Ciò che possiamo licenziare

martedì 20 settembre 2016

Da oggi finalmente avremo La Verità. Grazie a Maurizio Belpietro.

Per il 20 settembre ci bastava Porta Pia ma Belpietro ha voluto strafare. La prima volta de La Verità fu nel 1936 ad opera di Nicola Bombacci. Senz’altro sarà un caso. I principi di riferimento sono quelli del New York Times, con la speranza che là non lo sappiano. Si definisce indipendente, ma indipendente da chi?

maurizio Belpietro fondatore e direttore de La Verità
La data di oggi, 20 settembre, passerà alla storia. Qualcuno penserà che il 20 settembre nella storia c’è già da un pezzo e non solo. A questa meravigliosa data oltre che innumerevoli righe sui libri di storia delle medie e dei licei, prima del regno e poi della Repubblica, sono già state dedicate, vie, corsi, viali e pure piazze. Ma di queste ultime meno perché in concorrenza con Garibaldi che essendo biondo, barbuto nonché rosso camiciato e capace di montare a cavallo se ne è accaparrate di più: avere le phisique  soprattutto quand’è phisique du role ha la sua bella importanza e fa la differenza. 

Comunque, per tornare sul punto della data la breccia di Porta Pia e la conseguente unificazione dell’Italia da oggi in avanti sarà nulla al confronto dell’epocale evento: avere la verità. A dire che finalmente ci sarà la verità a portata di mano viene un po’ di panico. Ma come? la si sta cercando da millanta anni senza mai trovarla e adesso, con un battito di ciglia ce la si trova lì, a portata di mano. Ma come? la verità, la tanto agognata verità su cui si sono macerate le menti più eccelse dell’umanità e che nessun libro sapienziale è mai riuscito a disvelare adesso la si serve così, agli angoli delle strade e quasi a costo zero? Ebbene sì, da oggi la verità la si potrà avere spendendo un solo eurino e a quasi ogni angolo di strada, purché ci sia un edicola. Di questo ringrazieranno imperituramente le prossime generazioni l’autonominatosi dispensatore: un nome,una marca, una garanzia: Maurizio Belpietro. Proprio lui il canuto e mascelluto, per non dire prognatuto, ex direttore di Libero, de Il Giornale, di Panorama e del Tempo. Giusto per non perderne i riferimenti culturali e politici..

Ovviamente La Verità si definisce quotidiano indipendente. Indipendente da chi? Ma tant’è, il Belpietro Maurizio la sua indipendenza, quand’era al servizio di Berlusconi Silvio, l’ha dimostrata ad abundantiam . Oddio, qualche volta un po’ boccalone lo è stato, come quando si beveva tutte le panzane sulla nipote di Mubarak et similia, ma d’altra parte nessuno è perfetto. Ora pensa di rimediare dichiarando di avere come riferimento The New York Times. Si spera solo che i newyorkesi non lo vengano a sapere: non sarebbe bello sentire le loro risate che quelle della Merkel e Sarkozy al confronto parranno buoniste.

Bizzarro che come testata si sia scelta La Verità che non è propriamente di primo pelo e con qualche spiacevole ricordo sule spalle. L’invenzione di questa, nel 1936, fu opera di Nicola Bombacci già socialista massimalista romagnolo, poi esponente del Partito Comunista d’Italia per approdare nel Partito Fascista Repubblicano e finire a Dongo. Il Bombacci, un nome che è già di suo un programma, aveva come riferimento internazionale la Pravda che, per l’appunto vuol dire verità. Altro che il New York Times. Le origini quindi sono per così dire scarsamente indipendenti. Però, chissà, magari, un domani ci potranno essere evoluzioni e cambiamenti. A suo onore, la certezza di avere la verità in tasca il Belpietro Maurizio pare non avercela proprio tutta tutta se un po’ annacqua il tronfio titolo con un più dubbioso «Quid est veritas? » Già:« che cosa è la verità?» 

