Ciò che possiamo licenziare

sabato 24 dicembre 2016

I pacchi sotto l’albero di Natale

Il bello del Natale è che sotto l'albero ci mettono sempre molti pacchi, piccoli, grandi medi. E anche sotto l'albero dell'Italia ce ne sono. Visto che non è ancora il momento un po' da birbe ne spacchettiamo solo quattro: emblematici. Anche se poi di così se ne sono già visti. L'augurio è che non se ne vedranno più. 

Quattro bei pacchi di Natale: Alessandra Moretti, Robero Formigoni, Virginia Raggi, la Salerno Reggio Calabria
Le tradizioni sono immarcescibili e così anche quest’anno per  la fanciullina Italia è stato allestito il solito bel albero di Natale e soprattutto sotto quelle belle fronde sono arrivati tanti, tanti pacchi. Come ogni anno. Oddio non che i pacchi alla fanciullina Italia vengano recapitati solo il 24 dicembre, gliene arrivano durante tutto l’hanno ma nel periodo natalizio un po’ di più. La maledizione della tradizione.
Tanta dovizia è imbarazzante e magari, pensando al resto del mondo si vorrebbe un po’ più di perequazione che, in fondo, non è bello fare la parte dell’egoista. Il fatto è che i pacchi la fanciulla Italia li attira come neanche il miele riesce con le api. Però sono tutti dei pacchi sfiziosi e originali.
Senza volere aprirli tutti in questa vigilia qualcuno lo si può pure spacchettare tanto entro breve ne arriveranno altri.

Un pacco che si auto-sballotta: Alessandra Moretti.
Una vita spericolata che la porta dall’associazione studentesca al centro-sinistra poi contro il centro-sinistra e di nuovo con il centro-sinistra: entra in comune, a Vicenza come vicesindaco.. Ma sa sballottarsi a dovere e quindi direzione nazionale Pd e portavoce di Bersani contro Renzi: entra in Parlamento. Qui nuova capriola: folgorata da Renzi, esce dal parlamento italico per sistemarsi in quello europeo. Ma anche qui sta poco il nuovo approdo è la Regione Veneto: capogruppo del Pd. E già questo è un bel pacco, ma non basta. Succede che il giorno della discussione del bilancio abbia un calo degli zuccheri e si ammali, c’è poco movimento in Regione, e allora per guarire, al posto della solita aspirina una bella terapia d’urto: un volo verso l’India dove la aspetta un matrimonio e la guarigione è dietro l’angolo. Anzi guarisce in volo: miracolo. Che se fosse sempre così Alitalia guarirebbe da sola. Comunque con sprezzo della banalità posta una foto su Instagram: si dimette da capogruppo per proteggere il gruppo, dice. Ma non è stato il gruppo a scavallare la seduta di bilancio.

Un pacco autolesionista: Virginia Raggi
Che sarebbe diventata sindaco di Roma lo si sapeva da mesi, come dire che c’era tutto il tempo di prepararsi, vagliare la squadra e scegliere, cum grano salis, assessori e collaboratori. E nella peggiore delle ipotesi c’era anche il tempo per il classico “mercato delle vacche”. Ma così sarebbe stato tutto facile e allora giù minchionate a “go-go”. A furia di voler essere diversi dagli altri si finisce che si è proprio come gli altri, quelli più tarlucchi. Un assessore in quella giunta non fa in tempo a sedersi che già se ne deve andare. E se rimane un po’ di più gli arriva un bel avviso di garanzia. A questo punto al sindaco Raggi (e anche al Movimento5Stelle)  non resta che pigiare il bottone dell’autoespulsione e lasciare il cerino in mano ad altri: meglio temprarsi a lungo con l’opposizione piuttosto che provare a gestire l’ingestibile. A meno di essersi preparati a dovere.

