Ciò che possiamo licenziare

mercoledì 26 ottobre 2016

Gorino: il delta del Po come il delta del Mekong.

Aveva ragione Giambattista Vico ci sono corsi e ricorsi storici. La guerra di Gorino ricorda per l’ambientazione e e le parti in commedia quella del Vietnam. Come allora hanno vinto i guerriglieri. Alle dodici migranti dodici, di cui una gravida, è stato assegnato il ruolo dell’Agente Orange.

I guerriglieri di Gorino vincono come i vietcong di Ho Chi Minh

Con il caso delle dodici migranti dodici in quel di Gorino, frazione di Goro, la storia si ripete. Corsi e ricorsi storici diceva Giambattista Vico e aveva pure ragione. Anche se qualche volta ci si stupisce. Chi l’avrebbe mai detto di trovare nell’area urbana (le province ormai non ci sono più) di Ferrara una riedizione dell’epopea Vietcong? Gli elementi ci sono tutti: il delta, il tasso di umidità che ti circonda da tutte le parti, dal cielo, dalla terra e anche dal mare e ti attacca la camicia sulla pelle, un popolo che difende la sua libertà, con tanto di capo definito “con le palle”, un esercito nemico e anche, ma questo solo metaforicamente scrivendo, il terribile Agente Orange che può distruggere la vita del paese. E come non bastasse la notizia che rimbalza sui telegiornali di mezzo mondo proprio come quando il grande e grosso generale William Westmoreland, da West Point, se la vedeva con il piccolo e minuto generale Vo Nguyen Giap che invece ha fatto gavetta nella giungla. Autore tra l'altro di un agile trattatello dal titolo “Guerra di popolo esercito di popolo”. Comunque, mentre ci si fa prendere dai gloriosi ricordi, vanno adeguatamente distribuite le parti in commedia.  O forse farsa da avanspettacolo.

Il delta fa la parte del delta. Certo quello del Mekong è un pochetto più largo e profondo, ma del resto nei ricorsi storici non è che si può avere proprio tutto tutto e in ogni caso c’è quello che serve: dell’umidità s’è già detto, poi ci sono le zanzare, l’acqua dolce che si mischia alla salmastra, la sabbia e la corrente prorompente. Non manca neanche il rischio di finire risucchiati in qualche gorgo. E quindi il macro-contesto c’è. Ovviamente non può mancare il popolo che si batte per la libertà e per il futuro, proprio e dei figli, che come noto sono piezz’e core. Con il popolo, va da sè ci vuole anche un capopopolo e anche questo c’è: Nicola Lodi detto Maomo, leghista. Lui fa la parte del generale Nguyen Giap. Manca solo un Ho Chi Minh, ideologo colto e raffinato, capace di padroneggiare diverse lingue e dalle robuste letture, ma non si può chiedere troppo a quelli della Lega. Comunque non manca il “sentiero di Ho Chi Minh” con le sue deviazioni in questa rappresentato da un  paio di strade provinciali. Adesso che non ci sono più le provincie sarà un problema definirle, ma questo è un altro discorso. Al posto delle micidiali trappole inventate dai Vietcong che infilzavano gli yankee come polli ci sono più prosaici pallet, più maneggevoli, meno pericolosi, e pure di riciclo perché nella vita di tutti i giorni i vietcong del Po li usano per ammonticchiarci le vongole. E da queste parti non si butta niente. Evvabbé. Questo dalla parte dei buoni. Poi ci sono i cattivi.

Il cattivo per eccellenza è naturalmente lo Stato che ha la pretesa di distribuire i migranti sul territorio ed è rappresentato da un colonnello dei carabinieri accompagnato da una manciata di militi. Con un po’ di fantasia, che al novello Giap-leghista non manca, questi sono lì a rappresentare la VII° Forza Anfibia della United States Navy nonché i marines della 9° Marine Expeditionery Brigade e, per non farsi mancare nulla, anche la 173° Brigata Aviotrasportata. Anche se nessuno dei militi aveva la bandana e neppure si è pucciato nel Po' con il garand sopra la testa. Peraltro in questo periodo c'è il rischio di una polmonite. Il tutto coordinato dal Prefetto Mario Morcone nella parte del generale William Westmoreland il comandante, delle forze Usa nel sud-est asiatico, ovviamente lo sconfitto. E anche al prefetto non è proprio andata bene. Anche lui come Westmoreland ha fatto marcia indietro e si è arreso a poco più di un centinaio di guerriglieri. L’unica differenza è che non ha dovuto buttare in mare degli elicotteri. Con quel che costano. 

