Ciò che possiamo licenziare

lunedì 22 marzo 2010

dove Fredo scopre il senso del dolore


“Come ti senti Fredo?” chiede Ananke.
Lei è in piedi, da qualche minuto, sulla soglia dello studio e lo sta osservando. Prima di rivolgergli la domanda ha percorso con lo sguardo, più volte, tutta la stanza, in ogni suo angolo. I suoi occhi verdi prima si sono posati su Fredo, poi hanno accarezzato le stampe dei ronin, quindi ispezionato per intero il tappeto turco che copre buona parte del pavimento, è una “preghiera che acquistarono a Konya molti anni prima. Quindi una veloce perlustrazione sulla scrivania che si presenta in un disordine non abituale e quindi sono tornati su Fredo. Lui è calato nella bergère rococò di pelle marrone che dà le spalle alla finestra. I due coprirotelle in ottone delle gambe anteriori della poltrona sono sfiorate da un raggio di sole che ne evidenzia la preziosità e infine, con tatto, rotola sul tappeto e ne fa più luminoso il rosso di fondo. Fredo ha il mento appoggiato sul petto. Gli occhi chiusi. Gli avambracci stesi sui braccioli e le mani che da questi penzolano morbide.
“Come ti senti Fredo” ripete delicatamente Ananke.
“Bene “ risponde Fredo senza muovere la testa di un millimetro
“Perché non mi guardi?” chiede Ananke
“Perché non posso” sussurra Fredo
“Sì che puoi” ribatte dolcemente Ananke e poi aggiunge con fermezza, “Se vuoi”
Fredo lentamente alza il volto verso Ananke. Le guance sono scavate, gli zigomi sporgenti, le labbra pallide, la fronte lucida, di sudore. Gli occhi celati dalle lenti scure degli occhiali da sole.
“Perchè quegli occhiali?” chiede Ananke
Fredo risponde scuotendo la testa. Una volta, due volte, tre volte.
“Su... dai... lo sai anche tu che non hanno senso. Sopratutto in casa”
Fredo è immobile. Anche le mani, solitamente così mobili ed espressive sono ferme. Come inchiodate all'altezza dei polsi, sulla punta arrotondata dei braccioli della poltrona.
“Ti prego, Fredo, togli quegli occhiali”
Le labbra di Fredo si tendono, prima quasi impercettibilmente poi con sempre maggior evidenza verso gli angoli della bocca. Quasi il segno di una fatica sofferta. Contemporaneamente l'avambraccio sinistro si scolla dalla bracciolo, si piega di novanta gradi e sale. Quando la mano è all'altezza della tempia l'indice ed il pollice si stringono a pinzetta nel punto di congiunzione tra la stanghetta e il cerchietto di acetato di
cellulosa che contiene la lente. Lentamente gli occhiali si staccano dalle tempie e si sfilano dal naso. La mano li porta all'altezza della cintura.
Gli occhi di Fredo sono chiusi.
“Apri gli occhi” ordina in un sussurro Ananke
Fredo ubbidisce.
Ananke abbassa e rialza le sue palpebre.
Dagli occhi di Fredo scivolano quieti e continui due rigagnoli. Superano gli zigomi, s'infossano nelle guance scavate e proseguono il loro fluire fino a scomparire, inghiottiti, sotto il collo della camicia.
Un brivido percorre tutta la figura di Ananke
“Come ti senti Fredo?” chiede con voce calma
“Sto male”
“Hai dolore?”
“Sì. Tanto”
“Ti dolgono gli occhi?”
“No”
“Ti duole da qualche altra parte? Dove?”
“No. Da nessuna parte.”
“Mi hai detto che provi dolore”
Fredo fa un cenno del capo a confermare che sì, prova dolore
“Allora dove?”
Fredo tace. La sua mano destra inizia a percorrere un cerchio che passa sul volto si alza a sfiorare la fronte, scende sul cuore, sfiora lo stomaco e si ferma, appoggiandosi delicatamente, sull'inguine.
