Ciò che possiamo licenziare

sabato 24 dicembre 2016

I pacchi sotto l’albero di Natale

Il bello del Natale è che sotto l'albero ci mettono sempre molti pacchi, piccoli, grandi medi. E anche sotto l'albero dell'Italia ce ne sono. Visto che non è ancora il momento un po' da birbe ne spacchettiamo solo quattro: emblematici. Anche se poi di così se ne sono già visti. L'augurio è che non se ne vedranno più. 

Quattro bei pacchi di Natale: Alessandra Moretti, Robero Formigoni, Virginia Raggi, la Salerno Reggio Calabria
Le tradizioni sono immarcescibili e così anche quest’anno per  la fanciullina Italia è stato allestito il solito bel albero di Natale e soprattutto sotto quelle belle fronde sono arrivati tanti, tanti pacchi. Come ogni anno. Oddio non che i pacchi alla fanciullina Italia vengano recapitati solo il 24 dicembre, gliene arrivano durante tutto l’hanno ma nel periodo natalizio un po’ di più. La maledizione della tradizione.
Tanta dovizia è imbarazzante e magari, pensando al resto del mondo si vorrebbe un po’ più di perequazione che, in fondo, non è bello fare la parte dell’egoista. Il fatto è che i pacchi la fanciulla Italia li attira come neanche il miele riesce con le api. Però sono tutti dei pacchi sfiziosi e originali.
Senza volere aprirli tutti in questa vigilia qualcuno lo si può pure spacchettare tanto entro breve ne arriveranno altri.

Un pacco che si auto-sballotta: Alessandra Moretti.
Una vita spericolata che la porta dall’associazione studentesca al centro-sinistra poi contro il centro-sinistra e di nuovo con il centro-sinistra: entra in comune, a Vicenza come vicesindaco.. Ma sa sballottarsi a dovere e quindi direzione nazionale Pd e portavoce di Bersani contro Renzi: entra in Parlamento. Qui nuova capriola: folgorata da Renzi, esce dal parlamento italico per sistemarsi in quello europeo. Ma anche qui sta poco il nuovo approdo è la Regione Veneto: capogruppo del Pd. E già questo è un bel pacco, ma non basta. Succede che il giorno della discussione del bilancio abbia un calo degli zuccheri e si ammali, c’è poco movimento in Regione, e allora per guarire, al posto della solita aspirina una bella terapia d’urto: un volo verso l’India dove la aspetta un matrimonio e la guarigione è dietro l’angolo. Anzi guarisce in volo: miracolo. Che se fosse sempre così Alitalia guarirebbe da sola. Comunque con sprezzo della banalità posta una foto su Instagram: si dimette da capogruppo per proteggere il gruppo, dice. Ma non è stato il gruppo a scavallare la seduta di bilancio.

Un pacco autolesionista: Virginia Raggi
Che sarebbe diventata sindaco di Roma lo si sapeva da mesi, come dire che c’era tutto il tempo di prepararsi, vagliare la squadra e scegliere, cum grano salis, assessori e collaboratori. E nella peggiore delle ipotesi c’era anche il tempo per il classico “mercato delle vacche”. Ma così sarebbe stato tutto facile e allora giù minchionate a “go-go”. A furia di voler essere diversi dagli altri si finisce che si è proprio come gli altri, quelli più tarlucchi. Un assessore in quella giunta non fa in tempo a sedersi che già se ne deve andare. E se rimane un po’ di più gli arriva un bel avviso di garanzia. A questo punto al sindaco Raggi (e anche al Movimento5Stelle)  non resta che pigiare il bottone dell’autoespulsione e lasciare il cerino in mano ad altri: meglio temprarsi a lungo con l’opposizione piuttosto che provare a gestire l’ingestibile. A meno di essersi preparati a dovere.

Un pacco vacanziero: Roberto Formigoni
Il Formiga o il Celeste, come lo chiamavano ai tempi del massimo fulgore, non è mai stato ballerino come la Moretti e neppure impreparato come la Raggi. Sempre fermo con Comunione e Liberazione. Forza Italia e Ncd per lui sono solo schermate. Il Formiga è ferratissimo in ogni scienza, specie quella sanitaria. Unico punto debole la memoria non sa mai dove lascia l’agenda e senza quella perde le tracce e non ricorda dove ha passato le vacanze e su quale yacht. Così come dimentica di possedere ville ed appartamenti e qualche soldarello qua e là. A queste lacune hanno cercato di porre rimedio i giudici del tribunale di Milano: l’hanno condannato a sei anni di reclusione e sei anni di interdizione dai pubblici uffici. La motivazione:  «Sottraeva soldi alla sanità pubblica, che sarebbero serviti a curare i cittadini milanesi, per fare la bella vita tra ville in Sardegna e vacanze in barca.» Per adesso è ancora a piede libero e continua a presiedere la Commissione Agricoltura del Senato. Anche qui ci deve essere un nesso esoterico tra sanità-barche-ville-in-Sardegna-e-agricoltura. Come non vederlo.

Un pacco che ha cinquanta anni: la Salerno Reggio Calabria
E così Renzi Matteo è venuto, ha visto, ha promesso e ha sistemato. Ma non ha inaugurato. Ci ha pensato il suo vecchio amico Graziano Delrio. Da oggi l’autostrada è stata nomata A2 e come soprammercato si fregia pure del titolo di autostrada del Mediterraneo. Dopo oltre cinquant’anni dall’inizio l’infelice strada ha finalmente un punto di arrivo. E adesso tutti, o quasi, sono contenti. Il fatto è che tra l’inizio e la fine  stanno ben inquattate tutte le magagne: guardrail vecchi di cinquant’anni, buche nell’asfalto e rappezzi. Naturalmente non mancano i cambidi carreggiata mentre invece è assente la corsia di emergenza. Per non farsi mancar nulla c’è pure il trucco: tre lotti sono stati esclusi. Sono diventati ordinaria manutenzione. Se si tolgono pezzi il puzzle si termina prima ma ovviamente non è finito.

