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giovedì 25 marzo 2010

Ma chi era Ikarus? La vera storia dell'idolo di D'Alema

Massimo D'Alema, come tutti, battezza le sue barche. si chiama antropomorfismo. Spesso i nomi propri dati alle cose o agli animali disvelano caratteristiche della personalità del proprietario.



Quando un uomo (o una donna, per pari opportunità) ama in modo particolare un animale od anche una cosa gli attribuisce caratteristiche e qualità umane. Questa attitudine si definisce antropomorfismo, parola che, neanche a dirlo deriva dal greco. Anzi da ben due parole greche: άνθρωπος (anthrōpos), "umano", e μορφή (morphē), "forma".

Chi ha “forma umana”- ça va sans dire - deve avere anche un nome, che lo faccia ancora più umano.       Di solito questo nome è ben rappresentativo del carattere e delle intenzioni di chi lo ha imposto. Ecco perché il cavallo di Tex Willer si chiama Dinamite mentre quello di Don Chisciotte si chiama Ronzinante, la spada di Re Artù si chiama Excalibur, che in celtico significa acciaio lucente o acciaio indistruttibile, il cane di Ulisse si chiama Argo, che significa veloce (da notare il fine accostamento). Così come al più grande, veloce e lussuoso transatlantico del mondo, anno 1912, fu assegnato il nome di Titanic. Nome perfetto. Anche se oggi difficilmente si può trovare un armatore disposto a battezzare il suo naviglio, foss’anche un gozzo con quel nome. E poi c’è chi ha chiamato Ikarus la sua “barca”. Che non è proprio quel che si definisce un gozzo.

Già, ma chi era Ikarus?                                                                                                                              
Era il figlio di un architetto ateniese, tale Dedalo che inventò e disegnò il labirinto nel quale Minosse, mitico re di Creta, fece rinchiudere il Minotauro e già che c’era anche il suo architetto preferito con tanto di figlio. Dedalo, che era un geniaccio del bricolage, riuscì a fuggire costruendo per sé e Icaro due belle paia d’ali le cui piume erano tra loro saldate con della cera. Naturalmente la raccomandazione di babbo Dedalo al figliolo fu di  star lontano dal sole, perché si sa che la cera col calore si scioglie. Icaro, che se fosse stato figlio di un padano, sarebbe stato definito “un trota”, al sole si avvicinò. Anche troppo. Evidentemente il fatuo (e perverso) desiderio di essere accarezzato anche se per pochi secondi da quel calore lo eccitava. Ma il brillante risultato di tanta eccitazione fu la caduta. Icaro precipitò in mare ed andò a fondo.

Ora la domanda è: perché ci si ostina a chiamare, per ben due volte, la propria barca  con questo nome da “trota”? Evidentemente perché si ha il recondito desiderio di solcare il fondo. Ma allora bisognava chiamarla Nautilus. Più appropriato. Questo l’aveva capito anni fa nonno Nanni – detto il moretto - quando disse “con questi non andremo da nessuna parte”. E aveva ragione.



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