“Cosa senti?”
“Un dolore forte. Che mi spacca”
“Come? Dove? Fredo, dimmi quello che senti”
“Non so spiegare Ananke.” Fredo volge lo sguardo verso di lei, la intravede, sfuocata, come se fosse lontana eppure la sente così vicina.
Così vicina come non mai.
Apre la bocca per dire, poi la richiude. Riprova, ma le parole non escono. Uno spasmo alla bocca dello stomaco. Poi un secondo. Sente che, pur da seduto, si sta piegando in due. Gli addominali sono tesi. Il busto, libero da comandi, si china in avanti fino ad avere la testa perpendicolare alle ginocchia mentre le braccia si incrociano sullo stomaco. Stringono. Stringono forte, a contenere tutto il freddo che si sta irradiando progressivamente dal centro verso l’esterno.
Quanto freddo. Quanto freddo.
Com’è duro il freddo specialmente quello che ti sta dentro, quando non vuole uscire. E non può uscire. E quello che è fuori ti stringe come in una morsa
Freddo dentro. Freddo fuori.
Fredo si sente come Sally Carrol, un'amica conosciuta tanti anni addietro, che si era persa in palazzo fatto di ghiaccio e come lei tende miseramente le braccia verso la parete. Un metro di spessore, avevano detto … un metro di spessore.
Ancora una contrazione. Poi solo l’evanescente scia di una sensazione che passa. E che, secondo dopo secondo, scema.
Ananke fa per muoversi verso Fredo, accenna ad un passo ma poi rimane sul posto.
“E’ difficile. E' difficile spiegare il dolore che provo.” dice Fredo “parte improvviso da un punto qualsiasi. Quasi mai lo stesso. E sono fitte, spasmi, contrazioni. Non capisco…non capisco. E non so spiegare. Nulla mi fa male veramente eppure il dolore che provo è tremendo. E’ difficile. E’ difficile”
Già.
Parlare del dolore non è facile. Anzi è decisamente difficile.
Parlare del dolore, descriverlo, farne partecipi gli altri è pericoloso. Si corrono rischi. Il dolore è difficile da spiegare. Il dolore è difficile da capire. Per chi non lo vive.
Con-dividere il dolore non è un fatto così semplice come dirlo.
Il rischio maggiore è di scivolare fuori dalla onorabilità della parola. Dal suo senso. Dai suoi significati intrinseci.
Il tema del dolore è delicato. E' complesso.
Il dolore ha confini sfumati, labili, per chi non lo patisce. Per chi lo vive, invece, questi sono definiti in modo inequivoco, sono confini secchi, sono confini precisi sono così profondi e cosi alti da essere totalizzanti.
Dolore è termine poliedrico, dalle mille sfaccettature, dalle molte interpretazioni, dalle molte comprensioni, dalle molte accettazioni, dalle molte incomprensioni, al punto da soffrire antinomie anche laceranti nel suo farsi senso.
Il dolore è concreto ma anche, astratto è biologico ma anche animico, è privato ma anche pubblico, è singolo ma anche di massa, è individuale ma anche sociale, è normale ma anche straordinario, è naturale ma anche fuori dalla norma delle cose. Fuori dalla natura.
Il dolore sta nella vita. Il dolore sta nella morte,
Morte, vita, felicità, infelicità: i quattro coinemi che formano la mappa strutturale dell’essere. I primi due dicono il quando, i secondi raccontano del come. E il dolore, nel suo sincretismo, se ne sta schiacciato tra i due come.
I due: come vivere la vita. Apparentemente perno, in realtà risultato del saldo dei due stati dell’essere.
Già nella scelta di queste due visioni, essere perno o essere saldo, si consuma,almeno in parte, il senso della parola.