Sotto l’albero di natale ci sono ancora molti pacchi da spacchettare ed altri ne stanno arrivando e dunque non c’è da preoccuparsi è storia di sempre.

lunedì 19 dicembre 2016

Roberto Giachetti e la sineddoche alla direzione del Pd.

Scandalo e turbolenze alla direzione nazionale del Pd ma non per la sconfitta referendaria. E neanche per altre simili bagatelle. Giachetti Roberto cerca un francesismo e si imbatte nella parte anatomica che congiunge la schiena alle gambe. Sussulti e turbamenti. Maria Elena Boschi non è svenuta: non conosceva il termine.

on.Roberto Giachetti, 4 legislature, ex radicale-verde-marghrita

Grande scandalo domenica 18 dicembre alla direzione nazionale del Pd. Si sono registrati svenimenti, ululati (da parte della minoranza), sbertucciamenti (da parte della maggioranza) e anche un richiamo dal tavolo della presidenza. Nonché mani tra i capelli del capo dei capi, Renzi Matteo, uomo morigerato che della aurea mediocritas ha fatto il suo habitus. Quando si manifestano situazioni a dir poco scandalose è normale che queste siano le reazioni della platea.

Platea affollata quella della direzione piddina composta da oltre mille delegati che partecipano al rito con in petto il sacro fuoco della passione per il radioso futuro. Dunque scandalo. Ma perché? Forse perché il capo ha perso la battaglia che lui stesso aveva definito madre di tutte le battaglie? No, Forse perché lo capo stesso non ha mantenuto la parola di monacarsi dopo la sconfitta? No. Forse perché lo medesimo capo ha pervicacemente tentato di ribaltare le logiche della matematica nel dimostrare che è meglio avere il 40% invece del 60% andato agli altri? No. Forse che ha preso la parola tal De Luca Vincenzo che è stato tra primi a dileggiare il capo sconfitto? No. Nulla di tutto ciò.

Colpevole dello scandalo fu Giachetti Roberto, renziano della primissima ora, ex aspirante, anche se riluttante, alla poltrona di sindaco di Roma. Con il suo intervento il Giachetti Roberto intendeva stigmatizzare la posizione assunta da altro Roberto che di patronimico fa Speranza. Da notare la non voluta parziale omonimia. Al dunque il Giachetti Roberto preso posto sul palco ha taciuto per qualche istante, attirando l’attenzione del popolo tutto,  chiaramente si intendeva che la sua fervida mente era alla ricerca di una figura retorica, magari anche un francesismo, che gli consentisse di colpire (verbalmente s’intende) lo Speranza Roberto. 

Il caso o forse l’appassionata e profonda cultura dantesca che lo contraddistingue l’ha portato invece a citare quella parte anatomica che congiunge le gambe alla schiena. Già il sommo Alighieri ne fece uso, nel’ottavo cerchio, quinta bolgia, quella dei barattieri ovvero coloro che si sono macchiati di “astuzia truffaldina”, cosa vuol dire il caso, laddove dicendo del dimonio Barbariccia scrisse  «ed elli avea del cul fatto trombetta» E così, forse anche in omaggio al capo che è di Firenze, pure se del contado, se ne è uscito con: «Roberto (nel senso di Speranza) hai la faccia come il culo.»  

All’udire il vergognoso termite molti gentiluomini sono sobbalzati e altrettante gentildonne hanno avuto mancamenti, talune addirittura svenimenti. Non la sottosegretaria Maria Elena Boschi che ha ruotato gli occhioni in un moto interrogativo chiedendo spiegazione: pare non avesse mai udito simil vocabolo. Resa edotta ha guardato il capo ed avendone avuta autorizzazione è svenuta.

Il casus belli dell’aforisma giachettiano è stato il plauso manifestato dallo Speranza alle parole del capo quando questi ha proposto l’inopinato ripescaggio del metodo elettivo detto mattarellum. Metodo a favore del quale, nel 2013,  il Giachetti Roberto combatté ad oltranza utilizzando l’arma che lui, ex radicale ancorché convertito al renzianesimo, conosce meglio: il digiuno. Digiunò il Giachetti per ben due volte, la prima addirittura per 123 giorni, dopo aver presentato una mozione che i suoi stessi sodali piddini avevano sdegnosamente respinto di recupero di quel metodo elettorale. Guarda caso il capogruppo alla camera del Pd era proprio quello stesso Speranza Roberto che adesso si dice d’accordo con il ripescaggio. Certo questo cambio di verso dello Speranza un pochino irrita e sembra anche un tantinello strumentale e sa di presa in giro. Di qui la frase del Giachetti che è stata ripetuta al plurale: «avete la faccia come il culo.» Facendo intendere, forse involontariamente, ma magari qualcuno si augura di no, che l’aver citato lo Speranza era solo un esercizio di sineddoche. Laddove si cita la parte per il tutto.

Sì, in effetti, a guardarla in questo modo l’incipit di Giachetti, collegato alla bolgia nella quale i barattieri ovvero come detto i portatori di “astuzia truffaldina” sono infilati nella pece potrebbe non sembrare proprio così fuori luogo. Come dire non solo lo Speranza. E per dirla tutta anche il Giachetti Roberto, quattro volte deputato, ex radicale, ex verde, ex margherita e finalmente Pd,  sta nel tutto.

sabato 17 dicembre 2016

Valeria Fedeli e Annette Schavan due donne quasi uguali.

Entrambe hanno fatto strada in politica: un mondo maschilista oltre il lecito. Entrambe hanno ricoperto la carica di Ministro della Istruzione. Entrambe sono inciampate in un piccolo incidente, ma qui le similitudini cessano. I diversi comportamenti loro e di Merkel e di Gentiloni.