E così l’area di centro destra oltre ai già indipendenti il Giornale, Libero e il Foglio potrà contare anche su questa quarta gamba. Evidentemente da quelle parti si crede ciecamente nel marketing se si arriva a segmentare l’elettore di centro-destra in ben quattro aree. Quella coperta da Belpietro sarà senz’altro la più dura (viene difficile definirla anche  “pura”) e virulenta. Ora non resterà che attenderne la durata. Tutto dipenderà dalla capacità di attrarre lettori, anche se la storia insegna che i più sfegatati hanno poca dimestichezza con l’abecedario, e dalle disponibilità dei soci: per quanto tempo e per quanto ammontare avranno voglia di perdere il loro denaro. Comunque un nuovo quotidiano, saranno contenti quelli di Prima Pagina, non se ne sentiva la mancanza al contrario di quel che pensa il Belpietro Maurizio ma d’altra parte questo è un Paese che un sigaro e la direzione di un quotidiano non la nega a nessuno.

mercoledì 14 settembre 2016

Italicum: arriva il 7° cavalleggeri e ha la faccia dell’ambasciatore John Philips.

Brutta mossa quella di Renzi di chiamare in aiuto gli yankee, dimostra debolezza. Una lettura patafisica: l’ambasciatore John Philips nei panni del 7° cavalleggeri. Il 7° di solito arriva quando la situazione è disperata. E non sempre ce la fa. Se si vedrà apparire all’orizzonte anche la sesta flotta americana del Pacifico e mobilitarsi i paracadutisti della RAF sarà un bel segnale per il NO.

Renzi con John Philips il moderno 7° cavalleggeri US
Lo si deve ammettere con laicità e al di fuori di ogni disputa ideologica: Renzi Matteo è un grande. Il suo obbiettivo è di tenere gli italici allegri e divertiti e quando non ci riesce in diretta lo fa per interposta persona. Questa volta si è avvalso della collaborazione dell’ambasciatore Usa in Italia: John Philips. Una lettura patafisica del biglietto da visita del diplomatico dice che: di patronimico fa Philips come dire la lampadina della grande idea che si accende in testa ai geni e di nome fa John che riecheggia quello del mitico Ford, il regista maestro nell’arte di «arrivano i nostri».  Ed è proprio l’impressione da «arrivano i nostri», che diverte e intenerisce i cuori e fa andare indietro nel tempo negli anni ’50 e ‘60. Era da tanto che non la si vedeva. Le parole di John Philips riportano alla mente gli squilli della tromba del 7° cavalleggeri quando suonava la carica come in tanti vecchi cari film western

Come non ricordarli. Era la scena clou del finale: i buoni stanno soccombendo e giusto all’ultimo quando oramai li si dava per spacciati ecco gli squilli della tromba che suona in lontananza la carica e poi subito dopo sbucare da dietro la collina le giubbe plu, o se si vuole la versione indiana: i lunghi coltelli. E poi in quegli anni c’era anche  la tv dei ragazzi con la serie di Rintintin. Il protagonista, oltre al cane Rintintin, era il caporale Rusty, vaga rassomiglianza con il boyscout Renzi, entrambi paffutelli ed entrambi con la disperata voglia di cacciarsi in qualche guaio.  Solo che Rusty avendo letto il copione sapeva che sarebbe stato salvato. Renzi invece non sa proprio come andrà a finire. E questo fa divertiti gli italici.

Ecco, a uno yankee, puro wasp, come John Philips non sarà parso vero di correre in soccorso del piccolo caporale Renzi-Rusty. Attenzione però: gli yankee hanno amicizie mutevoli: prima si son detti amici di Berlusconi e poi di Montri e poi di Letta. Quindi meglio meditare. Che poi a stretto giro sia entrata in scena anche un’agenzia di rating, una sorta di Rintintin, non butta propriamente bene per il simil fiorentino. E questo sembra proprio il metamessaggio che l’ambasciatore e l’agenzia di rating stanno mandando con i loro interventi in stile guerra fredda. Quelli del governo devono proprio aver letto dei sondaggi ben poco rassicuranti se hanno sentito la necessità di pietire l’aiuto degli yankee. Se le intenzioni di voto vedessero in modo inequivoco la predominanza dei favorevoli alla proposta governativa non ci sarebbe bisogno di incomodare i nipotini del 7° cavalleggeri. È ovvio. 