La potenza ancora una volta è nulla senza il controllo del territorio e soprattutto quando c’è la créme di un popolo che si batte per una giusta causa come la libertà. Nel ruolo dell’Agente Orange sono, per  sineddoche, dodici donne dodici di cui una gravida, con il fondato sospetto che siano d’avanguardia di altri poi quantificati in otto adolescenti. Totale: venti migranti. Questo plotoncino mignon potrebbe infatti annichilire l’intera popolazione di Gorino, 590 residenti, e quella di Goro 3828 abitanti. Per non dire dell’intera area di Ferrara.

Ah, dimenticanza: cos’è l’Agente Orange? Era così chiamato il defoliante (in seguito scoperto cancerogeno) usato dagli yankee per scoprire il sentiero di Ho Chi Minh. E dunque meglio colpire i poveri guerriglieri. E questo dovrebbero fare le dodici migranti dodici di cui una gravida. Vero che la storia si ripete?

lunedì 24 ottobre 2016

Renzi distrugge Equitalia con un cacciavite.

Un cacciavite può essere più rivoluzionario di una falce e di un martello. Soprattutto perché non picchia non taglia ma solo svita. La doppia anima del cacciavite svita e avvita. Il cacciavite come transustanziaione del Gattopardo. La fenomenologia del cacciavite.


«Datemi un cacciavite e vi cambierò il mondo» hanno sentito gridare da Matteo Renzi in una recente uggiosa mattina d’autunno. E così come si conviene ad ogni one-man-show in neanche un battito di ciglia è stato accontentato. Poi però quando il giovin virgulto fiorentino, segretario del Pd e, come giusto, Presidente del consiglio, s’è trovato l’utensile tra le mani non sapeva che farsene. Un cacciavite, si sa, vita e svita, non rottama, non picchia come un martello e neanche taglia come una falce. E quindi? In quel momento si è in po’ pentito di aver esternato con così grande foga un pensiero tanto profondo. E quindi si stava domandando che farci con il cacciavite quando, come illuminato, ha capito che un cacciavite può essere un meraviglioso ed efficace strumento di comunicazione. Pure anche di disinformazione di massa. E di questa seconda il Renzi Matteo è maestro impareggiabile.

«Il cacciavite - s’è detto il giovin signore - è la transustanziazione della metafora di Tomasi di Lampedusa. Il cacciavite ha doppia e contraria funzione avvita e svita. Tomasi ci ha messo centinaia di pagine per spiegare la sua tesi ed io smollando quattro viti rendo concreto il concetto del cambiamento che nulla cambia. Quassi quasi mi faccio scrivere un trattatello sulla fenomenologia del cacciavite. »

Così senza por tempo in mezzo ha lanciato una delle sue “grida” che al confronto quelle spagnole riportate dal Manzoni sono acqua fresca. L’idea di tornare al diciassettesimo secolo peraltro gli piacerebbe assai e un po’ è portato a pensarlo per via dei bravacci che si trova intorno, e soprattutto dei tanti don Abbondio che se ne stanno assisi nei palazzi e che si incontrano ad ogni angolo di partito e di parlamento. Pardon si intendeva dire: di strada.

Comunque adesso che il cacciavite c’è non resta che trovare la targa da staccare e cosa di meglio, idea geniale, che smontare quella di Equitalia. Ente inviso ai più e dalla pessima immagine. Al dunque Equitalia non ci sarà più. Cancellata, distrutta, annichilita. Senz’altro iniziativa gradita, popolare ed applaudita anche perché Equitalia ha dimostrato nei fatti, assai prima che l’idea venisse a Rossella Orlandi, qual è il lato oscuro del fisco.  Come dire che la pratica arriva sempre prima della teoria: prassi-teoria-prassi..E l’ha,sempre fatto, Equitalia, mostrandosi inflessibile con i deboli e rimediando figure di palta con i forti. Si ha ancora negli occhi come ha pignorato macchinari a piccole aziende, televisiori a pensionati, auto a commessi viaggiatori e come, per contro, quanto non è riuscita a combinare con i concessionari di slot e con Google. Tanto per dirne solo due.