Senatrive Valeria Fedeli Ministro dell'Istruzione e Ricerca

Alcuni si domanderanno chi è Annette Schavan, se mai l’hanno sentita nominare e si sforzeranno di ripescare nella memoria un qualche suo piccolo ricordo. Molto probabilmente con scarse possibilità di riuscita. Ma a breve verrà fornito un aiutino. Mentre invece di Valeria Fedeli forse qualcuno si ricorda. Sarà per quella sgargiante tinta rossa con cui colora l’enorme massa di capelli che porta a spasso per l’emiciclo del senato,  nel quale è stata eletta per la prima volta nel 2013. E magari, ma questi saranno molto meno, per il fatto di essere viceesegretario, pure vicario essendo stata quella più votata per ricoprire la carica. Un centinaio e briscola di senatori l’hanno preferita a Gasparri Maurizio e Calderoli Roberto come dire che con cotanta concorrenza ha vinto a mani basse.
Queste due donne Fedeli e Schavan hanno molto in comune sotto taluni aspetti e quasi nulla sotto altri. In comune oltre ad essere donne che si sono fatta strada in un mondo maschilista più del giusto, c’è che hanno dedicato la loro vita alla politica. Annette Schavan già dall’età di venti anni, è nata nel 1955, si è impegnata nella attività politica di Neuss, comune natale e poi lemme lemme ha scalato tutti i gradini della gerarchia del suo partito CDU Baden-Wurtemberg (regione dove si allevano meravigliosi cavalli) fino ad essere considerata nella rosa dei papabili per la carica di presidente della Repubblica Federale Tedesca.  Nel frattempo è stata un paio di volte ministro, ma di questo si dirà in seguito. Valeria Fedeli, da Treviglio, qualche anno di più, è del 1949, ha esordito nel mondo del lavoro come maestra giardiniera, si chiamavano così una volta le maestre d’asilo, alle dipendenze del Comune di Milano. Ma con i bimbi ci è rimasta poco, è stata quasi subito folgorata dal sindacalismo. Prima come militante di base poi come distaccata alla segreteria provinciale della CGIL milanese per i lavoratori enti locali della sanità. Quindi allarga le sue competenze e si mette a rappresentare negli anni i lavoratori di pubblico-comunicazione-tessile. Che a leggerla così non si coglie immediatamente quale sia il filo rosso che leghi le tre categorie. Ma senz’altro ci sarà. Deinde per una decina d’anni a bagno maria come presidente del sindacato europeo sempre dei tessili. Infine dal purgatorio al paradiso: ecco arrivare, dopo una breve parentesi in Fedrconsumatori,la candidatura a capolista in Toscana, dove il Pd potrebbe far eleggere anche un gatto, per il Senato.  Di questo un po’ conosce le dinamiche essendo sposata con un ex senatore.
Oltro che colleghe le due Signore hanno entrambe hanno ricoperto la carica di ministro della Istruzione, la tedesca in virtù delle sue competenze mentre l’italiana, che in Senato fa parte della Commissione Difesa, per volere di chissà chi o come lei dice «Posso fare il Ministro anche senza laurea, hoo lavorato nel sindacato.» Che se bastasse questo ….
Entrambe, altra somiglianza, sono inciampate su un dettaglio. La Schavan, già laureata in Filosofia e Teologia, è stata accusata di aver copiato senza citarne la fonte una parte della sua tesi di dottorato (94 pagine su 325).  Mentre il contrattempo per la Fedeli è stato la scoperta che non è laureata come da lei affermato e pare anche che non abbia neppure affrontato l’esame di maturità. Mario Adinolfi dixit.
Dove invece le due Signore sono diverse è nel comportamento. Frau Schavan, dopo le ovvie verifiche da parte dell’Università di Düsseldorf, si è dimessa e Angela Merkel ha accettato le dimissioni. Non si può riporre la propria fiducia in chi non cita le fonti. Valeria Fedeli, invece ha dichiarato che l’essersi dichiarata laureata in Scienze Sociali è stata solo una «svista lessicale». Poi ha tolto la dizione dal suo sito web e infine non ha presentato copia del suo diploma di maturità. Che a farlo sarebbe stato semplice. Se il diploma fosse realmente esistente. Insomma un caso Oscar Giannino al femminile. In ogni caso il Presidente Paolo Gentiloni ritiene che si possa riporre fiducia in chi commette sviste lessicali.
A margine, ma solo come aneddoto, la senatrice Valeria Fedeli, ospite della trasmissione di Un Giorno da Pecora, ha dichiarato di non essere mai stata in un ristorante stellato perché «non me lo posso permettere» il che suona sgradevole. E anche un tantino ipocrita e bigotto per non dire da trinaricciuti conoscendo lo stipendio e il vitalizio di chi ha posato le terga negli scranni del Senato. Ma tant’è.

sabato 10 dicembre 2016

Gentiloni Paolo, Primo Ministro: la quiete dopo la tempesta.

Piace a tantissimi, in tutti i settori pure alla minoranza pd. Piace anche a Renzi, il che non depone a suo favore. Flemmatico, romano, battutistaa (quando è in forma) Per molti la risposta giusta dopo il (sedicente) ciclone Renzi. Non ha una corrente sua. L’ultimo errore perfetto di Renzi.

Paolo Gentiloni prossimo Primo Ministro

A questo punto della partita sembra proprio che Gentiloni Paolo, sessantadue anni, romano, sarà il sessantaquattresimo presidente del consiglio italico. Piace a tantissimi e in tutti i settori: anche alla minoranza del pd. Il che già di suo non è bello. La sua storia politica è tipica: parte dalla sinistra extraparlamentare per atterrare, come molti con la sua storia, nella Margherita, occulta neo democrazia cristiana, per poi trascinarsi nel Pd. Neanche fosse il partito del compromesso storico. O forse sì.

Flemmatico quanto basta, il Gentiloni Paolo, ha l’aria del pacioso e gli piace far la rivoluzione per interposta persona: in gioventù stava con Mario Capanna (per intenderci l’attuale proprietario di un’azienda agricola che si lamenta per i pochi vitalizzi che percepisce) poi con Francesco Rutelli (ex radicale convertito, come ti sbagli) e quindi si aggancia a Renzi Matteo, democristiano dentro. Un percorso da manuale.  Come sempre si apprezza quello che non si ha e quindi Il Gentiloni va in solluchero per il vitalismo di Renzi. Bello, forse, da vedere ma certo non da praticare: troppo stancante. Non gli manca il senso dell’umorismo, fu lui a definire Renzi come “il bambino che mangia i comunisti”. Si era già dimenticato della sua antica militanza nel Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, appunto. Ma d’altra parte con l’età è normale perdere un po’ di memoria.