E poi, dicendola tutta, viene un po’ da ridere a pensare Pierluigi Bersani nel ruolo del capo cattivo dei sioux. Fosse un pellerossa il Bersani farebbe la parte del sioux buono se non addirittura  quella dello scout (guida indiana) come ha fatto durante gli anni di permanenza al ministero dell’industria. Con D’Alema Massimo sarebbe già un po’ diverso. Lui più che nei panni dei nativi, non abbastanza di classe, è pù facile vederlo nel bianco che gli vende le armi. Comunque entrambi innocui per i futuri rapporti con gli yankee. In ogni caso dopo l’intervento del Presidente Mattarella quest’ultima carica del 7° cavalleggeri e l’abbaiare del cane da guardia hanno fatto cilecca. Cioè quella dell’ambasciatore, o di chi per lui, non è stata un’idea luminosa.Ora non resta che attendere: se all’orizzonte si vedrà comparire la sesta flotta americana del Pacifrico e si saprà della mobilitazione dei paracadutisti della Raf sarà un bel segnale per quelli del NO vortrà dire che Renzi e i suoi amici saranno proprio disperati. E allora una bella parte di italici se la riderà alla grande ringraziando Renzi per l’ennesima occasione di buon umore.




lunedì 12 settembre 2016

Vaticano vs Raggi: scherzo da prete. I giornali ci cascano.

Caditoie: i direttori di Corriere della Sera, Repubblica e Messaggero si sono fatti ingannare dal termine un po’ snob. Se l’Osservatre Romano avesse scritto tombini forse non ci sarebbero cascati. Monsignor Becciu con la puntuta ironia dei pattadesi ha aggiunto che i giornali dovrebbero pesare di più le notizie. Chissà se i tre dell’Ave Maria hanno capito la lezione.

I titli di Corriere della Sera, la Repubblica e il Messaggero
Che in Vaticano siano dei burloni lo si sa da sempre, oltre duemila anni, e con l’avvento al soglio pontificio di Bergoglio la propensione agli scherzi è senz’altro aumentata e s’è fatta più puntuta. Nulla a che vedere con l’umorismo tedesco di Ratzinger o quello polacco di Woytjla. Il fatto che come vice di Pietro Parolin, che ci è regalato dalla terra di Goldoni, ci sia Angelo Becciu che viene dalla Sardegna, e in più sia originario di Pattada cittadina nota per is arresoias (coltelli a serramanico, pattada appunto)  la dice lunga sullo spirito goliardico che aleggia oltre Tevere.

Le facezie più sono fini più fanno male e fanno fare la figura dei minchioni a quelli che ci cascano. E questo è il caso di quanto è stato letto e male interpretato su l’Osservatore Romano di sabato 10 settembre. Poche righette che hanno mandato in solluchero Lucio Fontana, Corriere della Sera, Mario Calabresi, la Repubblica e Virman Cusenza, il Messaggero. Il testo che ha entusiasmato i tre dell’Ave Maria: recita così: «Il maltempo paralizza Roma – e poi più circostanziato – Nella Capitale a riprova dello stato di abbandono in cui per certi aspetti versa la città, pochi minuti di pioggia sono bastati per  provocare la caduta di numerosi alberi danneggiando numerose automobili e mettendo a serio rischio l’incolumità dei cittadini. – e ancora con più veemenza -  Molte strade  soprattutto nei quartieri meridionali, sono state letteralmente allagate, dalla mancata pulizia, ormai cronica,  delle caditoie.» Un testino simile, nelle redazioni lo si definisce testicolo, si solito viene richiesto a qualche apprendista alle prime armi. E a ben vedere più o meno è lo stesso testo (testicolo) che viene riproposto ad ogni cader di goccia a Roma come anche a Milano.

Ciò che avrà fatto sospettare i tre direttori che senz’altro sotto sotto gatta ci covava deve essere stato l’uso di «caditoie». Termine raffinato e anche un poco snob. Figurarsi se l’articolista avesse aggiunto «caditoie a bocca di lupo.» I tre dell’Ave Maria avrebbero immediatamente pensato alla riproposizione della santa inquisizione e magari al ripristino della pira a Campo de' Fiori. Quindi si sarebbero scatenati per essere i primi a portare la carta con cui appiccare il fuoco. L’idea di vedere Virginia Raggi scarmigliata, pallida e discinta, dopo un paio di giri di corda, ben legata al palo per essere abbrustolita come Giordano Bruno deve aver eccitato più di un sogno. Ma così non era. E il sostituto della Segreteria di Stato monsignor Angelo Becciu ha dovuto spiegare.