Quando è perno la parola dolore viene spesso investita di sensi non suoi, più usata per spaventare e deviarne il senso, per confondere piuttosto che per spiegare. Spesso più confusa che compresa. Più barattata che spesa. Parola di struttura che va liberata da banali sciocchezze sovrastrutturali. Dalle retoriche delle mille strumentalizzazioni, di norma sostenute dalle mille superstizioni delle mille chiese.
“Partorirai i figlioli con dolore” si legge in slavate traduzioni del libro dei libri.
Ma non è così, l'esatta versione racconta d'altro: “Havà, concepirà, partorirà con sforzo, con fatica. Non avrà l'agilità, la facilità naturale delle altre creature femminili. Diventerà madre con maggior impegno”.
E maggior consapevolezza.
Perché Havà è diversa dalle femmine di tutti gli animali che partoriscono con banalità. Senza sforzo. Senza avere sul collo il fiato unto dell'ignoranza che strumentalizza.
La parola centrale del testo non è dolore è sforzo. Il dolore, se proprio ha da esserci, viene prima o dopo dello sforzo. E' snodo d'entrata in una situazione o, se accade dopo, ne è d'uscita. Comunque sempre quando sale sul palcoscenico quello del dolore è un ruolo di derivazione. Prima c'è sempre altro. Poi arriva, sopra-giunge, o scompare, il dolore. A saldo di due condizioni date da un prima e un poi.
Il fatto è che il dolore se ne sta acquattato dentro di ognuno e sonnecchia, sbadiglia, si annoia, inquilino moroso che si fa beffe del suo inconsapevole affittacamere e che, in qualche modo, soffre esso stesso della inattività a cui è costretto. E tutto questo fino al momento in cui una qualche contrarietà, magari anche piccola, lo prende per mano e lo porta sul palcoscenico della vita. E allora eccolo lì, il dolore, prendere tutto il proscenio e, da consumato attore, blandire gli spettatori specie, quelli più sdolcinati, e farli pietosi e addirittura compatenti.
Già. Com-patenti.
Patenti insieme, che patiscono insieme, se non fosse che di quest'ultima parola solo pochi conoscono il senso significato.
Il dolore, prima che altrove, sembra nascere nella testa.. Nell'astrazione del pensiero, piuttosto che nella concretezza del corpo. Anche se, quasi sempre, si tende a definirlo corporeo sopra ogni altra cosa.
Anzi, è, spesso, il pensiero dolente quello che decide di far calare, come levatoi abbandonati, tutte le difese perché anche la materialità del corpo prenda coscienza del senso concreto della parola. E non è il contrario perché: il trauma colpisce me ma non la cosa che io sono.
Il dolore si prova quando a essere colpito è quel che io veramente sono. E non solo l'involucro che mi contiene.
Trauma é quello che si prova urtando uno spigolo acuto o quando si sente lo scricchiolio sordo di un'articolare: un fatto provocato da cause esterne. Un fatto meccanico. Riparabile. Anche dall'esterno, come la crepa di un muro. Così superficiale nella sua apparente gravità che spesso é sufficiente un moto di spirito, ben posto, o la distrazione della mente per farlo cessare, dimenticare. Momentaneamente, dimenticare.
Il trauma parte da un punto qualsiasi del corpo e per terminazioni nervose arriva al cervello.
Il dolore invece nasce da un'idea nel cervello e da questo parte per approdare concretamente dovunque. La sua terminazione nervosa è lo sfogo d'uscita, ché non si può trattenere solo all'interno della concezione ideale e del fantastico.
Il vero io, dunque, è il facitore cosciente del dolore. E questo inizia la sua opera quando si sente perso ed impotente. Quando non trova più la forza per poter resistere alle pressioni che gli vengono dagli assedianti che lo circondano. Insetti di poco o punto valore che con le continue estenuanti richieste simili a micro punture sono capaci, come la goccia d'acqua, di sgretolare la pietra più dura. E se anziché pietra la sventura ha voluto che la corazza fosse fatta anche di sensibilità, di troppa sensibilità, non c'è scampo. E' il sapere con certezza che nella grande casa di ghiaccio si scivolerà perché sul fondo delle soprascarpe si è formata una pellicola di ghiaccio. E nel palazzo di ghiaccio non c'è appiglio: le pareti sono lisce e fredde e dure.
