Ciò che possiamo licenziare

martedì 31 maggio 2016

Massimo Cacciari e Michele Serra non hanno la faccia per dire no.

Dice Cacciari: «Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni.». Aggiunge Serra: «Ora la sola idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa essere sbagliata.» Risponde Crozza: «Anche mettere il cesso in salotto è una novità, ma non è bello.» E soprattutto non ha senso.

Michele Serra l'amacante
Michele Serra, nella sua ondeggiante rubrica emblematicamente nominata L’amaca di qualche giorno addietro,  riporta una frase di Massimo Cacciari rilasciata durante un’intervista a Ezio Mauro di la RepubblicaLa frase, terribile nel suo contenuto quanto quasi lieve nella sua forma, recita così: «Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni.» Se non fosse che si sa averla proferita il filosofo Massimo Cacciari sembrerebbe una frase da flaneur, da Bellamì, da disincantato sciupatempo e cinico sciupafemmine francese di fine ottocento.  Poiché il senso, tradotto per il volgo, di quella striminzita righetta è come dire di essere ormai rassegnati a tutto dato che tanto si è sbagliato in passato. Peraltro lo stesso Cacciari in svariate occasioni televisive ha ben palesato con parole assai più precise e crude  («è una puttanata») il suo pensiero sulla riforma renziana della Costituzione. Il giudizio di Cacciari sulla riforma è ovviamente condivisibile. Più che condivisibile. È una riforma a tal punto pasticciata che anche uno studente ai primi anni di giurisprudenza è riuscito a mettere in buca quella sorta di madonna pellegrina che si è prestata ad essere Maria Elena Boschi nel suo tour elettorale.

Comunque, giusto per non perdere il filo, anche l’amacante Michele Serra ha colto il punto e si è subito sdraiato sulla linea di Cacciari ché, d’altra parte, cercarne una nuova richiederebbe un certo sforzo che non si può pretendere da chi ormai arrivato se ne sta comodo e sdraiato e ha deciso di tirare i remi in barca. Tirare a campare disse un tempo tale Andreotti Giulio. Infatti ammette il Serra Michele che gli viene difficile essere antirenziano. Un po’ a causa del riflusso degli anni ottanta, come son lunghe le radici della sconfitta, e un po’ perché vede il paggio fiorentino come il figlio naturale di quella sinistra parolaia ed inconcludente che l’ha preceduto.  Che Renzi Matteo sia il frutto avvelenato di D’Alema e di tutta quella genia di sinistra da terrazza (op.cit.  Ettore Scola) aspirante ad essere destra, non ultimi gli Speranza ed i Cuperlo politici dalla trista figura, è fatto straraccontato in molti pezzulli qui già apparsi.  E proprio per questo il Renzi Matteo dovrebbe essere combattuto ed abbattuto (politicamente) cogliendo così due piccioni con una sola fava: liberarsi una volta per tutte dei vecchi tromboni sedicenti di sinistra e rimandare in campeggio lo scout pataccaro. Il fatto è che chi è già satollo oltre che nella panza anche nell’intelletto si adegua a ripetere la giustificazione dell’ispettore Rock «Ho fatto, ho fatto, ma non ho visto niente.» L’ispettore Rock (interpretato da uno strepitoso Cesare Polacco) parlava di brillantina (Linetti) e non di politica. Perché in quella vera l’abbandono per stanchezza non s’è mai visto e magari chiederlo ai «partigiani veri» di Maria Elena Boschi potrebbe essere un’idea. E proprio perché il Renzi e la sua scardellata squadretta di arrampicatori sociali e aspiranti lobbisti, a cui si sono aggiunti non pochi ferrivecchi, son frutto di quella malintesa idea di sinistra, vale la pena di reagire con più forza. Non si copre un buco vecchio creandone uno nuovo e per giunta più largo. Questo è metodo da bancarottieri alla Sindona Michele. E in politica non paga. Si spera, almeno.

L’amacante Serra Michele finisce la sua fatica scrivendo: «Ora la sola idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa essere sbagliata.» In anticipo di qualche settimana gli aveva già risposto Maurizio Crozza, a riprova che i comici sentono l’erba crescere, dicendo che: «Anche mettere il cesso in salotto è una novità, ma non è bello.» E verrebbe, debolmente, da aggiungere neanche ha tanto senso. Infine: l'alternativa a «che qualcosa accada.» non è che non accada nulla ma che accada la cosa giusta. Faticoso. Si sa.