Comunque svitata la targa di Equitalia e gettatala sul carretto dei robivecchi non resta che inneggiare al cambiamento. Evviva, evviva. Però, al solito, c’è un però. Cioè a dire che qualcuno le tasse dei morosi dovrà pur andarle a riscuotere e poi il personale resta lo stesso, «senza soluzione di continuità di trattamento e carriera» ha prontamente sottolineato il Zanetti Enrico, vice ministro all’economia che 8000 dipendenti sono una bella lobby. E anche le sedi rimarranno le stesse, salvo ipotesi di speculazione o come nel caso (definito “strano” dal Corriere della Sera) dell’Asl Milano che prima vende l’immobile dove ha sede per due cocomeri ed un peperone  e poi ne diventa affittuario.
Comunque ciance a parte, stesse sedi, stesso personale, stessa mission aziendale e verosimilmente gli stessi mezzi coercitivi di incasso anche perché la riscossione delle tasse non è un pranzo di gala. E poiché i soldi è meglio prenderli dove è più facile rispetto a dove sono realmente sarà la solita storia di sempre: forte coi deboli e debole coi forti. Dunque cosa cambia?

Il punto vero è: chi scriverà il trattatello sulla fenomenologia del cacciavite? Ci vorrebbe qualcuno buono per tutte le stagioni e qui c’è solo l’imbarazzo della scelta.

giovedì 20 ottobre 2016

Schiaparelli sconvolto da Obama e Renzi si schianta su Marte.

Anche i computer hanno sentimenti come aveva previsto Stanley Kubrick. Se sono solleticati. I discorsi allo state dinner sono stati esilaranti. Quando Renzi ha detto che i pomodori di Michelle fanno schifo. Schiaparelli s’è divertito da matti. Pensava di pigiare il clacson ha schiacciato l’acceleratore.

Il fatto è ormai noto, la sonda Schiaparelli si è sfracellata sul suolo di Marte avendo spendo i motori qualche secondo prima ti ammartare. Ora tutti gli scienziati del progetto e anche quelli del resto del mondo si stanno domandando come ciò sia potuto accadere. Quale la causa scatenante. La risposta c’è: la coincidenza tra le operazioni di discesa e lo state dinner Obama-Renzi. I computer non sono solo qualche chilogrammo di lamiera, silicio, plastica e rame, i computer, specialmente quelli con intelligenza artificiale, hanno anche sentimenti. E a questi reagiscono.

Ben lo sapeva Stanley Kubrick che l’aveva già previsto nel 1968, pure se aveva posposto gli accadimenti al 2001: persino i computer hanno una sensibilità. Non a caso Hal, il computer protagonista di 2001 Odissea nello spazio, si è comportato come molti uomini e molte donne si sarebbero comportati al posto suo. Ha fatto un errore e per rimediare ne ha infilati altri uno peggio dell’altro. Come fanno molti uomini e molte donne. Da qui l’espressione s’è pezo il tacon del buso.  

I computer hanno affetti e passioni, sono soggetti (quasi) alle stesse malattie degli umani, si raffreddano e si surriscaldano, sentono il caldo e il freddo nelle stesse estati e inverni e allo stesso modo, se sono solleticati ridono, se sono avvelenati muoiono, se patiscono un torto si vendicano. La cattiveria che gli è insegnata la mettono in pratica e saranno duri ed eseguiranno meglio le istruzioni ricevute. Ecco, tutto questo i costruttori di computer, algoritmi e intelligenze artificiali non lo considerano.

Schiaparelli non poteva sfuggire alla regola, lassù, ha captato qualche notiziario, a tutti piace quando si va all’estero essere informati dei fatti di casa. Fino a che ha visto (aveva anche la tv) che tutto procedeva normalmente: guerre, massacri, annegamenti, truffe, promesse di abbassare le tasse, aumento dell’occupazione e poi aumento dei licenziamenti e altre paccottiglie, Schiaparelli è stato sereno. Nessuno va matto per gli imprevisti. Era sicuro che quando fosse  ritornato sulla terra l’avrebbe trovata tale e quale l’aveva lasciata. Non si è preoccupato neanche quando ha saputo che l’ultimo dinner state di Obama sarebbe stato con Renzi: in fondo ci sta che per l’ultima cena uno si voglia divertire.