Stare con Renzi qualche frutto l’ha dato, non foss’altro che essere la seconda scelta per il ruolo di ministro degli affari esteri, dopo la Federica Mogherini, di vent’anni più giovane e certo senza grandi meriti da poter vantare. Accipicchia. Probabilmente di lui il Renzi Matteo apprezza di non avere la smania di apparire, la flemma e soprattutto lo scarso o  quasi nullo peso politico. Dentro e fuori il partito. Quando si è candidato alla carica di sindaco di Roma è stato sonoramente battuto pur vantando una precedente esperienza come assessore della capitale. Alle primarie del suo partito è arrivato terzo su tre. Analogo risultato hanno ottenuto le sue proposte politiche parlamentari: fallita la sua riforma del sistema televisivo, fallita la riforma della Rai, fallita la proposta di registrazione dei siti internet. Ma la sua dote migliore, agli occhi di Renzi è di non avere  dalla sua non si dice una corrente di proprietà, ma neanche uno spiffero. Il candidato perfetto, per Renzi. L’ultimo errore perfetto di Renzi.

Il Gentiloni Paolo con quella sua aria da “capitato lì per caso” è considerato da tutti un innocuo e per questo riesce a pescare molte simpatie in quasi ogni schieramento e ad ogni livello. Probabilmente in molte stanze quando s’è fatto il suo nome si sarà pensato e magari detto «passata è la tempesta.» e qualcuno tra i più dotti avrà aggiunto «odo augelli far festa e la gallina, tornata in sulla via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno.» Appunto. la gallina tornata in sula via.

Cioè il ritorno calmo calmo, quieto quieto, del vecchio metodo democristo ma anche ex piciista alla Napolitano, che annacqua, ammorbidisce, un po’ tira e un po’ cede. E questa cosa agli assisi sugli scranni del Parlamento piace. Eccome. Chi meglio del flemmatico Gentiloni per imbrigliare e disfarsi del casinaro Renzi? Probabilmente fra i renziani di ultima e penultina generazione e magari anche di quasi prima, ad eccezione di quelli che sono per il ridotto in Val di Chiana, starando già preparando i bagagli per il nuovo trasloco. E dotare il tranquillo Gentiloni di una corrente, a sua insaputa. Naturalmente.

In molti hanno in mente il cardinale Giuliano della Rovere che si dava per malato e sul punto di schiattare all’inizio del Conclave per poi dimostrarsi in ottima salute e guerreggiante alla grande col nome di Giulio II. Però il della Rovere era ligure, gente ispida e dura. Sulla guerra con il Gentiloni non si corron rischi anche perché, curiale di famiglia e democristo di ritorno, preferirà alle spade le più placidi e micidiali tossine che dai morti non lasciano fuoriuscire sangue raggiungendo lo stesso risultato. Quindi non si ergerà come l’antico Giulio II ma quatto quatto farà la sua battaglia in proprio e magari senza apparire. Da democristiano, doroteo mannaro, non avrà neppure bisogno di bisbigliare il mefitico «Matteo stai sereno»

domenica 4 dicembre 2016

Referendum: domenica 4 dicembre ancora poche ore di silenzio.

Dopo duecentoquaranta giorni fa bene alla salute non sentire parlare i politici. Ci si dovrà sorbire le solite processioni dei votanti eccellenti, sempre sorridenti, mentre fanno cadere la scheda nell’urna. Ma saperli tacenti, anche per poche ore, sarà un sollievo. L’unico rammarico è che tanta grazia caschi in una giornata uggiosa. D’Alema fa sapere che la Madonna voterà NO.

Dopo otto mesi di sfiancante e noiosa campagna referendaria finalmente un week-end tranquillo il giusto. Sabato è ormai passato e il silenzio di quelli del palazzo è stato assai apprezzato quasi come una elargizione clientelare. Ancora poche ore di quasi pace: i telegiornali si concentreranno su episodi di cronaca nazionale e un occhio in più ai fatti internazionali. Avremo ancora l’Annunziata, con i suoi congiuntivi claudicanti si sperava di scamparla, ma d’altra parte non si può avere tutto. In compenso saremo  puntualmente informati, sebbene con alcune ore di ritardo,  sull’afflusso dei votanti. E ci verranno mostrati politici sorridenti  mentre infilano la scheda nell’urna. Che c’avranno poi da ridere non si sa né mai lo si saprà lo si può solo immaginare. Però il loro silenzio sarà accolto con gratitudine. Quasi infinita.

Gli uffici comunicazione e i consiglieri dei vari big avranno passato le ultime ore ad almanaccare se sia più conveniente recarsi al seggio di prima mattina, o a mezzogiorno. Andarci nel pomeriggio non fa audience come sa bene Sergio Mattarella che per il referendum sulle trivelle (quello per il quale il governo invitava democraticamente a non votare) s’è recato al seggio quasi quando stava per chiudere. Il comportamento presidenziale era barcamenante e fece passare l’anodina comunicazione che non mancava  al dovere di ogni cittadino epperò neppure dava l’esempio. Che se questo arriva a tempo scaduto non fa testo.  Al confronto i più navigati esperti di cerchiobottismo risultavano incalliti  decisionisti. Senz’altro quelli che volevano far fallire il referendum avranno apprezzato.

E dunque, cosa fa migliore impressione sull’elettorato? Conviene andarci di prima mattina per dimostrare che alzarsi presto dà la cifra del senso civico e di amore di patria? O andarci in tarda mattinata e puntare sulla nazionale pigrizia che porta gli italici  a votare nel pomeriggio e  quindi fruire dei telegiornali delle tredici? Dilemmi shakespeariani con non incrineranno i comuni  ritrovati piaceri della domenica.