La fortuna, se così la si vuol chiamare, è che lo stimato Massimo Cacciari e il qualche volta simpatico Michele Serra, non smuovono voti. Forse neanche quelli dei parenti. E allora si dia fiducia al popolo, qualche volta bue, ma qualche volta anche no. E ci si augura che sia la volta buona (che non è un ashtag)

domenica 29 maggio 2016

Si riparla del ponte sullo stretto: elezioni vicine?.

Di questo ponte ne parla  Plinio il Vecchio fin dal 251.a.c. In oltre duemila anni di progetti ne sono stati fatti a bizzeffe, ma sempre senza costrutto. Denis Verdini una volta era contro, però in politica tutto è mutevole. Il ponte sullo stretto è la cartina di tornasole della vicinanza delle elezioni.

Dice un proverbio di recente conio che chi non è capace di montare una tenda canadese, otto o dieci pioli e tre stecche, di solito si mette a progettare cattedrali. E allora dai con il rilancio del ponte sullo stretto. Tanto progettare il grande è mediaticamente più impattante e magniloquente che far le piccole cose che aiutano gli abitanti del Belpaese a vivere un po’ meglio e magari con dignità. Ne sanno qualcosa gli abitanti di Messina che periodicamente devono tirar fuori da cantine e solai le taniche di plastica per fare il pieno d’acqua dalle autobotti neanche fossero nomadi nel deserto.  Quindi in una città che manca d’acqua  che dispone di una rete idrica da terzo o fors’anche quarto mondo la prima cosa che viene in mente di fare è per l’appunto il ponte sullo stretto. Evviva.

L’idea del ponte è vecchia anzi vecchissima, ne parlarono già i romani nel 251 a.c. e sembra anche che qualcosa fecero, racconta Plinio il Vecchio. E all’epoca a governare c’era gente seria che quando decideva, decideva sul serio, e non blaterava su «è finito il tempo di…» E, in effetti, piacerebbe a tutti che finisse il tempo delle patacche. Ma, verosimilmente, se ne dovranno sentire e veder smerciare ancora un bel po’. Sic transeat gloria mundi per rimanere in tema con i romani antichi.

Ne hanno parlato a fine marzo Alfano e Lupi, che per autorevolezza e puntualità non sono secondi ad alcuno, e adesso ne riparla nientepopodimenoche lo stesso Presidente del Consiglio Renzi Matteo. Per intenderci quello che i compagni di scuola chiamavano “il bomba”. L’idea quindi è di far risorgere dalle ceneri la società Stretto di Messina S.p.A, già posta in liquidazione il 15 aprile 2013.  Società che grazie alle ponzate, nell’ordine, di Berlusconi-Prodi-Berlusconi-Monti è costata, tra annessi e connessi (più connessi che annessi) agli italiani la bazzecola di un miliardo e quattrocentocinauqnta milioni di euro. Al coro degli entusiasti si è aggiunto con fervore anche il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti  Graziano del Rio che vagheggia già di una tratta ferroviaria diretta da Torino a Palermo. Lo stesso pathos il ministro non lo dimostra per le piccole tratte che milioni di pendolari usano tutti i giorni. Questi non fanno notizia. Lì magari sono ancora in servizio le vecchie e sante littorine della buon’anima. Si fa per dire.

Certo che sollevare una questione del genere parrebbe proprio bizzarro se non pungesse vaghezza che in questo momento stanno per tenersi le elezioni amministrative in 1.363 comuni,  e poi in ottobre il referendum costituzionale e chissà se a stretto giro non ci saranno pure le elezioni politiche.  Queste ultime di solito marciano di pari passo con promesse iperboliche che vanno dall’abolizione delle tasse, all’incremento dei posti di lavoro fino ai più enormi investimenti del bigoncio, quando mancano i denari per le scuole e le infrastrutture minime. In aggiunta nello stesso tempo si stanno cementando, altro che ponti, alleanze quanto meno bizzarre tra il Pd e il gruppo di Ala. E qui va ricordato che il comandante in capo di Ala, senatore Denis Verdini, il 27 ottobre del 2011 votò per  la soppressione dei finanziamenti allo stretto. Momento di inaudita saggezza. Quindi un problema nel problema. Però tutto è mutevole: Renzi voleva fare il rottamatore e si trova a riciclare ferri vecchi, dalemiani-prodiani-veltroniani-bersaniani di provatissima fede sono diventati in un batter d’occhi renziani di ferro (sempre che Renzi resti), Debora Serracchiani che minacciava di uscire se fosse entrato Verdini adesso ci convive allegramente e  fa finta di niente. Allora perché stupirsi se domani Denis Verdini decidesse di resuscitare il costoso cadavere? In ogni caso, allegri i cuori, si faranno le elezioni, vicine, medie e lontane, irrilevanti, e pioveranno sul capo le solite banali promesse catartiche, anch’esse irrilevanti, ma la vita di tutti con gioie e dolori andrà avanti comunque.  E si butteranno altri denari, come sempre. Nulla di nuovo sotto il sole.