Un pacco vacanziero: Roberto Formigoni
Il Formiga o il Celeste, come lo chiamavano ai tempi del massimo fulgore, non è mai stato ballerino come la Moretti e neppure impreparato come la Raggi. Sempre fermo con Comunione e Liberazione. Forza Italia e Ncd per lui sono solo schermate. Il Formiga è ferratissimo in ogni scienza, specie quella sanitaria. Unico punto debole la memoria non sa mai dove lascia l’agenda e senza quella perde le tracce e non ricorda dove ha passato le vacanze e su quale yacht. Così come dimentica di possedere ville ed appartamenti e qualche soldarello qua e là. A queste lacune hanno cercato di porre rimedio i giudici del tribunale di Milano: l’hanno condannato a sei anni di reclusione e sei anni di interdizione dai pubblici uffici. La motivazione:  «Sottraeva soldi alla sanità pubblica, che sarebbero serviti a curare i cittadini milanesi, per fare la bella vita tra ville in Sardegna e vacanze in barca.» Per adesso è ancora a piede libero e continua a presiedere la Commissione Agricoltura del Senato. Anche qui ci deve essere un nesso esoterico tra sanità-barche-ville-in-Sardegna-e-agricoltura. Come non vederlo.

Un pacco che ha cinquanta anni: la Salerno Reggio Calabria
E così Renzi Matteo è venuto, ha visto, ha promesso e ha sistemato. Ma non ha inaugurato. Ci ha pensato il suo vecchio amico Graziano Delrio. Da oggi l’autostrada è stata nomata A2 e come soprammercato si fregia pure del titolo di autostrada del Mediterraneo. Dopo oltre cinquant’anni dall’inizio l’infelice strada ha finalmente un punto di arrivo. E adesso tutti, o quasi, sono contenti. Il fatto è che tra l’inizio e la fine  stanno ben inquattate tutte le magagne: guardrail vecchi di cinquant’anni, buche nell’asfalto e rappezzi. Naturalmente non mancano i cambidi carreggiata mentre invece è assente la corsia di emergenza. Per non farsi mancar nulla c’è pure il trucco: tre lotti sono stati esclusi. Sono diventati ordinaria manutenzione. Se si tolgono pezzi il puzzle si termina prima ma ovviamente non è finito.

Sotto l’albero di natale ci sono ancora molti pacchi da spacchettare ed altri ne stanno arrivando e dunque non c’è da preoccuparsi è storia di sempre.

lunedì 19 dicembre 2016

Roberto Giachetti e la sineddoche alla direzione del Pd.

Scandalo e turbolenze alla direzione nazionale del Pd ma non per la sconfitta referendaria. E neanche per altre simili bagatelle. Giachetti Roberto cerca un francesismo e si imbatte nella parte anatomica che congiunge la schiena alle gambe. Sussulti e turbamenti. Maria Elena Boschi non è svenuta: non conosceva il termine.

on.Roberto Giachetti, 4 legislature, ex radicale-verde-marghrita

Grande scandalo domenica 18 dicembre alla direzione nazionale del Pd. Si sono registrati svenimenti, ululati (da parte della minoranza), sbertucciamenti (da parte della maggioranza) e anche un richiamo dal tavolo della presidenza. Nonché mani tra i capelli del capo dei capi, Renzi Matteo, uomo morigerato che della aurea mediocritas ha fatto il suo habitus. Quando si manifestano situazioni a dir poco scandalose è normale che queste siano le reazioni della platea.

Platea affollata quella della direzione piddina composta da oltre mille delegati che partecipano al rito con in petto il sacro fuoco della passione per il radioso futuro. Dunque scandalo. Ma perché? Forse perché il capo ha perso la battaglia che lui stesso aveva definito madre di tutte le battaglie? No, Forse perché lo capo stesso non ha mantenuto la parola di monacarsi dopo la sconfitta? No. Forse perché lo medesimo capo ha pervicacemente tentato di ribaltare le logiche della matematica nel dimostrare che è meglio avere il 40% invece del 60% andato agli altri? No. Forse che ha preso la parola tal De Luca Vincenzo che è stato tra primi a dileggiare il capo sconfitto? No. Nulla di tutto ciò.

Colpevole dello scandalo fu Giachetti Roberto, renziano della primissima ora, ex aspirante, anche se riluttante, alla poltrona di sindaco di Roma. Con il suo intervento il Giachetti Roberto intendeva stigmatizzare la posizione assunta da altro Roberto che di patronimico fa Speranza. Da notare la non voluta parziale omonimia. Al dunque il Giachetti Roberto preso posto sul palco ha taciuto per qualche istante, attirando l’attenzione del popolo tutto,  chiaramente si intendeva che la sua fervida mente era alla ricerca di una figura retorica, magari anche un francesismo, che gli consentisse di colpire (verbalmente s’intende) lo Speranza Roberto. 