I problemi sono cominciati quando Schiaparelli ha sentito l’endorsement di Obama per le riforme renziane, politically correct ha pensato, poi quando The Commander-in-Chief ha detto che se  vince il NO non ci sarà una nuova edizione del diluvio universale, a cominciato a sorridere e gli sono saltati un paio di circuiti. Il discorso del Presidente del Consiglio è stato tragicomico: prima ha sparato incredible e thank you a raffica poi ha detto a Michelle Obama che i suoi pomodori fanno schifo quindi ha invitato tutta la famiglia a Firenze per mangiare un tost in un’osteria. A questo punto l’euforia di Schiaparelli è salita a livelli di guardia, neanche avesse bevuto  tre Negroni a stomaco vuoto. Quando poi ha visto la foto di gruppo con Agnese Renzi ficcata a forza dentro un vestito che meritava senz’altro ben altro phisique du role, ha perso totalmente il controllo e in quei momenti di risate pazze, mentre si batteva, metaforicamente, le mani sulle ginocchia e sganasciandosi a più non posso, pensando di pigiare il clacson ha schiacciato il tasto dell’acceleratore. Disastro. Schiaparelli era a pochi secondi dall’arrivo e si è sfracellato al suolo. Tutta colpa del fatto che quando i computer sono solleticati ridono.

Forse per le prossime missioni spaziali l’unica precauzione sarà togliere il senso dell’umorismo dalle intelligenze artificiali per non farli ridere e deconcentrare. Pensare di rendere meno ridicoli gli umani è mission impossible.

venerdì 14 ottobre 2016

È morto Dario Fo: gufo, parruccone e amante della vecchia politica.

Al solito necrologi noiosi, pedanti e anche un po’pelosi. C’è chi partecipa con «profondo cordoglio» come se esistesse quello moderato o sufficiente o tiepido. Solo due voci fuori dal coro: Brunetta e Salvini.  Anche Renzi ha dichiarato ma senza tweet, riservato a Bob Dylan.  

Dario Fo: ringrazia e saluta
Ogni volta che un politico, artista, scienziato, sportivo passa a  miglior vita, come si usava dire una volta, Madama Retorica si rallegra,  si sfrega le mani e dà il meglio di sé nei necrologi e nei comunicati ufficiali. In quelli si scopre che l’estinto è considerato caro, talvolta addirittura carissimo, se non addirittura quasi santo, da una grande quantità di persone. Di alcune delle quali mai si sarebbe detto e neppure sospettato. Eppure così è.

Dario Fo non è sfuggito alla regola anche se in un paio si sono messi fuori dal coro. E quindi anche per lui melensi necrologi preconfezionati a base di «partecipa commosso al lutto», «si unisce commosso al dolore» oppure «partecipa con profondo cordoglio» - come se ci possano essere gradi cordoglio: moderato o sufficiente o tiepido - e «profondamente colpito» dato che il  solo colpito pare poco e non faccia fine. Che poi più colpito dalla morte del morto non c’è nessuno.

Matteo Renzi ovviamente non poteva sottrarsi alla massa dei doglianti, ma d’altra parte non capita tutti i giorni che muoia un premio Nobel italiano e ha dichiarato:« L’Italia perde uno dei grandi protagonisti del teatro, della cultura, della vita civile del nostro Paese. La sua satira, la ricerca il lavoro sulla scena, la sua poliedrica attività artistica restano l’eredità di un grande italiano nel mondo. Ai suoi familiari il cordoglio mio personale e del governo italiano» Gli deve essere venuto un crampo allo stomaco mentre diceva «protagonista della vita civile – e aggiungeva – la sua satira» Chissà se contemporaneamente il Renzi Matteo ha pensato a Dario Fo come al gufo, parruccone e vecchio che vuole tenere fermo il Paese. Un ossimoro. Tra il novantenne Fo e il quarantenne Renzi chi sia il nuovo e chi sia il vecchio vien facile da dire.

Dario Fo disse: «Alla fine dell’ultima guerra mondiale, nel giorno della Liberazione, ci fu una festa come questa. C’era tanta gente come voi, felici, pieni di gioia. Credevamo che si sarebbe rovesciato tutto, ma noi non ci siamo riusciti. Fatelo voi, per favore» Era il 19 febbraio 2016 e non stava parlando ai renziani.