mercoledì 25 maggio 2016

Napolitano Giorgio si è offeso.

L’Anpi dice che chi vota NO difende la Costituzione. È un’opinione buona come un’altra, soprattutto nella polemica politica. Per molti, ma non per Napolitano Giorgio che si sente offeso. E dire che non è neanche iscritto all’Anpi.Tra i bambini non ci sono quelli che si sentono offesi.


Giorgio Napolitano senatore a vita
Quando qualcuno si offende, nel senso che le parole d’altri, magari anche senza volere, lo hanno urtato non è bello. Non è bello nel mondo del politicamente corretto e neanche in quello del politicamente non corretto. Se si vuole essere corretti. Il fatto di Napolitano, Giorgio, ex presidente della Repubblica, e attuale senatore a vita con annessi e connessi (più annessi che connessi) è noto. Il direttivo dell’Anpi ha dichiarato che scegliendo di votare NO al prossimo referendum si sentono i difensori della Costituzione. È un’opinione. Così come dire che chi vota SI è un progressista. Anche questa è un’opinione. Entrambe a seconda dei punti di vista sono discutibili. Come normale che sia. 

Napolitano Giorgio invece ha trovato l’affermazione dell’Anpi offensiva. Personalmente offensiva. Profondamente offensiva. E quindi ha voluto ribattere con una frase tutta sua che manifesta qualche aspirazione a voler divenire storica. La frase napolitana suona così: «Nessuno può dire “io difendo la Costituzione votando no e gli altri non lo fanno”. Dire questo offende anche me..Mi reca un’offesa profonda» Così parlò Napolitano Giorgio ad una manifestazione organizzata dalla fondazione Berlinguer, con il quale ha litigato ferocemente, e dalla fondazione Antonio Gramsci con il quale ha poco o nulla in comune: Gramsci era comunista e non un apparatiniko. Il fatto poi che l’offesa ancorché perpetrata solo verbalmente e non manu militari abbia gradazioni è cosa che colpisce e sulla quale magari qualche semiologo avrebbe di che argomentare. Da bambini quando si faceva baruffa con quelli della banda avversaria c’erano le offese tout court e non si stava a soppesarle in lievi-normali-fanguinose–profonde. Tutt’al più questi aggettivi venivano riservati alle ferite che con graffi-pugni-schiaffi-e-morsi si prendevano e si davano. Ma forse per chi vive di politica le cose cambiano e si perde l’animo del fanciullo. 

In più nell’affermazione di Napolitano c’è una palese contraddizione logica che ovviamente nessuno si sogna di evidenziare per tema di ulteriori offese profonde. Se nessuno può dire “io difendo” (con quel che segue) nessuno può altresì dire “nessuno può dire”. Altrimenti anche gli altri potrebbero offendersi, magari meno profondamente, per questione di status. La par condicio quando la si invoca va pur rispettata. Altrimenti si insatura la democrazia dell’unico che può dire “nessuno può dire” che di norma non è segno di democrazia. Quanto poi al sentirsi offeso questo è sentimento ego riferito che non ha oggettività. Il sentirsi offeso ha a che fare più con la psicologia e gli arcani percorsi della mente che non con l’oggettività delle affermazioni. Perché nel caso non ci si sente offesi ma si è offesi. Che è tutta un’altra storia. E qui gli esempi si sprecherebbero, ma per evitare che qualcuno si senta offeso si soprassiede. Tutto questo al netto delle questioni di merito che a guardare la versione della vecchia Costituzione promulgata il 22 dicembre del 1947, semplice e chiara e comprensibile da tutti con quella di nuovo conio vien proprio da dire che chi non la vuol cambiare ne stia proprio difendendo lo spirito e il senso. 