Il caso o forse l’appassionata e profonda cultura dantesca che lo contraddistingue l’ha portato invece a citare quella parte anatomica che congiunge le gambe alla schiena. Già il sommo Alighieri ne fece uso, nel’ottavo cerchio, quinta bolgia, quella dei barattieri ovvero coloro che si sono macchiati di “astuzia truffaldina”, cosa vuol dire il caso, laddove dicendo del dimonio Barbariccia scrisse  «ed elli avea del cul fatto trombetta» E così, forse anche in omaggio al capo che è di Firenze, pure se del contado, se ne è uscito con: «Roberto (nel senso di Speranza) hai la faccia come il culo.»  

All’udire il vergognoso termite molti gentiluomini sono sobbalzati e altrettante gentildonne hanno avuto mancamenti, talune addirittura svenimenti. Non la sottosegretaria Maria Elena Boschi che ha ruotato gli occhioni in un moto interrogativo chiedendo spiegazione: pare non avesse mai udito simil vocabolo. Resa edotta ha guardato il capo ed avendone avuta autorizzazione è svenuta.

Il casus belli dell’aforisma giachettiano è stato il plauso manifestato dallo Speranza alle parole del capo quando questi ha proposto l’inopinato ripescaggio del metodo elettivo detto mattarellum. Metodo a favore del quale, nel 2013,  il Giachetti Roberto combatté ad oltranza utilizzando l’arma che lui, ex radicale ancorché convertito al renzianesimo, conosce meglio: il digiuno. Digiunò il Giachetti per ben due volte, la prima addirittura per 123 giorni, dopo aver presentato una mozione che i suoi stessi sodali piddini avevano sdegnosamente respinto di recupero di quel metodo elettorale. Guarda caso il capogruppo alla camera del Pd era proprio quello stesso Speranza Roberto che adesso si dice d’accordo con il ripescaggio. Certo questo cambio di verso dello Speranza un pochino irrita e sembra anche un tantinello strumentale e sa di presa in giro. Di qui la frase del Giachetti che è stata ripetuta al plurale: «avete la faccia come il culo.» Facendo intendere, forse involontariamente, ma magari qualcuno si augura di no, che l’aver citato lo Speranza era solo un esercizio di sineddoche. Laddove si cita la parte per il tutto.

Sì, in effetti, a guardarla in questo modo l’incipit di Giachetti, collegato alla bolgia nella quale i barattieri ovvero come detto i portatori di “astuzia truffaldina” sono infilati nella pece potrebbe non sembrare proprio così fuori luogo. Come dire non solo lo Speranza. E per dirla tutta anche il Giachetti Roberto, quattro volte deputato, ex radicale, ex verde, ex margherita e finalmente Pd,  sta nel tutto.

sabato 17 dicembre 2016

Valeria Fedeli e Annette Schavan due donne quasi uguali.

Entrambe hanno fatto strada in politica: un mondo maschilista oltre il lecito. Entrambe hanno ricoperto la carica di Ministro della Istruzione. Entrambe sono inciampate in un piccolo incidente, ma qui le similitudini cessano. I diversi comportamenti loro e di Merkel e di Gentiloni.