Comunque il Presidente del Consiglio non avrà riflettuto neppure per un istante su quello che stava dichiarando. Cosa che gli succede assai spesso. E a riprova di quanto fosse distratto non ha riservato a Dario Fo  il tweet d’ordinanza che invece ha omaggiato Bob Dylan: «#Bob Dylan Nobel per la letteratura (come Fo ndr) la poesia vince sempre (come Fo ndr)» E poiché spesso, twittare è azione scollegata dal pensare neanche avrà immaginato che se Bob Dylan fosse in Italia starebbe dalla parte di Dario Fo. Sic transeat gloria mundi

Si diceva di due eccezioni di cui una ben chiara, data dal deputato Brunetta Renato che ha chiosato la notizia con:«Nessuna ipocrisia Dario Fo non mi era mai piaciuto l’ho sempre considerato un uomo violentemente di parte. Nei miei confronti si era espresso in maniera razzista facendo riferimento alla mia altezza.» Ha aggiunto anche «Quando muore una persona cordoglio» una scivolata questa quasi giustificabile dato che il Brunetta vive nella città dell’ipocrisia.
La seconda eccezione viene da Salvini Matteo:«Un bravo artista. Per lui io e i leghisti eravamo razzisti, egoisti ignoranti? Vabbé acqua passata. Non porto rancore, doppia preghiera» nasce la nuova figura del leghista-gesuita, nel senso che non dice quel che pensa per davvero. Mentre Maroni Roberto, il leghista più democristiano che ci sia, ha dichiarato: «Con la scomparsa di Fo si dice addio non solo ad una indiscutibile figura di spicco del panorama culturale internazionale, ma anche a un grande cultore e divulgatore delle lingue nazionali.» Che dire?  Maroni è sempre Maroni.

Un altro pezzo del ‘900, il secolo delle rivoluzioni mancate, se ne è andato e fra due giorni nessuno ne parlerà più. Ma magari alcune idee folli continueranno ad aleggiare nel cielo e chissà che qualcosa non cambi. Comunque grazie Dario. Gufo, parruccone e amante della vecchia politica.

lunedì 10 ottobre 2016

Ritorna il circo Barnum, adesso si chiama Pd

Oggi Phineas Taylor Barnum impallidirebbe nel vedere le capacità circensi della dirigenza Pd. Barnum aveva la donna cannone e il Pd esibisce “il bomba”, Barnum mostrava lo scheletro di Cristoforo Colombo e il Pd una serie di mummie che da decenni occupano posti senza costrutto alcuno e la cui unica abilità sta nel trasformismo. Se Mister Phineas Taylor Barnum assistesse ad una direzione del Pd si divertirebbe come un matto e ammetterebbe di avere ancora molto da imparare.

Quando nel 1872 Phineas Taylor Barnum fondò il suo circo, che modestamente battezzò The Greatest Show on Earth,(Il più grande spettacolo del mondo) a tutto pensava fuorché a mischiarsi con la politica. Mister Barnum voleva solo portare divertimento e stupore ai suoi contemporanei e soprattutto voleva che i suoi spettatori fossero tantissimi. Nel suo circo, composto da tre piste, quattro palcoscenici con oltre mille lavoranti, potevano entrare addirittura ventimila persone che venivano costantemente stupite da effetti speciali e fenomeni d’ogni tipo. Barnum fu in grado di presentare al suo pubblico la nutrice di Giorgio Washington che vantava addirittura 165 anni, il gigante di Cardiff e, nietepopodiomenoche, la sirena delle isole Figi.  E poi anche qualsiasi cosa la fantasia potesse immaginare. Arrivò addirittura a presentare sé stesso come il più grande mistificatore del suo tempo. Con il suo circo fu coniata la frase: «Venghino, venghino signori e signore, più gente entra e più bestie si vedono.» ma tutto questo è nulla rispetto alla storia della politica italiana.

Mister Phineas Taylor Barnum sarebbe impallidito e avrebbe considerata ben poca cosa la sua creatività se avesse potuto vedere quello che succedeva nel partito socialista italiano degli anni venti, secolo scorso, vero circo Barnum della politica. La definizione è di Antonio Gramsci da Ales. Nel Psi stava dentro di tutto, dagli anarcosindacalisti ai socialdemocratici riformisti (c’erano già allora) alla fazione comunista giusto per dirne tre,  che al confronto la donna cannone e lo scheletro di Cristoforo Colombo erano bazzecole. E la cosa sembrava essersi fermata lì, ma poiché Giambattista Vico docet, i corsi e i ricorsi storici sono sempre dietro l’angolo, ecco il Pd.