Val per tutti, ma ci sarà modo di tornare sul tema ,l’art. 70 sulla funzione legislativa. La vecchia se la cavava con una riga e una parola, la nuova per spiegarsi di righe ne vuol più di trenta e ben inframmezzate di rimandi a commi, codicilli, paragrafi e articoli da recuperare qua e là. Il vecchio buon senso contadino racconta che quando un testo (o anche un ragionamento) è esageratamente complicato dietro ci sta ben comodamente acquattata una qualche fregatura. E questo sembrerebbe il caso.  Per ritornare ai bimbi, che spesso la politica sembra gioco di fanciulli scapestrati, è da dire che hanno inventato l’antidoto giusto per smontare i permalosi che ad ogni piè sospinto si sentono offesi, neanche fossero l’ombelico del mondo. La frase è semplice e vien ben scandita: «chi si offende è fetente» Ecco perché tra i bambini non ci sono quelli che si sentono offesi.

domenica 22 maggio 2016

E se Renzi fosse il nostro La Fayette?

Sembra una provocazione  ma tra il Marchese di La Fayette e il fiorentino Renzi i punti di contatto son più d’uno. E millanta quelli che non li fan vicini. E se Renzi fosse, solo il precursore di un’era di innovazione vera?  E di fatti e non di parole?Un sogno dadaista

Sogno dadaista: Matteo Renzi come Gilbert La Fayette
Ovviamente il parallelo è ardito, anzi arditissimo, ma si sa che le metafore non han confini e ardite lo sono per definizione. Molto probabilmente a Marie-Joseph Paul Yves Roch Gilbert du Motier, Marchese di La Fayette il raffronto potrebbe apparire indigesto, lui uomo del fare rivoluzioni e non del chiacchierare, ma d’altra parte non ha alcuna possibilità di palesare il suo sdegno. 
Al più potrà parlarne, cioè ascoltare con pazienza, con il neo assurto Giacinto Pannella. Però a ben dadaisticamente guardare il raffronto potrebbe starci. Oltre che le ovvie e  dovute scuse al Marchese.

Come noto Monsieur de La Fayette, dopo aver scannato un po’ di inglesi in terra americana ed aver contribuito al successo della rivolta organizzata da George Washington se ne tornò in nella douce France e proseguì il suo cammino rivoluzionario. Però la sua, come la supposta (qui inteso come aggettivo e non necessariamente come oggetto medicinale) rivoluzione renziana, qualche voglia di stare dalla parte dei più forti ce l’aveva. Vien difficile, pur con cotanti meriti dimenticare che il comandante della Guardia nazionale francese non esitò a sparare sul popolo al Campo di Marte. I vari articoli, postille e codicilli del job-act non sono pallottole ma certo ammaccano sia i nuovi assunti sia quelli che cercano lavoro: i sans-culottes 2.0.

Un altro fatterello che li accomuna è che La Fayette nel 1791 quando fu  capo di tre armate sul fronte belga contro gli austriaci si dette da fare per organizzare armistizi piuttosto che combattere. Un po’ come accordarsi con il gerontocomio del Pd per mantenere il controllo del partito o con Verdini Loris e la sua truppa per il controllo del Parlamento o con i supporter del vetero capitalismo. Fu proprio dopo questo bel fatterello sul fronte belga che il Marhese prima si ritirò a vita privata e poi se ne andò in esilio. Vuoi mai mettere che ci sia una qualche analogia con il referendum sulla nuova, sedicente, costituzione? Che se fosse non sarebbe proprio male.

Nello scenario, s’intende dadaista, tutti questi fatti son capiti e compresi e infatti si ipotizza che il giovine Renzi Matteo come l’aristocratico Marie-Joseph Paul Yves Roch Gilbert du Motier, Marchese di La Fayette abbia tracciato la strada per il cambiamento del Paese, ma essendo incapace di pensarlo a tutto tondo e di gestirlo, lasci il campo a quelli che il cambiamento e il rinnovamento lo vogliono per davvero e in chiave democratica e popolare. Che poi significa riduzione delle disparità, tassazione equa, attenzione al bene comune, rispetto del territorio, dignità del lavoro e sviluppo sostenibile.. Ops, s’è scritto in altri termini quello che è già nella Costituzione attuale. Pardon.
Ora si tratta, dadaisticamente parlando, solo di cercare o veder spuntar fuori chissà da dove chi potrà far la parte dei giacobini d’antan che ovviamente più che di ghigliottine dovranno saper maneggiare leggi, sostitutive e non aggiuntive, andando a prendere i denari dove stanno e non dove è più semplice trovarli.  