L’ha fatto il monsignore ridendo sotto i baffi e dichiarando con fare curiale, per l'appunto, che era un semplice pezzo sul «cronico degrado di Roma». Ecco avessero soppesato le parole i tre direttori avrebbero visto che la mancata pulizia delle caditoie si definiva «cronica» quindi di lontana provenienza, «difetto inveterato» dice la Treccani. Però qui si va sul difficile: caditoie, cronica, inveterato, c’è di che perdersi. E allora a scanso di equivoci meglio allinearsi con i desiderata del momento e dai addosso alla Raggi. Tanto piove sul bagnato.

Ha aggiunto il monsignore che il tempo passato dall’insediamento della nuova giunta è poco e i mali antichi, magari, ma questo non l’ha detto, un po’ di responsabilità ce l’ha anche chi ha gestito i precedenti pontificati. Ed ha finito Angelo Becciu con la puntuta ironia dei pattadesi: che scivolassero sul tema i  giornali web atutto sommato ci poteva anche stare, troppo veloce il mondo delle notizie, ma la carta stampata, prorpio no:  ha più strumenti per «pesare e valutare». A esserne capaci.

Chissà se i direttori dell’Ave Maria hanno capito la lezione? Magari fosse stata rinforzata da tre pater-ave-gloria avrebbe più risultato.

giovedì 8 settembre 2016

Le oche del Campidoglio e i polli del direttorio

Il Campidoglio fu salvato dalle oche nobili pennuti simbolo di coraggio, fedeltà, lavoro di squadra, fiducia, amicizia, rinascita. Se una di quelle che salvò Roma si reincarnasse nei giorni nostri sarebbe un bel guadagno. È da polli, nel senso di gonzi, sapendo di vincere non prepararsi per tempo. Il termine oca è bisex, solo a Bologna per i maschi si usa ocarotto
La Sindaca di Roma V.Raggi  Di Maio del direttorio 