Senatrive Valeria Fedeli Ministro dell'Istruzione e Ricerca

Alcuni si domanderanno chi è Annette Schavan, se mai l’hanno sentita nominare e si sforzeranno di ripescare nella memoria un qualche suo piccolo ricordo. Molto probabilmente con scarse possibilità di riuscita. Ma a breve verrà fornito un aiutino. Mentre invece di Valeria Fedeli forse qualcuno si ricorda. Sarà per quella sgargiante tinta rossa con cui colora l’enorme massa di capelli che porta a spasso per l’emiciclo del senato,  nel quale è stata eletta per la prima volta nel 2013. E magari, ma questi saranno molto meno, per il fatto di essere viceesegretario, pure vicario essendo stata quella più votata per ricoprire la carica. Un centinaio e briscola di senatori l’hanno preferita a Gasparri Maurizio e Calderoli Roberto come dire che con cotanta concorrenza ha vinto a mani basse.
Queste due donne Fedeli e Schavan hanno molto in comune sotto taluni aspetti e quasi nulla sotto altri. In comune oltre ad essere donne che si sono fatta strada in un mondo maschilista più del giusto, c’è che hanno dedicato la loro vita alla politica. Annette Schavan già dall’età di venti anni, è nata nel 1955, si è impegnata nella attività politica di Neuss, comune natale e poi lemme lemme ha scalato tutti i gradini della gerarchia del suo partito CDU Baden-Wurtemberg (regione dove si allevano meravigliosi cavalli) fino ad essere considerata nella rosa dei papabili per la carica di presidente della Repubblica Federale Tedesca.  Nel frattempo è stata un paio di volte ministro, ma di questo si dirà in seguito. Valeria Fedeli, da Treviglio, qualche anno di più, è del 1949, ha esordito nel mondo del lavoro come maestra giardiniera, si chiamavano così una volta le maestre d’asilo, alle dipendenze del Comune di Milano. Ma con i bimbi ci è rimasta poco, è stata quasi subito folgorata dal sindacalismo. Prima come militante di base poi come distaccata alla segreteria provinciale della CGIL milanese per i lavoratori enti locali della sanità. Quindi allarga le sue competenze e si mette a rappresentare negli anni i lavoratori di pubblico-comunicazione-tessile. Che a leggerla così non si coglie immediatamente quale sia il filo rosso che leghi le tre categorie. Ma senz’altro ci sarà. Deinde per una decina d’anni a bagno maria come presidente del sindacato europeo sempre dei tessili. Infine dal purgatorio al paradiso: ecco arrivare, dopo una breve parentesi in Fedrconsumatori,la candidatura a capolista in Toscana, dove il Pd potrebbe far eleggere anche un gatto, per il Senato.  Di questo un po’ conosce le dinamiche essendo sposata con un ex senatore.
Oltro che colleghe le due Signore hanno entrambe hanno ricoperto la carica di ministro della Istruzione, la tedesca in virtù delle sue competenze mentre l’italiana, che in Senato fa parte della Commissione Difesa, per volere di chissà chi o come lei dice «Posso fare il Ministro anche senza laurea, hoo lavorato nel sindacato.» Che se bastasse questo ….
Entrambe, altra somiglianza, sono inciampate su un dettaglio. La Schavan, già laureata in Filosofia e Teologia, è stata accusata di aver copiato senza citarne la fonte una parte della sua tesi di dottorato (94 pagine su 325).  Mentre il contrattempo per la Fedeli è stato la scoperta che non è laureata come da lei affermato e pare anche che non abbia neppure affrontato l’esame di maturità. Mario Adinolfi dixit.
Dove invece le due Signore sono diverse è nel comportamento. Frau Schavan, dopo le ovvie verifiche da parte dell’Università di Düsseldorf, si è dimessa e Angela Merkel ha accettato le dimissioni. Non si può riporre la propria fiducia in chi non cita le fonti. Valeria Fedeli, invece ha dichiarato che l’essersi dichiarata laureata in Scienze Sociali è stata solo una «svista lessicale». Poi ha tolto la dizione dal suo sito web e infine non ha presentato copia del suo diploma di maturità. Che a farlo sarebbe stato semplice. Se il diploma fosse realmente esistente. Insomma un caso Oscar Giannino al femminile. In ogni caso il Presidente Paolo Gentiloni ritiene che si possa riporre fiducia in chi commette sviste lessicali.
A margine, ma solo come aneddoto, la senatrice Valeria Fedeli, ospite della trasmissione di Un Giorno da Pecora, ha dichiarato di non essere mai stata in un ristorante stellato perché «non me lo posso permettere» il che suona sgradevole. E anche un tantino ipocrita e bigotto per non dire da trinaricciuti conoscendo lo stipendio e il vitalizio di chi ha posato le terga negli scranni del Senato. Ma tant’è.

sabato 10 dicembre 2016

Gentiloni Paolo, Primo Ministro: la quiete dopo la tempesta.

Piace a tantissimi, in tutti i settori pure alla minoranza pd. Piace anche a Renzi, il che non depone a suo favore. Flemmatico, romano, battutistaa (quando è in forma) Per molti la risposta giusta dopo il (sedicente) ciclone Renzi. Non ha una corrente sua. L’ultimo errore perfetto di Renzi.

