La questione
FIAT in poche righe. Tutto ciò che va bene per la FIAT va bene anche per l’Italia.
La querelle vinta con l’Agenzia delle Entrate. Il favoloso dividendo.
Arroganza, minacce e ricatti. Dover far conto su Calenda Carlo e Orlando Andrea.
Narra
la vulgata torinese che uno dei tanti Giovanni Agnelli che hanno popolato la
FIAT ebbe un giorno a dire: « Tutto ciò che va bene per la FIAT va bene anche
per l’Italia». Pare crederlo anche un altro Giovanni, pure se all’anagrafe fa
Johnny, e di cognome fa Elkan e non Agnelli,. A parte l’arroganza che è rimasta
la stessa di sempre, il simil calembour non
era vero allora e non è vero neanche oggi. Anzi a ben vedere la FIAT e i suoi
proprietari hanno avuto dall’italico Stato molto più di quanto questo non abbia
ricevuto. Ne fa fede l’ultima querelle
sulla valutazione dell’acquisto di Chrysler: il fisco chiedeva 2,1 miliardi e
si accontenterà di incassare 730milioni. Neanche la metà. Che poi è tutto da
vedere a che condizioni. Ma tant’è. Praticamente
quel che succede ad ogni comune contribuente preso di mira dall’Agenzia delle
Entrate. E la storia dei vantaggi è ben lunga e parte da lontano: dallo
spopolamento della forza lavoro del sud al contingentamento del solo il 30% fino
agli anni ottanta, delle auto estere nel mercato italiano, e questo per citarne
unicamente due. Adesso FIAT, che ha cambiato nome in FCA, chiede un prestito
per 6,3miliardi, mentre si dà un dividendo di 5,5 miliardi, e già che c’è
chiede allo Stato di fare da garante. In altre parole se a qualcuno in FCA
stati balzasse l’uzzolo di non restituire il prestito interverrà lo Stato, cioè
noi, i cittadini. E tutto ciò dopo aver trasportato la sede legale a Londra e
quella fiscale in Olanda, che la cautela e il risparmio sono sempre ben
presenti nella testa dei padroni. A
supporto della richiesta l’Elkan pensiero recita, prosaicamente, in siffatto modo: “se
avremo in prestito i 6,3milardi faremo finalmente l’investimento per 5miliardi
che avevamo promesso in illo tempore”.
Si parte con la blandizia cui si fa seguire il minaccioso bastone:
“altrimenti licenziamo, chiudiamo,
delocalizziamo” e via con il solito armamentario. Sul primo punto c’è da
domandarsi: se l’investimento è di 5 miliardi che se ne fanno del miliardo e
trecento milioni in esubero? Nel secondo caso sarebbe tanto bello vedere la
faccia dell’Elhan se qualcuno rispondesse, al ricatto semplicemente, con una
sola parola: “fallo!” e si andasse a vedere il bluff. Perché quelle belle
minacce non son così facili da mettersi in pratica. E soprattutto non sono
gratis. Alla fine il regalo garanzia è stato fatto. Ancora una volta s’è
giocato sulla dictomia legalità-giustizia. E, al solito, vince la legalità.
Siamo in uno stato di diritto d’altra parte, ma c’è comunque da chiedersi come
mai le due parti non si sovrappongano neanche per sbaglio. Ha vinto l’Elkan nonostante le tesi di
Calenda Carlo e la richiesta dell’Orlando Andrea di far tornare la sede legale
e fiscale in Italia. Che dover citare questi due come esempio una punta di gastrite
la fa venire. Ma non c’è di meglio.
Buona
settimana e buona fortuna.
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