 Non si sa se sia storia vera o solo leggenda, ma ben 2.406 anni addietro Roma fu salvata dalle oche. Era il 390 a.c. e l’Urbe era cinta d’assedio dai Galli Senoni, celti trapiantati nelle Marche, comandati  da tal Brenno. Per interdeci quello che disse «Vae victis! (guai ai vinti!)» Furono le grida delle oche a svegliare i difensori della futura città eterna asserragliati nel colle del Campidoglio. Le oche a quell’epoca erano molto considerate, si pensava fossero le intermediarie tra gli umani e il mondo superiore, quello di mezzo non era stato ancora inventato e di Buzzi e Carminati non c’era neppure l’ombra, ed erano, le oche, sacre a Giunone. Solo per questo gli assediati non se le erano pappate dopo giorni e giorni di digiuno.
D’altra parte le caratteristiche delle oche sono molto interessanti. Come noto migrano da nord a sud per svernare e se durante il viaggio una di loro rimane ferita e si attarda un’altra uscirà dallo stormo e le starà accanto fino a quando la malata non guarirà o morirà. Non a caso in molte culture le oche rappresentano simbolicamente il coraggio, la fedeltà, il lavoro di squadra, la fiducia, l’amicizia e la determinazione. E come tutto ciò non bastasse l’oca era considerata l’uccello solare associato alla vita, alla creazione e alla rinascita.
Ecco, appunto, la rinascita. Deve essere stato per voglia di rinascita del Campidoglio (sinonimo del Comume di Roma) a spingere i romani a dare alla vincitrice delle elezioni dello scorso giugno una percentuale di voti quasi bulgara. Magari pensavano di mandare in Campidoglio la reincarnazione di una di quelle oche di duemila e briscola anni addietro fatte di coraggio, fedeltà, lavoro di squadra ecc, Perché anche adesso il Campidoglio è assediato, non dai Senoni di Brenno, ma dai nuovi barbari che si chiamano speculatori, mafiosi, intrallazzatori, affaristi e via delinquendo. È assediato il Campidoglio anche da forze politiche le più diverse che nel corso dei decenni di quella simpatica cittadina zeppa di pietre antiche e con una straordinaria famigliarità con gli intrighi ne hanno fatto il monumento vivente all’inefficienza. A Roma non funziona nulla. Non funziona la metropolitana , non funziona la nettezza urbana, non funzionano gli autobus, non funziona la circolazione, non funzionano gli uffici pubblici, il pronto soccorso e via di seguito.  Molti di questi non funzionamenti si sono trasferiti anche in altre città, ma questo è un altro discorso.
Diciannove i sindaci dal 1945 ad oggi che, chi più chi meno, hanno reso Roma quale è adesso. Sono stati di centro, fino al 1962, di centro sinistra (Dc, Psi, Psdi, Pri) fino al al 1976 e poi di sinistra (Pci e Psi) fino al 1985 e quindi ancora di centro sinistra fino al 1993 quando inizia l’era Rutelli seguita da Veltroni e poi Alemanno e Marino. Che quindi se le origini dei danni sono trentennali è facile dargli un nome ed un cognome. Senza più quelle camarille e quei buchi di bilancio e quel tanto apparire e quella minima sostanza anche a far poco si può fare un figurone devono aver pensato i romani: «Saran le oche del Campidoglio a salvarci.»
Hanno dimenticato però i romani che nel tempo, non si sa con precisione quando, il termine oca, almeno in Italia, non rappresenta più le meraviglie di cui sopra. Anzi è diventato simbolo di dabbenaggine e poca, anzi pchissima, acutezza. D’altra parte solo la dabbenaggine può far pensare di nascondere un fatto che per sua definizione è destinato, nel breve, a diventare pubblico. Le bugie hanno le gambe corte dicevano i nonni. Così come è dabbenaggine mettersi in squadra uno che fino all’altro ieri giocava con gli avversari della peggior specie o prendersi come compagni di strada personaggi men che cristallini o pensare di assegnare compensi ben sopra alla media quando i propri parlamentari lo stipendio se lo tagliano. Tanto per dirne alcune.
Il pollo invece è sempre stato pollo, cioè poco furbo. E per questo, che è da polli,  non da batteria ma da direttorio, avendo tutte le evidenze di una vittoria annunciata non mettersi al lavoro per dare una mano a costruire una squadra di competenti, magari inattaccabili e che, così, per sfiizio condividano anche la linea politica del vincitore  e le cose che sono da farsi. Perché la gioventù è bella ma non una malattia e la storia è piena di giovani che han saputo ben fare. L’inesperienza fa danni solo quando sta ben lontana dal buon senso.
Una precisazione: con oca si definiscono sia le femmine che i maschi del nobile pennuto. Il termine oca, nella sua accezione moderno, è quindi bisex. Solo dalle parti di Bologna si usa “ocarotto” per indicare un maschio, non necessariamente caucasico, non particolarmente sveglio. 

giovedì 1 settembre 2016

Quello che ha capito Renzi e quello che non ha capito D’Alema.

Uguali in quasi tutto eccetto che nel rapporto con i libri. Renzi sa come fare scouting, d’altra parte viene dagli scout. Sa dividere il rischio con gli avversari. Il caso Vasco Errani. D’Alema invece vuol fare tutto da solo. La sua sembra una rentrée alla Artemio Altidori.

Massimo D'Alema e Matteo Renzi: padre e figlio
I due non si sono mai amati. Troppo simili per essersi reciprocamente simpatici. Gli uguali si  sa si respingono. Entrambi si credono diretta emanazione del cielo anche se non sono così allocchi da dichiararlo pubblicamente. Arroganti e spocchiosi oltre il giusto, hanno con la base lo stesso rapporto di tranquillo disprezzo: il D’Alema gli parla come se fosse composta da deficienti, diciamo, mentre l’altro la tratta come un sex toy. L’unico atteggiamento che li differenzia è il rapporto con il libri: feticistico per il post comunista da usarsi come fermaporte per il democristiano di nuovo conio. Adesso si scazzottano avendo come ring le feste del l’Unità nel bel mezzo di una situazione politica particolarmente complessa, quando mai è stata semplice?, Il fatto che frau Merkel si sia spostata due volte per venire in terra d’Italia e soprattutto incontrare il Matteo che senz’altro non è in cima alla sua classifica dei simpatici, sta lì a dimostrarlo. Referendum costituzionale, terremoto, pil, ripartenza dell’economia che non c’è, diminuzione dei disoccupati nonché contemporaneo calo degli occupati et similia bagatelle, tutte questioncine che si tengono tra di loro ben strette e sembrano (forse sono) tutt’uno, rappresentano il piatto forte dell’autunno.  Dove uno ha capito molto e l’altro abbastanza poco.