Paolo Gentiloni prossimo Primo Ministro

A questo punto della partita sembra proprio che Gentiloni Paolo, sessantadue anni, romano, sarà il sessantaquattresimo presidente del consiglio italico. Piace a tantissimi e in tutti i settori: anche alla minoranza del pd. Il che già di suo non è bello. La sua storia politica è tipica: parte dalla sinistra extraparlamentare per atterrare, come molti con la sua storia, nella Margherita, occulta neo democrazia cristiana, per poi trascinarsi nel Pd. Neanche fosse il partito del compromesso storico. O forse sì.

Flemmatico quanto basta, il Gentiloni Paolo, ha l’aria del pacioso e gli piace far la rivoluzione per interposta persona: in gioventù stava con Mario Capanna (per intenderci l’attuale proprietario di un’azienda agricola che si lamenta per i pochi vitalizzi che percepisce) poi con Francesco Rutelli (ex radicale convertito, come ti sbagli) e quindi si aggancia a Renzi Matteo, democristiano dentro. Un percorso da manuale.  Come sempre si apprezza quello che non si ha e quindi Il Gentiloni va in solluchero per il vitalismo di Renzi. Bello, forse, da vedere ma certo non da praticare: troppo stancante. Non gli manca il senso dell’umorismo, fu lui a definire Renzi come “il bambino che mangia i comunisti”. Si era già dimenticato della sua antica militanza nel Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, appunto. Ma d’altra parte con l’età è normale perdere un po’ di memoria.

Stare con Renzi qualche frutto l’ha dato, non foss’altro che essere la seconda scelta per il ruolo di ministro degli affari esteri, dopo la Federica Mogherini, di vent’anni più giovane e certo senza grandi meriti da poter vantare. Accipicchia. Probabilmente di lui il Renzi Matteo apprezza di non avere la smania di apparire, la flemma e soprattutto lo scarso o  quasi nullo peso politico. Dentro e fuori il partito. Quando si è candidato alla carica di sindaco di Roma è stato sonoramente battuto pur vantando una precedente esperienza come assessore della capitale. Alle primarie del suo partito è arrivato terzo su tre. Analogo risultato hanno ottenuto le sue proposte politiche parlamentari: fallita la sua riforma del sistema televisivo, fallita la riforma della Rai, fallita la proposta di registrazione dei siti internet. Ma la sua dote migliore, agli occhi di Renzi è di non avere  dalla sua non si dice una corrente di proprietà, ma neanche uno spiffero. Il candidato perfetto, per Renzi. L’ultimo errore perfetto di Renzi.

Il Gentiloni Paolo con quella sua aria da “capitato lì per caso” è considerato da tutti un innocuo e per questo riesce a pescare molte simpatie in quasi ogni schieramento e ad ogni livello. Probabilmente in molte stanze quando s’è fatto il suo nome si sarà pensato e magari detto «passata è la tempesta.» e qualcuno tra i più dotti avrà aggiunto «odo augelli far festa e la gallina, tornata in sulla via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno.» Appunto. la gallina tornata in sula via.

Cioè il ritorno calmo calmo, quieto quieto, del vecchio metodo democristo ma anche ex piciista alla Napolitano, che annacqua, ammorbidisce, un po’ tira e un po’ cede. E questa cosa agli assisi sugli scranni del Parlamento piace. Eccome. Chi meglio del flemmatico Gentiloni per imbrigliare e disfarsi del casinaro Renzi? Probabilmente fra i renziani di ultima e penultina generazione e magari anche di quasi prima, ad eccezione di quelli che sono per il ridotto in Val di Chiana, starando già preparando i bagagli per il nuovo trasloco. E dotare il tranquillo Gentiloni di una corrente, a sua insaputa. Naturalmente.

In molti hanno in mente il cardinale Giuliano della Rovere che si dava per malato e sul punto di schiattare all’inizio del Conclave per poi dimostrarsi in ottima salute e guerreggiante alla grande col nome di Giulio II. Però il della Rovere era ligure, gente ispida e dura. Sulla guerra con il Gentiloni non si corron rischi anche perché, curiale di famiglia e democristo di ritorno, preferirà alle spade le più placidi e micidiali tossine che dai morti non lasciano fuoriuscire sangue raggiungendo lo stesso risultato. Quindi non si ergerà come l’antico Giulio II ma quatto quatto farà la sua battaglia in proprio e magari senza apparire. Da democristiano, doroteo mannaro, non avrà neppure bisogno di bisbigliare il mefitico «Matteo stai sereno»

domenica 4 dicembre 2016

Referendum: domenica 4 dicembre ancora poche ore di silenzio.