Senz’altro per queste poche ore si scavalleranno le banalità che hanno ammorbato gli ultimi duecentoquaranta giorni. Quindi non si vedrà la solita prezzemolosa faccia del presidente del consiglio imperversare ovunque e pure ci sarà risparmiato che lui, beato, non è come gli altri anche se ha tra gli amici li stessi di sempre. Non si sentirà parlare di futuro e passato e neanche di progresso e conservazione concetti dai confini oramai sempre più labili, Non si dovranno neppure sorbire le tavanate galattiche di quelli che pur avendo in schifo la riforma la voteranno. Tutti saranno felici di essere graziati dalle solite scemenze su killer e scrofe. E anche quelle sulle accozzaglie avendo dimenticato che l’accozzaglia madre di tutte le accozzaglie si chiamava CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) e fece la sua bella parte per togliere l’italietta cialtrona dai guai. Molto apprezzato il fatto che, per una volta, non si sia levato il grido: dio lo vuole. Anche se D’Alema ha raccontato che la Madonna è per il no. E c’è da credergli viste le sue innumerevoli apparizioni alla povera donna.

Restano solo due rincrescimenti: il primo è che tanta grazia cada in una uggiosa giornata d’autunno. Sarebbe stato bello non sentire le solite bischerate facendosi baciare dal sole. Il secondo: che come tutte le felicità anche questa è a termine: alla chiusura dei seggi tutto ricomincerà come prima. Però quarantotto ore di pace sono state impagabili.

giovedì 1 dicembre 2016

Prodi: non mi piace, ma la voto.

«Non siamo una Repubblica delle banane» tuonò l’Agnelli Giovanni. Ne aveva viste tante ma gli sono mancate le ultime supercazzole sul referendum costituzionale. I fulgidi esempi di Prodi Romano, Cacciari Massimo, Serra Michele, Benigni Roberto e penultimo in ordine di tempo Barca Fabrizio.



E così anche il Prodi Romano dalla tranquilla e banale storia personale: ex professore universitario, ex boiardo di Stato, ex presidente IRI, ex ministro, ex commissario europeo, ex presidente del consiglio ex (forse) aspirante presidente della Repubblica (anche se su quest’ultima carica una speranziella magari ancora la coltiva. Dicono le male lingue.) ha raccontato all’agognante italico popolo e anche ai suoi amici di Bruxelles come voterà il prossimo 4 dicembre al referendum costituzionale. L’ha fatto dopo aver giurato e spergiurato, lui cattolico e democristiano dentro, che mai l’avrebbe detto neppure sotto tortura.  Della tortura non c’è stato bisogno, devono essere bastate due tazze di camomilla per eccitare tanto ardore.

Ha comunicato, il Prodi Romano, il suo voto futuro con parole chiare e nette che non lasciano scampo ad alcuna interpretazione: «Anche se le riforme proposte non hanno certo la profondità e la chiarezza necessarie, tuttavia per la mia storia personale e le possibili conseguenze sull'esterno, sento di dovere rendere pubblico il mio sì, nella speranza che questo giovi al rafforzamento della nostre regole democratiche soprattutto attraverso la riforma della legge elettorale». Dove le vere parole chiave stanno in quel «non» iniziale e «nella speranza». Il resto fuffa. Al solito tutto e il suo contrario. Se la riforma vincerà e sarà in futuro un fallimento quest’anima bella potrà giustificarsi sostenendo «L’avevo detto che non era profonda e io speravo.» Come dire che andando al ristorante si mangerà una pietanza avariata nella speranza che questo giovi al miglioramento delle abilità dello chef. Complimenti.

A onor del vero il Prodi Romano è solo l’ultimo in ordine di tempo a cimentarsi in questa supercazzola con scappellamento a destra. A chi dare la primogenitura sul referendario ossimoro vien difficile poiché in tanti si son cimentati a partire dal Benigni Roberto che riuscì a dire nello stesso discorso quanto fosse scritto male il nuovo testo e che la costituzione attuale «farebbero bene ad attuarla invece che cambiarla» per poi concludere che avrebbe votato a favore del cambiamento. Quasi negli stessi giorni anche il filosofo Cacciari Massimo si esprimeva: « Puttanata di riforma ma poi voterò sì» Quindi è stata la volta dell’amacante Serra Michele «Ora la sola idea che qualcosa accada è più convincete dell’idea che quella cosa possa essere sbagliata.» Ultimo, ma solo in ordine di tempo, Barca Fabrizio. Con un memorandum confuso il giusto, dove mischia sentimento e ragione, un elefante e un cavaliere, porta tanti e tali argomenti logici per votare NO che conclude dicendo che barrerà la scelta a favore della riforma. Manca ancora un giorno al silenzio di riflessione e dunque vive ancora la sentita speranza di veder spuntare qualcun altro fino a ieri nemico acerrimo della riforma dichiararsi a favore.

Chissà se l'Agnelli Giovanni, studi in giurisprudenza e poi seggio da senatore a vita, si sentirebbe ancora di pronunciare con l’aria di quello ferito nell’orgoglio: «Non siamo la Repubblica delle babane.» Lo disse in occasione di una delle tante critiche rivolte dalla stampa straniera a Berlusconi Silvio, fulgido esempio di eleganza e bon ton istituzionale. Fare cu-cù con la sua maestria è ancora atto inarrivabile pure se il giovin virgulto Renzi Matteo ci si sta velocemente avvicinando neanche avesse gli stivali delle sette leghe.

Non siamo la repubblica delle banane, pur tuttavia c'è sempre qualcuno che con impegno ed una pertinacia fuor dal comune cerca di far coincidere l’immagine dello stivale a quella di una banana. Ovviamente flambé.

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http://ilvicarioimperiale.blogspot.it/2016/06/michele-serra-difende-roberto-benigni.html
http://ilvicarioimperiale.blogspot.it/2016/05/massimo-cacciari-e-michele-serra-non.html

lunedì 28 novembre 2016

E’ morto Fidel Castro e non l’ha ucciso la CIA

Per Fidel morire non deve essere stata una decisione particolarmente difficile. La CIA ha cercato di ucciderlo oltre 600 volte ispirandosi ai film di James Bond e anche di James Tont. Nei 57 anni castristi Cuba ha esportato zucchero, militari in Angola e medici in Venezuela: contraddizioni dadaiste. Adesso a Cuba si dicono addolorati ma il dolore quando è vero ha percorsi carsici.