E allora al Renzi Matteo si potranno dedicare strade e piazze perché precursore del cambiamento, ma non di questo facitore per manifesta incapacità. Della seconda parte ovviamente non si farà menzione nei libri di testo per la riconoscenza che si deve a chi ha aperto la porta. Certo con lui se ne andranno anche le gerontocrazie pregresse (più mentali che fisiche) e i giovani scardellati che l’accompagnano.

È un sogno dadaista.

sabato 21 maggio 2016

Giacinto Pannella detto Marco è morto.

L’ultimo regalo di Marco Pannella: il pianto degli ipocriti.  Gli interventi di Adriano Sofri e Giorgio Napolitano paradigmatici della trita retorica di sempre. Lacrime da vitelli nel pubblico mentre nel privato chissà. Comunque vale sempre il detto: dei morti non si deve che dire bene.

Marco Pammella morto a 86 anni
All’età di 86 anni, cinque in più della media degli uomini italiani, e con un paio di tumori, polmoni e fegato, nonché innumerevoli metastasi, Giacinto Pannella in arte Marco è morto. 
L’evento, date le premesse, tutto sommato ci sta. Quel che non ci sta è la caterva di paginate grondanti trita retorica che gli sono state dedicate. Gli interventi di Adriano Sofri su Il Foglio e di Giorgio Napolitano su l’Unità in questo sono paradigmatici, con l’aggiunta di quintalate di politici e giornalisti che si sono messi a lacrimare come vitelli. Pubblicamente. Nel privato invece chissà. Oggettivamente sia gli uni che gli altri muovono a pena. Chissà se Giacinto in arte Marco avrebbe apprezzato. Se si pensa all’inventore di assurdi calembour, liberale-liberista-libertario (le tre cose non stanno insieme neanche volendo forzare la logica) o fascista-sfascista, magari anche sì, alle personalità megalomaniche ed istrioniche gli eccessi piacciono. Però forse (dicesi forse) è fargli torto.

Quel che è certo è che i tanti lacrimanti sono sempre stati molto, ma molto lontano da lui, dalle sue idea e dalle sue provocazioni. Per esempio il referendum sull’abolizione del finanziamento ai partiti, tanto per dirne uno. Quello dove i lacrimanti sono stati oltremodo vergognosi. Qualcuno su Rai radio 3 ha detto: «c’è da chiedersi quanti di questi l’hanno votato» e s’è immediatamente risposto: «pochi.» O forse anche nessuno. Paccottiglia di scarto. Sono infatti gli stessi che lo ritenevano molesto. E molesto spesso Giacinto Pannella detto Marco lo è stato per davvero. Con certe sue invenzioni cervellotiche che davano l’idea di essere studiate più per tenere lui, tanto, e un poco anche il Partito Radicale, sotto l’occhio dell’opinione pubblica. Opinione pubblica che comunque si liberava delle sue provocazioni con una scrollata di spalle e non lo seguiva.  Ché qualche volta il buon senso vince. E le sue iniziative perse sono state più di quelle vinte. Ma questo ci sta quanto le iniziative sono tante: più ne fai e più ne vinci, più ne fai e più ne perdi.

Anche l’ultima delle sue battaglie, quella sulle carceri, ha avuto poco seguito soprattutto tra i suoi novelli lacrimanti. Una battaglia di poco costo e di molta resa  e forse proprio per il rapporto costo/resa l’interesse è stato poco. Come dire inversamente proporzionale.

I romani dicevano che dei morti si deve solo dire bene (de mortuis nihil sine bene dicendum est), cominciavano già ad essere democristiani prima del tempo. Sarà l’aria della capitale. I vitelli piangenti di oggi continuano nella tradizione. Qualcuno però si chiama fuori  e non ci sta.

mercoledì 11 maggio 2016

Verrà giorno che dovremo dire grazie a Matteo Renzi.

Al di là di quel che si può dire, non va taciuto che Renzi sta passando dieci insegnamenti fondamentali per la democrazia e la rinascita del Paese. Dopo questi tornare indietro sarà quasi impossibile. E così si sarà più felici e contenti che pria.