Dopo duecentoquaranta giorni fa bene alla salute non sentire parlare i politici. Ci si dovrà sorbire le solite processioni dei votanti eccellenti, sempre sorridenti, mentre fanno cadere la scheda nell’urna. Ma saperli tacenti, anche per poche ore, sarà un sollievo. L’unico rammarico è che tanta grazia caschi in una giornata uggiosa. D’Alema fa sapere che la Madonna voterà NO.

Dopo otto mesi di sfiancante e noiosa campagna referendaria finalmente un week-end tranquillo il giusto. Sabato è ormai passato e il silenzio di quelli del palazzo è stato assai apprezzato quasi come una elargizione clientelare. Ancora poche ore di quasi pace: i telegiornali si concentreranno su episodi di cronaca nazionale e un occhio in più ai fatti internazionali. Avremo ancora l’Annunziata, con i suoi congiuntivi claudicanti si sperava di scamparla, ma d’altra parte non si può avere tutto. In compenso saremo  puntualmente informati, sebbene con alcune ore di ritardo,  sull’afflusso dei votanti. E ci verranno mostrati politici sorridenti  mentre infilano la scheda nell’urna. Che c’avranno poi da ridere non si sa né mai lo si saprà lo si può solo immaginare. Però il loro silenzio sarà accolto con gratitudine. Quasi infinita.

Gli uffici comunicazione e i consiglieri dei vari big avranno passato le ultime ore ad almanaccare se sia più conveniente recarsi al seggio di prima mattina, o a mezzogiorno. Andarci nel pomeriggio non fa audience come sa bene Sergio Mattarella che per il referendum sulle trivelle (quello per il quale il governo invitava democraticamente a non votare) s’è recato al seggio quasi quando stava per chiudere. Il comportamento presidenziale era barcamenante e fece passare l’anodina comunicazione che non mancava  al dovere di ogni cittadino epperò neppure dava l’esempio. Che se questo arriva a tempo scaduto non fa testo.  Al confronto i più navigati esperti di cerchiobottismo risultavano incalliti  decisionisti. Senz’altro quelli che volevano far fallire il referendum avranno apprezzato.

E dunque, cosa fa migliore impressione sull’elettorato? Conviene andarci di prima mattina per dimostrare che alzarsi presto dà la cifra del senso civico e di amore di patria? O andarci in tarda mattinata e puntare sulla nazionale pigrizia che porta gli italici  a votare nel pomeriggio e  quindi fruire dei telegiornali delle tredici? Dilemmi shakespeariani con non incrineranno i comuni  ritrovati piaceri della domenica.

Senz’altro per queste poche ore si scavalleranno le banalità che hanno ammorbato gli ultimi duecentoquaranta giorni. Quindi non si vedrà la solita prezzemolosa faccia del presidente del consiglio imperversare ovunque e pure ci sarà risparmiato che lui, beato, non è come gli altri anche se ha tra gli amici li stessi di sempre. Non si sentirà parlare di futuro e passato e neanche di progresso e conservazione concetti dai confini oramai sempre più labili, Non si dovranno neppure sorbire le tavanate galattiche di quelli che pur avendo in schifo la riforma la voteranno. Tutti saranno felici di essere graziati dalle solite scemenze su killer e scrofe. E anche quelle sulle accozzaglie avendo dimenticato che l’accozzaglia madre di tutte le accozzaglie si chiamava CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) e fece la sua bella parte per togliere l’italietta cialtrona dai guai. Molto apprezzato il fatto che, per una volta, non si sia levato il grido: dio lo vuole. Anche se D’Alema ha raccontato che la Madonna è per il no. E c’è da credergli viste le sue innumerevoli apparizioni alla povera donna.

Restano solo due rincrescimenti: il primo è che tanta grazia cada in una uggiosa giornata d’autunno. Sarebbe stato bello non sentire le solite bischerate facendosi baciare dal sole. Il secondo: che come tutte le felicità anche questa è a termine: alla chiusura dei seggi tutto ricomincerà come prima. Però quarantotto ore di pace sono state impagabili.

giovedì 1 dicembre 2016

Prodi: non mi piace, ma la voto.