Il senso della complessità del sentire e, al tempo stesso, della parola sta tutta nell'angoscia dello scivolare e del timore del non noto.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in quel principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato
Prova pena e tormento: l'insicurezza e la fragilità percepita del sé danno spessore e senso al dolore. Le parole fondano nell'astrattezza la loro forza.
E' la consapevolezza della propria debolezza quella che colpisce allo stomaco e fa danzare le febbri e impazzire le cellule e perdere il controllo dei sensi.
E il dolore si trasforma in trauma. In malattia.
E la malattia spaventa i temporaneamente sani che fiutano gli umori del dolore e ne fuggono spaventati, abituati come si sono ad eliminare il senso della complessità e a temere l'apparente eccezionalità che sta fuori da una norma artefatta e costruita su misura del “tutto deve andare bene”.
Il dolore quindi come fatto eccezionale.
Non è accettato che sia avvenimento quotidiano continuativo.
La normalità dell’accadimento dolore rapportata alla norma del giorno dopo giorno rappresenta elemento di turbativa che viene esorcizzato con l’immediato clamore e poi con il suo tranquillo superamento che si esplicita nella giornaliera indifferenza e dimenticanza. Nell’oblio.
Come dire che si nasconde la polvere sotto il tappeto.
Ecco quindi che quando il dolore assume carattere sociale e di larga minoranza subito si corre ai ripari con l’invenzione della giornata del ricordo.
Quasi che il ricordo non debba essere normalmente quotidiano, e dunque incidente sulla vita e sui comportamenti di ogni giorno.
Giornata singolare che esce dalla norma e che immediatamente viene riassorbita, triturata e maciullata dal quieto, tranquillo flemmatico non ordinario.
Il dolore si fa senso in modo anfibio: drammatica ed inscindibile sinapsi che amalgama spirito e materia, astrazione e concretezza.
Sintesi che è intrinsecamente generatrice di ansietà.
E la motivazione ansiogena è data dall'incomprensione dell'origine, dalla circoscrivibilità al solo tattile.
E poiché la materia, il concreto, quel che si tocca è, apparentemente, di più facile comprensione ed individuazione ecco che l’attenzione, con superficialità, si catalizza verso la sfera del biologico in alternativa a quella dello spirito.
Con coscienza e determinazione si decide di confondere la parte per il tutto. Metonimia.
I cinque sensi prendono il sopravvento ed ecco che si qualifica come dolore ciò che si vede, ciò che si ode, ciò che si odora, ciò che si disgusta e ciò che si tocca.
Ed il resto, il non apparente, il non visto, per definizione non esiste.
Che invece è vivo più che mai e costantemente presente.
E per chi lo patisce individualmente si apre uno scenario caleidoscopico fatto di continui cambi di disegno e prospettiva. E dunque basta girare la ghiera e ad ogni clack una nuova visione.
E’ il dolore della coscienza del ricordo: di ciò che si era e non si sarà mai più.
E’ il dolore della coscienza dell’impotenza: del volere e del non potere.
E’ il dolore della coscienza della speranza: che giorno dopo giorno ti ruba il tempo che non si potrà recuperare.
E’ il dolore della coscienza dell’illusione: quello che avviluppa quando eccezionalmente e per poco tempo si è sotto gli invadenti riflettori dell'apparente interesse degli altri.
E’ il dolore della coscienza del disinganno: perché sono tutti veramente ma veramente molto dispiaciuti…. ma non gliene importa assolutamente nulla.
“Dimmi Fredo, come ti senti” richiede Ananke.

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