La CIA voleva ucciderlo con un sigaro esplosivo

All’età di novant’anni, il 25 novembre 2016, Fidel Castro ha deciso, sua sponte, di morire. Come tutti quelli che sanno di essere immortali. Non deve essere stata la sua una decisione particolarmente sofferta, aveva già visto tutto e quello che andrà accadendo da adesso in avanti probabilmente non lo interessava molto. O tutto sommato lo riteneva un già visto.

Per cinquantasette anni ha tenuto testa alla più grande potenza economica e militare del mondo stando su un’isola grande poco più della metà della Florida e con una popolazione equivalente per numero alla sommatoria degli abitanti di New York e Los Angeles. Praticamente un mosquito    davanti ad un grande elefante dalla pelle durissima. Ha visto sfilare dieci presidenti americani che hanno mostrato a lui e al mondo, tutto e il contrario di tutto, quindi quelli nuovi che verranno da Trump Donald a seguire difficilmente potranno aggiungere granché alla creatività di corbellerie e cose serie che questi sono riusciti a mettere in scena.

Per quanto se ne sa non si è arricchito, altrimenti la CIA lo avrebbe raccontato al mondo con una tale quantità di dettagli che al confronto Edward Snowden avrebbe fatto la parte dell’omertoso. I suoi figli, che sono undici, di cui due vivono (o sono scappati) negli Usa, non hanno dato scandalo. Del primogenito Fidelito si sa che è un fisico nucleare, di Alex, il secondo che fa il fotografo  e di altri due, Ciro e Antonio che sono medici sportivi. Della moglie, Dalia Soto, sposata in seconde nozze nel 1961,ci saranno in giro quattro o cinque fotografie. A dir tanto. 

La CIA non potendo colpirlo con l’arma degli scandali ha cercato di fargli la pelle seicento e passa volte dimostrando una creatività che in più delle volte è scivolata nella farsa. Le teste d’uovo dell’intelligence hanno pensato di ucciderlo con un sigaro imbottito di dinamite, con bombe nascoste nelle conchiglie, Fidel amava le immersioni, con pillole propinategli da sue amanti, con caramelle e soft drink avvelenati. E anche con una bomba nascosta dentro una palla da baseball. Fidel amava anche il baseball. Tutte idee che avrebbero fatto la loro bella figura in un film di Totò. Ci hanno provato anche con dei killer e con la dinamite (sempre lei) nascosta sotto un palco in occasione di un comizio. Evidentemente quelli della CIA si sono spesso ispirati a James Bond qualche volta a James Tont (interpretato da Lando Buzzanca) senza tener conto che si trattava di film che a vederli non si può che ridere.

Fidel vendeva a Mosca zucchero, sottocosto, ed acquistava petrolio, tanto da accumulare solo con l’Urss un debito enorme, 35 miliardi di dollari, la gran parte dei quali è stata investita in istruzione e sanità. Non capita spesso. Anche se qualche soldarello, c’è da pensare, sia finito, ça va sans dire, in armamenti. Oltre allo zucchero Fidel ha esportato militari in Angola e medici in Venezuela. Che le due cose apparentemente non stiano insieme dice solo della vena dadaista che anima i rivoluzionari ed il capo dei Barbudos non sfuggiva alla regola. Già il fatto di darsi questo nome qualcosa voleva pur dire. E Barbudos fu anche una squadra di pallacanestro nella quale giocava anche Fidel. Così come non ha mai dato fastidio al Buena Vista Social Club. Perché la rivoluzione non sarà un pranzo di gala, ma può avere dei lati divertenti. Volendo.

Con la fine dell’Urss e dei finanziamenti che di là arrivavano qualcosa è cambiato: reggere all’embargo sempre più duro e poi alla riduzione delle rimesse dai cubani espatriati è stato più difficile. Per un po’ ha supplito l’amicizia di Chavez ma con il calo del prezzo del petrolio la dittatura (così si dà soddisfazione anche agli anticastristi) ha dovuto aprirsi almeno un po’. Quindi un po’ di produzione privata, un po’ di commercio privato, un po’ di doppia moneta (peso e dollaro), un po’ di possibilità per chi lo voleva di andarsene, un po’ di turismo, anche dagli Usa, un (bel) po’ di corruzione e un (bel) po’ di prostituzione. Talvolta succede di passare dal modello “ una dignitosa povertà”  quello “l’arte di arrangiarsi. Ttalvolta poi si scopre che il risultato ottenuto è peggiore dello status quo ante. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. E quando questo accade tornare indietro non è facile.

Certo è che Fidel e il suo compagno Che hanno fatto sognare per un bel po’ di tempo i baby boomer di mezzo mondo e quando il sogno è bello vien duro fare i conti, che pure vanno fatti, con la realtà. Adesso sembra che i cubani siano molto dispiaciuti ma il dolore quando è vero ha percorsi carsici quindi si tratterà di aspettare un pochetto per vedere se Cuba tornerà ad essere il paese dei balocchi degli yankee o troverà la forza per riprendersi. Magari apportando qualche correzione non tanto al disegno quanto alla forma della sua realizzazione.

In ogni caso Fidel aveva già visto le due varianti e dal suo punto di vista è stato sufficiente.

lunedì 21 novembre 2016

Renzi cambia verso con De Luca

A Caserta Renzi perdona De Luca per il ritardo ma gli intima di non parlare. Renzi ha imparato ad accendere il fuoco con i bastoncini. De Luca accende il fuoco elettorale con fritture miste e giri in barca. Disprezzo per gli elettori e ironia per il premier. Elogio del clientelismo. Serracchiani, Romano, Fiano, Morani e gli altri pasdaran renziani tacciono.

De Luca Vincenzo mostra a Renzi Matteo la strada

Quando in quel di Caserta De Luca Vincenzo è arrivato tutto trafelato all’ennesima manifestazione pro riforma tenuta dal Renzi Matteo è stato accolto da un: «Vada per il ritardo, basta che non fai dichiarazioni» E questa è stata l’unica novità dell’intera manifestazione. Un bel cambio di verso. Non c’è dubbio. Finalmente si dà un pochino di concretezza a quell’impegnativo slogan perché cambiare di verso non è come dirlo.