Già dalla nascita questo è il partito sarchiapone, non a caso frutto della fantasia di un politologo dalle camice improbabili, e dimostra nella sua dirigenza una confusione mentale che né Freud né Jung o Lacan mai avrebbero immaginato. A parte gli ex comunisti, alcuni dei quali hanno dichiarato dopo decenni di militanza di non essere mai stati tali ma solo kennediani (kennediani?)  ci stanno dentro, tutti quelli che non hanno trovato spazio e strapuntini altrove. Ci sono i fautori della doppia linea e gli utili idioti, l’abbinata di solito va di pari passo, gli aspiranti manager e gli aspiranti mezzi conti. Poi con il tempo sono arrivati i globetrotter dei partiti, che averne girati solo un paio fa poco chic e quelli che dichiarandosi minoranza sono solidi alleati della maggioranza. La situazione in sé ha del kafkiano e viene catalogata nella categoria ossimori ma qui è la norma, poiché come noto è la somma che fa il totale. E poi come si fa a resistere ad un ministero? Naturalmente non può  mancare la lotta generazionale: i giovani contro i vecchi anche se si scopre che molti di quelli che stanno dalla parte dei giovani sono lì da sempre e anzi hanno stati di servizio trentennali se non addirittura di più. E in questo tourbillon le posizioni si mischiano e si rimischiano: se prima si vota in favore per non danneggiare la ditta, quando mai un partito è stato una ditta? poi si vota contro per non si sa quale motivo. Se prima si sosteneva la separazione tra il ruolo di capo partito e premier adesso che si è entrambi la si difende a spada tratta. 

Si vuole  il cambiamento con un ardore e per ottenerlo van bene anche i vecchi arnesi delle gestioni precedenti. Sarà che questi sono in grado di raccattare i voti (magari taroccati) delle sezioni? Ci sono anche quelli che, nel nome del nuovo, sarebbe il riformismo, dicono:"non si può vincere un referendum senza i voti di quelli di destra" i quali per definizione, si dicono conservatori. E dunque ecco spuntare la categoria dei conservatori innovatori. Che di questa facciano parte ex vecchi democristiani e patetici filosofi decotti è solo un segno dei tempi. E allora giù blandizie anche per il vecchio capo della parte avversa scampato alla galera solo per una carineria. Il tutto, ovviamente, senza il benché minimo barlume di quello che in un tempo antico si chiamava “il disegno politico”. La visione del mondo.

Se Mister Phineas Taylor Barnum potesse assistere ad una direzione del Pd si divertirebbe come un matto e dovrebbe ammettere, nonostante tutto, di avere ancora molto da imparare e fare ammenda per essersi dichiarato “mistificatore”. C’è chi nel Pd gli potrebbe dare lezioni.

mercoledì 5 ottobre 2016

Quando lo Stato inganna sé stesso: i casi Cucchi e Previti

Sul caso Cucchi è stato detto e scritto di tutto e di più per arrivare alla conclusione che son tutti innocenti meno il povero Stefano. I casi di Tony Negri, Cesare Previti e altri come loro condannati in via definitiva se sono diversi nelle premesse sembrano uguali nelle conclusioni: lo Stato inganna sé stesso. Per non doversi dire anche per lo Stato che ognuno si inganna come crede.


Talvolta capita che per giustificare sé stesso qualcuno si autoinganni inventandosi di sana pianta delle scuse che non stanno né in cielo né in terra. Ovviamente nessun riferimento al Def del ministro Padoan, quando mai, avendo piena fiducia nelle previsioni degli economisti che hanno la stessa possibilità di avverarsi quanto il signor Papagnozzi Alfredo di vincere al superenalotto. E neppure il riferimento è ai proclami del giovane Presidente del Consiglio che assomigliano sempre di più alle grida spagnole di cui racconta il Manzoni: dove roboante suono era inversamente proporzionale alla loro efficacia. Piacerebbe a tutti sentire il Renzi Matteo dichiarare:«È finito il tempo delle patacche sesquipedali.» Ma evidentemente non è finito e allora dai con il ponte sullo stretto. Però tutto questo purtroppo ci stà quando si sta nell’ambito della sedicente politica.

Altro è quando si gira pagina e si entra nel settore della giustizia dove lo Stato è chiamato ad adempiere in prima persona al suo ruolo. I casi di Stefano Cucchi e degli ex onorevoli Tony Negri o Cesare Previti, giusto per dirne due, sono purtroppo lì a dimostrare come talvolta o magari anche spesso lo Stato, quello con la esse maiuscola, si comporti come il più miserrimo dei peracottari. E in giro per il Belpaese di peracottari ce ne sono tanti.