Come tutti i profeti visionari Matteo Renxi non è compreso dai suoi contemporanei. Come tutti i profeti visionari Matteo Renzi non è compreso neanche da sé stesso. Da che mondo è mondo è sempre successo così. Nell’impresa di capirsi e di farsi capire non c'è riuscito alcuno, neppure chi vantava ascendenze celesti e padri onnipotenti o simil tali. Però come quasi tutti i profeti visionari verrà un giorno in cui lo si dovrà ringraziare il Matteo Renzi, perché alla fine il suo passaggio su questa terra (si specifica detto in senso politico onde evitare turpi toccamenti) qualcosa ha insegnato. Qualcosa di molto importante che senz’altro lascerà il segno nell’animo politico dell’animale italico cioè: nell’animo dell’italico animale politico.

Il primo insegnamento del Renzi Matteo è che si può fare a meno di D’Alema Massimo. E per buttarlo giù dallo scranno ci ha messo veramente poco. Gli è riuscito quello che il Veltroni Walter cercava di realizzare da decenni. E questo non è poco. Gli ha ricordato che non si può disprezzare chi ti vota e che per essere un lìder non basta comportarsi come una vecchia zia, zitella e inacidita. Se il re passeggia nudo basta dirlo e tutti se ne accorgono.

Il secondo insegnamento è che il detto: “quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare” ha una sua ragion d’essere. Anche se lui l’ha dimostrato per prova contraria. Ossia quando il gioco si è fatto duro i vecchi (ancorché giovani in età) democristi e i vecchi (ancorché non ancora anziani) comunisti abituati ad essere spugne tra spugne invece che combattenti se la sono squagliata. Rinunciando alla lotta per davvero. Ogni riferimento al decotto Enrico Letta e al bollito Pierluigi Bersani, qui usati in veste di sineddoche,  è propriamente voluto.

Il terzo sta nel aver disvelato con nome e cognome quanti e chi siano i " tengo famiglia" nel giro della politica. L’elenco degli ex dalemiani, ex bersaniani, ex veltroniani, ex montiani, addirittura ex ingraiani e comunque ex di qualsiasi cosa, in centro come in periferia, che dalla sera alla mattina si sono trovati renziani è così lungo che l’elenco del telefono di qualsiasi grande città necessiterebbe di foliazione aggiuntiva. Adesso che li si conosce se ne terrà debita nota per quando si potrà scegliere, con comodo, il proprio rappresentante.

Il quarto insegnamento è, per paradosso dadaista, di forma opposto al secondo ed al terzo: se tutti quegli ex avessero tenuto la schiena almeno un po’ perpendicolare, se non proprio dritta, il Renzi Matteo non sarebbe dov’è.

Il quinto è che lo stalinismo non è morto con Stalin.

Il sesto è che lo stalinismo, come il renzismo, non è forte in quanto tale ma solo per l’acquiescenza di quaquaraquà. No quaquaraquà no stalinismo. E neanche renzismo.

Il settimo è che a forza di imbarcare mele marce o quantomeno bacate qualcuna di quelle sane o simil tali si contagia e allora persone sedicenti per bene si trovano a taroccar quel che gli capita sotto mano per il bene del Paese. E il loro.

L’ottavo insegnamento, ma questo lo si vedrà più avanti nel tempo, è che chi tradisce una volta tradisce sempre, per cui nulla di strano se gli ex di cui al punto tre torneranno all’ovile o si imbucheranno in qualche altro gregge. Quel giorno diranno che il vero traditore è Renzi Matteo.

Il nono insegnamento, ma questo è un desiderata che forse con ottobre si avvererà, è che si può imbrogliare uno tante volte, tanti una volta ma non tutti tutte le volte

Il decimo insegnamento in realtà non c’è perché non si vuole fare un decalogo che magari al Matteo Renzi gli vien la voglia di assimilarlo ad altri ben più seri e farsene vanto.

Se poi edotto da questi insegnamenti l’italico animale politico metterà la testa a posto allora si potrà dire grazie a Renzi Matteo. Che magari starà a rimembrar i bei giorni passati con Luca Loti e Maria Elena Boschi nel ridotto in Val di Chiana. Senz’altro meglio di quello da altri preconizzato in Valtellina.

sabato 7 maggio 2016

Le chicche della prima settimana di maggio.

Il mese di maggio parte male. In solo sei giorni: un’accusa per turbativa d’asta, un aspirante sindaco, il nipote di un partigiano, che si fa sponsorizzare dalla nipote di Mussolini e definisce Francesco Storace come fasciste de core. Poi il segretario del Pd sardo condannato per evasione fiscale. Ma anche aprile non si era chiuso bene.