D’altra parte in un discorso ripetitivo il giusto in cui Renzi ha raccontato per l’ennesima volta che c’è il nuovo ed il vecchio, che c’è chi vuol cambiare (lui) e chi invece no (gli altri), che lui «non  è quello che …», al posto dei puntini metteteci quello che volete che tanto va bene qualsiasi cosa e infine che tutti  ce l’hanno con lui, un guizzo di originalità ci voleva. E sentirgli parlare a De Luca in quel modo è stato un vero cambio di verso. Forse si è accorto che non sempre il De Luca fa ridere. Anche se ci si mette d’impegno.

In verità per un boyscout di provincia il cambio di verso è stato trovarsi a braccetto con un vecchio comunista, oggi ex come tanti, con la spiccata tendenza al clientelismo: «Una clientela organizzata, scientifica, razionale come Cristo comanda. Ah, che cosa bella!» Certo Robert Baden-Powell questo incontro di amorosi sensi non se lo sarebbe aspettato, ma d’altra parte lui insegnava ad accendere il fuochi con i bastoncini mentre De Luca accende il sacro fuoco del renziano nuovo invitando il suo amico Franco Alfieri a raggranellare qualche voto offrendo delle fritture miste. Il che dimostra quanto siano tenuti in conto dal De Luca gli elettori campani. Gente pronta a farsi convincere a votare  questo o quello in cambio di miserie. Al confronto il comandante Lauro era un ingenuo spendaccione, regalava chili di spaghetti e scarpe, ma quella era l’epoca del boom economico. Oggi si è un po’ più tirati.

Tirati sì ma poi neanche tanto se è vero che con il suo amico De Luca il giovane Renzi, questa volta nei panni di presidente del consiglio, è stato estremamente generoso: ha dato 270 milioni di euro per Bagnoli, altri 500 per la terra dei fuochi e poi ancora 50, sempre milioni, non si sa a che titolo, ma il De Luca Vincenzo ha garantito che ci sono. E se lui dice che ci sono ci sono per davvero. E ancora 2 miliardi e 700 milioni per il Patto per la Campania. E poi promesse di finanziamenti per Caserta, Pompei, Ercolano e via dicendo. Pare proprio che tra il Renzi ed il De Luca scorra un fiume di denaro pubblico. Ovviamente per il bene del popolo.

Però se questo è amore non è esattamente a doppio senso infatti De Luca è un pragmatico che bada al sodo: «Vi piace Renzi non vi piace Renzi a me non me ne fotte un c… » E dimostra neanche tanto tra le righe di considerare il giovin fiorentino un po’ giuggiolo e si gongola facendo l’elenco dei vari finanziamenti. Ogni voce è stata chiosata con un: «E ce li ha dati» per chiudere con un «Che vogliamo di più?» Proprio come se stesse parlando dell’amico un po’tarlucco a cui si possono spillare soldi e favori a iosa.


Anche se vedere il Renzi Matteo nella parte del fesso viene difficile considerandolo un bel furbetto. Se quei quattrini ha rilasciato con tanta facilità ci sarà, forse, magari, può essere, un vago ma senz’altro non personale o politico tornaconto. Chi mai potrebbe sospettarlo? E anche questo è un bel cambio di verso: passare dalla rottamazione delle vecchie cariatidi all’elogio del clientelismo. Che di nuovo ha proprio poco.  Naturalmente di tutto ciò Andrea Romano, Emanuele Fiano, Alessia Morani, Alessandra Moretti e quel campione di renzismo che è Ernesto Carbone non parlano. Zitta  anche la Serracchiani. Come ti sbagli.

martedì 15 novembre 2016

Berlusconi si mangia Parisi

Svergognamento pubblico di Parisi da parte di Berlusconi. Nello scontro Parisi-Salvini solo questioni personali. Alla domanda:«Compreresti un’auto usata da quest’uomo?» Parisi ha risposto sì. Da chi ha passsato trentadue anni passati ad occupare poltrone ci si aspetta più comprensione del contesto. Ha iniziato nel centro studi della Cgil. In quota socialista.


E così il vecchio caimano si è pappato anche l’ultimo ovetto della sua nidiata: Stefano Parisi. Oddio i caimani dovrebbero cibarsi di anfibi, uccelli marini e pesci, specialmente di boccaloni, ma al caimano andare a caccia fuori dal suo ben protetto territorio non è mai piaciuto e poi per dirla tutta non ne è neanche capace. Quando l’ha fatto per poco non ci ha lasciato le penne. Pardon le squame.

Ad occhio e croce il caimano si è già sbaffato altri tre aspiranti caimanini, nell’ordine: Casini, Fini e Alfano, i primi due volevano fargli le scarpe mentre al terzo mancava il quid e con Parisi arriva al quarto. Come dire che non c’è due senza tre e il quattro vien da sé. Senza contare tutti quegli altri minori che con mirabili giochi di sponda ha, di volta in volta, innalzato e affossato nelle stanzette delle cene eleganti. Ma non si può tenere la contabilità di tutto.

Il Parisi Stefano è stato liquidato in diretta durante la trasmissione Radio anch’io, con una frasetta tanto maligna quanto vigliacca che d’altra parte questo è lo stile. In sostanza il Berlusconi Silvio s’è limitato a registrare con fare notarile: «Non ci sono rotture definitive ma scontri personali Parisi sta cercando di avere un ruolo nel centro destra ma avendo questa posizione di contrasto con Salvini credo che questo ruolo non possa averlo.» Dove nell’ordine ha detto che, primo: non si tratta di politica e tanto meno di visioni strategiche sul futuro dell’umanità o più modestamente del mondo, quanto poi a weltanschauung neanche a parlarne. Che poi per spiegarne e soprattutto farne capire il senso ci vorrebbe la pazienza di Giobbe. Quindi come dire baruffe da comari per obiettivi, ad essere leggeri, miserabili. Secondo: il Berlusconi la mette come se il Parisi si fosse autocandidato ad avere un ruolo nel centrodestra. Che tanto valeva dire che il Berlusconi ha dovuto patire le insistenze del Parisi cui ha accondisceso solo per pura bontà d’animo. Raccontano in verità le cronache che invece sia accaduto il contrario: che il Berlusconi abbia condotto una serrata corte al manager, ex sinistra socialista, finché questi non ha ceduto correndo per la poltrona di sindaco a Milano . E, terzo ed ultimo: da oggi il dottor Parisi può con certezza sentirsi scaricato. Il tutto raccontato con l’aria del vecchio nonno che guarda l’evolversi di un mondo che non ha mai frequentato né conosciuto.  In altre parole lui, il Berlusconi si presenta come innocente anima candida. Come ha sempre fatto ogni volta che ha dovuto giustificare fallimenti: la colpa è sempre degli altri. Come ti sbagli.