Sul caso Cucchi è stato detto e scritto di tutto e di più per arrivare alla conclusione che son tutti innocenti meno il povero Stefano. I medici non si sono accorti che era stato pestato, e quando lui ha rifiutato l’alimentazione ne hanno semplicemente preso atto. Dopo la prima condanna in primo grado per i medici e l’assoluzione per insufficienza di prove per infermieri e agenti di polizia penitenziaria seguono due processi d’appello il secondo dei quali manda tutti assolti perché il fatto non sussiste. Ora che il Cucchi fosse pieno di lividi e che la sua vescica contenesse oltre un litro di urina e fosse scheletrico ai giudici non disse nulla. Così come nulla per loro hanno significato una serie di testimonianze una addirittura oculare, ma purtroppo rese da detenuti. Come si fa a credere a degli avanzi di galera? Che poi ci sia anche la testimonianza della moglie di un carabiniere che pare si sia vantato del pestaggio è un’altra di quelle cose che sono entrate da un orecchio e subito uscite dall’altro. Anzi tutto questo fa venire il sospetto che il Cucchi abbia tramando contro le sacre istituzioni repubblicane così come sta facendo la sorella Ilaria che si ostina a volere un minimo, neanche tanta, di giustizia.  

Di qualche giorno fa è la notizia che i periti nominati dal GIP abbiano dichiarato che:«fu morte improvvisa ed inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale in trattamento con farmaci anti-epilettici» Ipotesi dotata «di maggior forza ed attendibilità» Avrebbero dovuto aggiungere anche «rarità». Chissà se lo Stato vorrà ancora mentire a sé stesso.

I casi di Tony Negri, Cesare Previti e altri come loro condannati in via definitiva se sono diversi nelle premesse sembra uguale nelle conclusioni: lo Stato inganna sé stesso. Nel maggio del 2015 Camera e Senato, supportati da circa 500.000 firme raccolte da Libera, approvarono la delibera di sospensione dai vitalizzi ai deputati condannati per mafia e schifezze varie con pene superiori ai due anni. Questo tutto sommato ci sta, anche se non si capisce il limite dei due anni. Dare dei soldi dello Stato a delinquenti (così si chiamano quelli che delinquono e sono condannati) sembra proprio da fessi. Ora dopo un bell’annetto si arriva a sospendere anche i due noti di cui sopra con gli altri meno famosi. Bello. Magari varrebbe la pena di farsi ridare, con gli interessi, quanto già versato visto che il reato è antecedente alla sua erogazione. Però c’è un però: dopo gli ottant’anni il casellario giudiziario si azzera e tutti ritornano immacolati. Sarà così anche per Reina? E dunque, se il casellario risulta pulito, è giusto che il sudato vitalizio ritorni sui conti correnti degli ex delinquenti, o no?

Che succede se un deputato, che dirlo onorevole vien il mal di stomaco, è condannato all’età di cinquanta anni quando, lunga vita, supera finalmente il traguardo degli ottanta? Risultando pulito riacquista il diritto? Se sì, questo è anche retroattivo? Magari per giustificare il fatto si farà ricorso a codici, codicilli ed eccezioni e al famoso stato di diritto. E qualcuno dirà che la legalità, purtroppo, non sempre è giustizia. E se invece si facesse che la giustizia, soprattutto quando palese, diventa legalità? Per non doversi dire anche per lo Stato che ognuno si inganna come crede.

domenica 2 ottobre 2016

Berlusconi, Renzi-Zagrebelsky e Napolitano.

Berlusconi ha raggiunto gli ottanta anni, come tanti altri italiani, e i giornalisti si sono esercitati in "coccodrilli". Uno solo interessante quello di Pierluigi Battista. Gli altri scontati o addirittura improbabili. Nella norma invece il dibattito tra Renzi e Zagrebelsky: uno sapeva di cosa stava parlando e l'altro elencava slogan. Magari Zagrebelsky avesse intonato "gaudeamus igitur". Napolitano vede in Renzi il nuovo Craxi e vuol fare il burattinaio.
Napolitano e Renzi ridono: che c'avranno mai da ridere?

Nel giro di pochi giorni il destino, che come noto è cinico e baro, per il comune divertimento ha graziosamente regalato alcune perle di rara bellezza che senz’altro non passeranno alla storia. L’ennesimo genetliaco di Berlusconi Silvio, che, come quello di tutti si festeggia ad ogni anno, l’ennesima edizione dello scontro Orazi-Curiazi che ha preso come pretesto il referendum sulla nuova proposta di costituzione ed ha visto duellare Renzi con Zagrebelsky e infine nientepopodimenoche l’ennesimo monito di Napolitano Giorgio nella sua parte di Presidente emerito.