Chi ha capito molto, strano a dirsi è il Renzi, ragazzo che vien dalla campagna toscana avendo senz’altro stretta parentela con Bertoldo. Lui ha ben chiaro che una sconfitta anche in uno solo dei fronti sarebbe per lui pericolosissima e allora che fa? cerca alleanze anzi obbliga all’alleanza quelli che proprio amici suoi non sono. Lo fa con la Merkel, di cui s’è detto, e anche con i suoi avversari interni. Come dire: ripartisce il rischio sugli altri facendo scouting. Alla nascita del suo governo ha distribuito poltrone anche e forse soprattutto alla minoranza e così bersaniani, lettiani, prodiani, daleminani, civattiani nonché giovani turchi si sono trovati ministri, sottosegretari, presidenti di commissioni e responsabili di settori di partito o speaker ufficiosi . Uno anche presidente. E sono proprio gli ex a essere le vere teste d’ariete del governo Renzi che poi è come dire del renzismo. Che fare scouting per il Renzi è un attimo: viene dagli scout dove gli hanno insegnato che quando la partita è complessa la si scompone in tante piccole partitelle semplici. Facendo giocare gli altri. Soprattutto. Il caso di Vasco Errani è solo l’ultimo ed emblematico della fila: chiama un emiliano, ad oggi ancora bersaniano e non si sa per quanto, a parlare di territorio nel Lazio e nelle Marche. E già ottiene un risultato: Bersani, Seranza e Cuperlo  sono freddini con il comitato dalemiano del NO. La logica di Renzi è semplice, come spesso avviene per le soluzioni intelligenti (o furbe): dovesse andar male qualcosa nella ricostruzione chi mai lo potrà incolpare? Non certo gli altri del governo: hanno tutti votato Errani. Non certo la minorazna del Pd: Errani è dei loro. Non certo l’Europa: la Merkel, anche se cautamente un po’ si è esposta. Non certo i rabdomanti di scandali: c’è Cantone. Tombola. Comunque andrà Renzi avrà più di una pezza d’appoggio dalla sua.

E D’Alema? @MassimoLeaderPd nella sua spasmodica lotta contro il suo figliolo naturale sta puntando sul NO al referendum, tentando di diventarne il portabandiera. Solo e unico. Dopo aver vestito i panni della zia zitella e petulante che in modo civettuolo, così scrivevano i suoi adoranti intervistatori, dichiarava di occuparsi solo di grandi temi internazionali adesso s’è reso conto che è meglio essere il primo a Tusculo che il secondo a Roma. E allora dai convegni nei quattro angoli del mondo (che contano come l’acqua al Oktoberfest) è rientrato velocemente e spasmodicamente nella tanto negletta italietta. Solo che il D’Alema Massimo non ha colto un paio di questioni. La prima: se nelle urne prevarrà il NO (auspicabile) non sarà una vittoria che potrà intestarsi. In questo caso più che mai i padri saranno molti, moltissimi: dall’avvocato Besostri e i suoi colleghi che hanno presentato esposti di non costituzionalità in quasi tutte le procure della Repubblica, ai costituzionalisti che per primi bollarono la riforma come sbagliata,  all’Anpi, che sta litigando con i renziani, fino ai partiti di opposizione. Al massimo, il D’Alema, sarà un primus inter pares. Diciamo. Seconda questione: la sconfitta di Renzi (che s’è già cautelato mantenendo le date stabilite per il congresso di partito ed elezioni) al referendum non significherà, soprattutto all’interno del Pd, la rinascita e lo sdoganamento delle vecchie cariatidi come D’Alema, appunto, o Bersani e neanche dei giovani vecchi alla Speranza o Cuperlo. Questi non solo sono la causa del renzismo, ma soprattutto, non hanno una straccio di vera proposta politica da presentare al partito e al Paese se non voler rioccupare i posti da cui sono stati scalzati. Diciamo. Un po’ pochino per aspirare ad alcunché. Insomma una rentrée alla Artemio Altidori.

Artemio Altidori? Il pugile dell’episodio dedicato alla nobile arte da Dino Risi nel film i Mostri: non aveva capito che il suo tempo era passato anche se ricordava che «i cazzotti fanno male» È che il D’Alema fino ad ora ne ha presi pochi. Di cazzotti politici.