«Non siamo una Repubblica delle banane» tuonò l’Agnelli Giovanni. Ne aveva viste tante ma gli sono mancate le ultime supercazzole sul referendum costituzionale. I fulgidi esempi di Prodi Romano, Cacciari Massimo, Serra Michele, Benigni Roberto e penultimo in ordine di tempo Barca Fabrizio.



E così anche il Prodi Romano dalla tranquilla e banale storia personale: ex professore universitario, ex boiardo di Stato, ex presidente IRI, ex ministro, ex commissario europeo, ex presidente del consiglio ex (forse) aspirante presidente della Repubblica (anche se su quest’ultima carica una speranziella magari ancora la coltiva. Dicono le male lingue.) ha raccontato all’agognante italico popolo e anche ai suoi amici di Bruxelles come voterà il prossimo 4 dicembre al referendum costituzionale. L’ha fatto dopo aver giurato e spergiurato, lui cattolico e democristiano dentro, che mai l’avrebbe detto neppure sotto tortura.  Della tortura non c’è stato bisogno, devono essere bastate due tazze di camomilla per eccitare tanto ardore.

Ha comunicato, il Prodi Romano, il suo voto futuro con parole chiare e nette che non lasciano scampo ad alcuna interpretazione: «Anche se le riforme proposte non hanno certo la profondità e la chiarezza necessarie, tuttavia per la mia storia personale e le possibili conseguenze sull'esterno, sento di dovere rendere pubblico il mio sì, nella speranza che questo giovi al rafforzamento della nostre regole democratiche soprattutto attraverso la riforma della legge elettorale». Dove le vere parole chiave stanno in quel «non» iniziale e «nella speranza». Il resto fuffa. Al solito tutto e il suo contrario. Se la riforma vincerà e sarà in futuro un fallimento quest’anima bella potrà giustificarsi sostenendo «L’avevo detto che non era profonda e io speravo.» Come dire che andando al ristorante si mangerà una pietanza avariata nella speranza che questo giovi al miglioramento delle abilità dello chef. Complimenti.

A onor del vero il Prodi Romano è solo l’ultimo in ordine di tempo a cimentarsi in questa supercazzola con scappellamento a destra. A chi dare la primogenitura sul referendario ossimoro vien difficile poiché in tanti si son cimentati a partire dal Benigni Roberto che riuscì a dire nello stesso discorso quanto fosse scritto male il nuovo testo e che la costituzione attuale «farebbero bene ad attuarla invece che cambiarla» per poi concludere che avrebbe votato a favore del cambiamento. Quasi negli stessi giorni anche il filosofo Cacciari Massimo si esprimeva: « Puttanata di riforma ma poi voterò sì» Quindi è stata la volta dell’amacante Serra Michele «Ora la sola idea che qualcosa accada è più convincete dell’idea che quella cosa possa essere sbagliata.» Ultimo, ma solo in ordine di tempo, Barca Fabrizio. Con un memorandum confuso il giusto, dove mischia sentimento e ragione, un elefante e un cavaliere, porta tanti e tali argomenti logici per votare NO che conclude dicendo che barrerà la scelta a favore della riforma. Manca ancora un giorno al silenzio di riflessione e dunque vive ancora la sentita speranza di veder spuntare qualcun altro fino a ieri nemico acerrimo della riforma dichiararsi a favore.

Chissà se l'Agnelli Giovanni, studi in giurisprudenza e poi seggio da senatore a vita, si sentirebbe ancora di pronunciare con l’aria di quello ferito nell’orgoglio: «Non siamo la Repubblica delle babane.» Lo disse in occasione di una delle tante critiche rivolte dalla stampa straniera a Berlusconi Silvio, fulgido esempio di eleganza e bon ton istituzionale. Fare cu-cù con la sua maestria è ancora atto inarrivabile pure se il giovin virgulto Renzi Matteo ci si sta velocemente avvicinando neanche avesse gli stivali delle sette leghe.

Non siamo la repubblica delle banane, pur tuttavia c'è sempre qualcuno che con impegno ed una pertinacia fuor dal comune cerca di far coincidere l’immagine dello stivale a quella di una banana. Ovviamente flambé.

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