Compleanno di Berlusconi Silvio.
Quello di quest’anno è stato l’ottantesimo, cosa che capita di frequente nell’era dell’allungamento della vita. La festa di pragmatica non ha avuto nulla a che fare con le classiche “cene eleganti” di antica memoria e si è risolta con una più normale e borghesuccia riunione di famiglia con figli e nipoti. Forse mancavano le mogli, ma non si può avere tutto. I giornalisti hanno approfittato dell’evento per esercitarsi in “coccodrilli”. Al solito tutto bene. I coccodrilli non fanno altro che dire bene di tutti anche se per trovare del positivo, per taluni, ci vuole del bello e del buono.  C’è stato chi come Scalfari Eugenio ha sfoderato un amarcord, pedante quanto basta. Poi c’è stato chi come Verderami s’è inventato la figura del visionario, che pensare il Berlusconi in quel ruolo fa venire i brividi. Per fortuna non lo è mai stato. Che paragonare Berlusconi ad Alvin Toffler o ad altri del ramo “immaginiamoci il futuro”ci vuole uno sforzo di fantasia che neanche la Casaleggio e Associati ha mai avuto. Poi c’è stato Pierlugi Battista: il migliore. Forse per una volta nella vita s’è calato nella parte del trasgressivo e ha fatto l’elenco del meglio di Berlusconi Silvio: dalla bandana, alle corna, ai cucù, al milione di posti di lavoro, all’abolizione dell’Ici, alle barzellette al bunga-bunga, alla colpa che è sempre degli altri, eccetra eccetra. Alla fine dell’articolo ci si domanda come uno così possa essere stato Presidente del Consiglio. Già, come è potuto accadere?

Renzi e Zagrebelsky
Approfittando dell’ospitalità di Mentana, Renzi e Zagrebelsky si sono incontrati per discutere della proposta di nuova costituzione. Tutto è andato come prevedibile: il costituzionalista parlava di contenuti, magari non proprio con i toni della campagna elettorale mentre il giovane Presidente del Consiglio dimostrava di non sapere di cosa stava parlando ma lo decorava con slogan, un po’ triti, da campagna elettorale. Insomma il solito. Peccato che il professor Zagrebelsky non si sia ricordato dei tempi della goliardia altrimenti avrebbe potuto intonare gaudeamus igitur iuvenes dum sumus  per sconcertare il suo interlocutore e se poi avesse chiosato: « È finito il tempo dei dilettanti allo sbaraglio» magari doppiato da un «chi difende la Costituzione lavora per il futuro e  chi la vuole cambiare è conservatore, parruccone e gufo.» Avrebbe fatto colpo. Il Renzi Matteo non avrebbe capito, così come non ha capito le serie obiezioni mosse alla proposta. Ma magari ci sarà una prossima volta.

Il Presidente emerito Napolitano esterna

Da che ha lasciato il Quirinale Giorgio Napolitano esterna in continuazione, sembra una riedizione in sedicesimo di Francesco Cossiga. Con la sola variante che il sassarese era uomo di spirito tanto da partecipare alla trasmissione “un giorno da pecora”. L’attuale Presidente emerito, l’unico che ci è rimasto dopo la recente scomparsa del senatore Carlo Azelio Ciampi, invece ha il senso dell’umorismo di un paracarro. Comunque è assai innamorato della sua voce e dunque non fa passare giorno senza un suo prezioso consiglio o ammonimento. Il ruolo che si è ritagliato è di essere l’istitutore del giovin signore Renzi Matteo. Lo istruisce, lo consiglia, lo incita e anche lo bacchetta. D’altra parte se non ci fossero errori e scivolate da parte del giovanotto non ci sarebbe bisogno del maestro. Qualche volta più che istitutore il Napolitano sembra un burattinaio. Ruolo che, si ha la sensazione, gli deve essere sempre piaciuto: l’idea di poter manovrare dietro le quinte fa parte dell’antica iconografia bolscevica anche se il nostro tutto è stato meno che un pericoloso bolscevico. Forse nel giovane Renzi rivede la copia di un nuovo Bettino Craxi, da istruire anziché da seguire, un po’ nascostamente, come fece con l’originale