono peggiorate in tutta Europa. Pare che oggi stiamo vivendo dentro la più grande tempesta di neve della storia dell’umanità. Tutte le capitali d’Europa sono bloccate e tutti gli aeroporti sono combinati come noi: impossibile uscire, impossibile entrare. Qui la polizia ha preso il controllo della situazione e gli agenti stanno facendo una sorta di inventario del cibo per poi razionarlo.
Sembra che altrove ci siano stati dei disordini e anche dei morti. Anche qui pareva che le cose dovessero volgere al peggio poi è subentrata la calma. Da qualche parte si sono sentiti dei colpi di pistola. Ora la gente sembra tranquilla ma non c’è da fidarsi è solo depressa. Per questo se ne stanno tutti mogi mogi.»
«Accidenti. Mi sono perso tutto. – commentò Donnino - Ma è meglio il training autogeno.»
«Si certo – chiosò Mario – Meglio, molto meglio. Ma che ti hanno fatto, sei tutto stracciato.»
«Già, tutto stracciato – Donnino guardò la sua giacca e raccolse il cappotto – pensavo di ritornarmene in città e mi sono trovato in quella sorta di frullatore che è la massa amorfa della gente. È stata una faticaccia riuscire ad uscire dalla calca: mi hanno strappato il cappotto, la giacca ed ho perso pure la cartella. Per fortuna non conteneva nulla d’importante se non un libro e dei pacchetti di fazzoletti di carta.»
«Se sarai fortunato la ritroverai. Hai sete?» disse Mario
«Sì berrei un goccio d’acqua. Ma sarà difficile arrivare al bar.» disse Donnino
«Non è necessario, c’eri seduto sopra?»
«Sì? Non mi dire che quello è il tuo zaino.»
«Sì. Quello è il mio zaino.»
«Accidenti. Cosa vuol dire il caso. - commentò Donnino poi dopo qualche istante di silenzio aggiunse – credi nella casualità?»
«Credo nella causalità. – rispose Mario – Ovvero che ad ogni causa corrisponda un effetto e credo anche nella complessità.»
«Cioè?» chiese Donnino
«Credo che da una sola causa possano discendere molteplici effetti. E non necessariamente uno solo. Anzi, quasi mai se non addirittura mai uno solo.»
«Già, la teoria della complessità. – disse Donnino quasi più a sé stesso che in risposta al fratello poi aggiunse – Cosa fai nella vita?»
Mario si inchinò a raccogliere lo zaino, lo aprì e ne tirò fuori una borraccia, ne svitò il tappo e la offrì al fratello. Donnino ne trasse due sorsi. Lasciò che l’acqua invadesse tutto il suo palato e ce la lasciò stazionare per una manciata di secondi poi deglutì e rese la borraccia. Anche Mario bevve qualche sorso poi rispose: «Faccio il medico. – e dopo una pausa aggiunse - In Mongolia.»
«In Mongolia?»
«Sì, in Mongolia. Ci sono andato con una spedizione scientifica. Poi è successo che il posto mi sia piaciuto e che la gente mi sia piaciuta anche di più e così quando gli altri stavano per tornare gli ho detto che io mi fermavo lì.»
«Da quanto tempo … Mario?» chiese Donnino
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«Più o meno vent’anni» rispose Mario
«Già, vent’anni – ripete Donnino – Sono vent’anni che non ci vediamo e non ci parliamo. E siamo fratelli.»
«Già.» commentò laconico Mario
«Ma come è successo?» chiese Donnino.
«Cosa?» domandò Mario
«Il fatto che noi si sia smesso di parlare e ci si sia persi … Io … io … io non me lo ricordo. – disse Donnino – So che da un certo punto in avanti, ma quando è stato non me lo ricordo, ti detestavo, ma non mi domandavo il perché. Ti detestavo e basta. Forse non me ne domandavo la ragione perché sapevo di essermela scordata … vent’anni… più di vent’anni.»
«Non lo so – rispose Mario – neanche io me lo ricordo più. E non me lo ricordo più da tanti, tanti anni. Quando Oyunbileg, mia moglie, mi chiese di te e della nostra famiglia. Ricordo che le risposi di odiarti e lei mi chiese perché. Io non seppi risponderle e mi misi a piangere. E lei mi disse che era strano che si odiasse qualcuno senza saperne il perché e che poi si piangesse per il ‘non sapere’. Poiché sarebbe più logico piangere il motivo dell’odio piuttosto che la sua assenza.»
«Che moglie saggia hai. Sei fortunato.» commentò Donnino
«Sì, è veramente saggia. Il suo nome Oyunbileg significa ‘dono di saggezza’.»
«Hai figli?»
«Sì, cinque. La più grande è Delger poi sono venuti i gemelli Ariun e Bayan, sono maschi quindi l’adorabile Munkhiargal e infine il piccolino Tolui. – poi dopo qualche attimo aggiunse – Dai sediamoci e mangiamo qualcosa»
Stesero il cappotto di Donnino come fosse un tappeto mongolo e si sedettero uno con le spalle al pilone e l’altro alla vetrata. Mario mise lo zaino al centro ne tirò fuori delle strisce di carne secca e formaggio secco che chiamò Arul e chiese a Donnino con che cosa volesse cominciare.
Donnino indicò senza neppure rendersene conto una striscia di carene. Come l’ebbe in mano la portò alla bocca e ne staccò un pezzo con un morso e cominciò a masticare. E mentre masticava pensava. E pensava alla sua vita a quella che aveva avuta e a quella che non aveva avuta. Ed era alla ricerca di quell’antico odio che non trovava più. E pensava al senso della famiglia e pensava che si era smembrata e che si era persa e che nessuno se ne ricordava più. E vedeva la fotografia di quando erano alle giostre e lui che teneva le redini e Mario che rideva e mostrava i suoi dentini. E vedeva quando nuotavano nel mare e dall’acqua spuntavano solo le loro teste. E ridevano. E sembravano felici. E pensava che era riuscito a dimenticare e pensava che aveva sepolto tutto e ora tutto stava risorgendo e gli passava davanti agli occhi come un film e doveva vederlo tutto quel film e non c’era modo di fermarlo. Quel film. Quel film.
(la terza ed ultima puntata sarà pubblicata domani 12 settembre)

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