Maggio è il mese delle rose che, come noto, hanno anche delle spine. Il primo giorno di maggio è la festa del lavoro e anche il lavoro, come noto, ha delle spine. La prima settimana del mese ha deciso di attenersi alla regola e quindi giù spine a più non posso.

La settimana è cominciata con tale Simone Uggetti, personaggio poco noto alla gran parte degli italiani che l’hanno scoperto sindaco di Lodi e, già che c’era, anche incarcerato con l’accusa di turbativa d’asta e di cancellazione di prove. A ben vedere non è una novità che casi del genere capitino. Il divertente è che due suoi mentori si sono subito dichiarati stupiti per le accuse e hanno subito lanciato rose: Pierluigi Bersani «che Uggetti abbia fatto cose sporche non ci credo». Mentre Lorenzo Guerini, ex sindaco di Lodi ha aggiunto:«Uggetti persona limpida.» Le spine si sono concretizzate quando in contemporanea Uggetti confessava. Aggiungendo che aveva fatto tutto per il bene della città. Come turbare un’asta e poi tentare di cancellarne le prove sia nell’interesse della città è un mistero.

Così come è un mistero il fatto che il Presidente del Consiglio cominci a parlare in romanesco. Infatti a chi ventilava l’ipotesi che si tratti di un complotto della magistratura, in questo supportato da tale Giuseppe Fanfani, ha risposto: «complotto de che.» Mentre un’altra volta si è lanciato in un «daje» che era lo slogan di Ignazio Marino. Prima o poi qualcuno riuscirà a tirarlo fuori da questo stato confusionale. Magari ad ottobre e allora saranno rose.

Chi non può aspettare ottobre è Alfio Marchini, nipote di un partigiano con il bernoccolo della calce che ha palazzinato mezza Roma. Anche lui di nome faceva Alfio ma aveva le idee chiare in fatto di politica al contrario del nipote che dopo aver decretato la fine di destra e sinistra si fa appoggiare dalla nipote di Mussolini e definisce Storace «fascista de core» che se avesse incontrato Roberto Farinacci chissà che gli avrebbe detto. Un po’ però qualcosa nelle in marcescibili convinzioni del giovane Alfio deve scricchiolare se quando si lancia nelle affermazioni più impegnative zagaia (tartaglia). Evidentemente anche il pudore ha un suo limite.

Limite ormai ben travalicato dai verdiniani che stanno al governo facendo finta di non esseri.  E infatti tale Ciro Falanga di Ala (i verdiniani) ha partecipato ad una riunione sul tema delle prescrizioni al Ministero di Giustizia. Lui il Falanga ha dichiarato: «C’ero, ma fuori dalla porta.» Conferma Luigi Zanda, capogruppo del Pd al Senato, mentre un altro Senatore del Pd, Casson ha dichiarato: «Certo che c’era, era seduto accanto a me.» Come dire esserci o non esserci, al confronto il dubbio di Amleto è un indovinello da bambini.

Non sono storie da bambini quelle che vedono Renato Soru, ex Presidente della Regione Sardegna nonché segretario regionale del Pd, nonché deputato europeo (assenteista), condannato a tre anni di reclusione per evasione fiscale. Che non è bello.


Come non è stato bello il raccontino di Cesare Damino (ex ministro del lavoro) a Un giorno da pecora, quando ha dichiarato di essere in pensione dal 2008, dopo 40 anni di versamenti come metalmeccanico. Percepisce una pensione di 2.395€ netti (metodo retributivo) a cui aggiungerà all’incirca altri 3.000€ netti come vitalizio per tre legislature, XV,XVI e XVII. La prima durata solo due anni. Quindi dopo dodici anni di Parlamento, per dieci dei quali ha percepito anche la pensione da lavoro oltre all’emolumento da parlamentare, riceverà addirittura più di quanto gli tocca come ex metalmeccanico. Che poi è stato prevalentemente sindacalista e dirigente di partito. In totale quindi 5.395€ netti al mese. Non male. Tutto legittimo, per carità però vien da chiedersi quanti contributi stanno a monte di quel vitalizio? E sarebbe carino raccontarlo ai giovani che andranno in pensione a saldo quasi zero. 
Il fatto che la trasmissione sia andata in onda il 29 aprile dimostra che le spine non sono monopolio delle rose e neppure del mese di maggio.