E fin qui da stupirsi, per dirla con onestà, c’è poco, il Berluconi ha abituato gli italici a vederlo giocare su tavoli diversi e sempre con l’aria di quello che è capitato lì per caso e che per bontà d’animo si assume la responsabilità di salvare l’umanità tutta. Quindi su questo versante sorpresa zero. Poco perplette anche il fatto che scafati politici, Casini, Fini ed Alfano ci siano cascati: l’ambizione chiude gli occhi anche ai più smaliziati. Mentre invece fa restare allibiti che abbia abboccato come un pesce uno dell’esperienza di Parisi che da quando aveva 28 anni, era il 1984, non ha fatto altro che occupare ruoli apicali passando da una segreteria all’altra di Ministeri (Lavoro, Esteri, Poste) e di Dipartimenti (prima Affari Economici  e poi Informazione ed Editoria della Presidenza del Consiglio e via dicendo) e del collegio sindacale della RAI. E come non bastasse è stato City Manager a Milano e poi Direttore Generale in Confindustria dove si battè (ex sinistra socialista, nota bene) per l’abrogazione dell’articolo 18 e quindi AD in Fastweb, advisor in Royal Bank of Scotland e Ceo in Chili Tv. Il tutto in solo una trentina d’anni. Ha del miracoloso.

E allora tutto sommato al Parisi lo svergognamento pubblico (altro termine più appropriato ma meno educato sarebbe da usare) gli sta anche bene perché pare proprio che quei trenta e briscola anni passati a ballare  da una poltrona all’altra sempre con il grado di “capo” non gli abbiano insegnato granché. E quando gli han fatto la domanda: compreresti un’auto usata da quest’uomo, ha dato la risposta sbagliata. Verrebbe da dire "lo sventurato rispose". A capire che la proposta di fare il federatore era una fregatura ci voleva poco. Così come ci vuol poco a capire che Forza Italia non è una monarchia assoluta ma la sommatoria di baronie che si bilanciano tra loro. E il monarca è tale non per forza propria ma per la sommatoria di debolezze altrui.


Quasi ci si dimenticava di un dettaglio: Stefano Parisi ha iniziato nel centro studi della Cgil, in quota socialista. Ovviamente. Cigliegina sulla torta.

domenica 6 novembre 2016

Adesso Renzi ha un cupérlo per le sue pentole.

Gianni Cuperlo entra nel reality renziano. Dal gran rifiuto della presidenza del Pd al selfie  con la Boschi. L’aveva in qualche modo fatto intendere partecipando a «Un giorno da pecora» La parte che gli affidano: fare il coperchio. Forse era giusto giusto rottamarli.



Ancora una volta Renzi ce l’ha fatta: un altro della minoranza salta sul suo carro è Gianni Cuperlo. Mica facile. Anche se potrebbe sembrare, visto che in poco più  di due anni il Renzi si è acquistato la simpatia di tutti quelli che solo poco prima lo dipingevano come il peggio del peggio. Mentre adesso ex bersaniani, ex d’alemiani, ex veltroniani, ex rutelliani, ex vendoliani, ma anche ancora democristiani e ancora voltagabbana, questi buoni per tutte le stagioni e altrettanti vecchi arnesi dell’altrettanto vecchio Pci, ma abili saltatori della quaglia, ne sono diventati strenui supporter. attirano le luci della ribalta e la polvere del palcoscenico e nel reality renziano di luci e polvere ce n'è quanto se ne vuole, 

In parte del salto di Cuperlo ce lo si poteva aspettare dopo la sua partecipazione alla trasmissione radiofonica “Un giorno da pecora.” In quella confessò  che a lui il fiorentino Renzi è, umanamente, molto simpatico. Come dire che la guasconaggine attira la modestia e la cacciapallisia la timidezza. E così il Gianni, che come  Celestino V operò il gran rifiuto, alla fine ha ceduto. Una volta si può rinunciare alla presidenza del Pd, posto sul quale senza tema subito si è accoccolato tale Orfini, anche lui Matteo anche lui giocatore di playstation anche lui ex dalemiano, ma poi il fascino del pifferaio fa il suo effetto, Come la dolce Euchessina. Quanti gran rifiuti si possono pronunciare in una vita? E poi è difficile  rinunciare a stare comodi e tranquilli dietro le quinte Vuoi mettere la libidine di starsene soli soletti nella piccola stanzetta davanti a un foglio bianco con le matite ben appuntite a spremersi il cervello per far fare bella figura a chi ha commissionato il discorso. E avere la soddisfazione di sapere che gli applausi non sono per il recitante ma per il discorso? Applausi presi per procura. Bhé con Renzi questo ruolo non c’è. Troppo troppo raffinato e sofisticato il Cuperlo, cultura mittleuropea, per coprire con Renzi il ruolo dello scrivano.  Troppo rozzi e ripetitivi i discorsi del fiorentino per avere alla spalle un serio  ghostwriter. Odorano di autocitazioni: troppi gufi, troppo futuro, troppo nuovo, troppe ripartenze, troppa buona scuola, troppi cambio di verso, troppo leopolde, troppi numeri (che non tornano), troppo di troppo. 

E allora il Cuperlo che ci fa lì? Semplice: il coperchio. Il coperchio delle pentole che il Renzi sa costruire con una certa arte neanche fosse il diavolo. E dentro ci fa bollire autoreferenzialità, demagogia, sogni irrealizzabili, e anche un po’ di antipolitica d’accatto.  Così adesso Cuperlo si mette a disposizione per coprire a sinistra e magari anche giustificare e nobilitare De Luca, Carbone, Moretti, Morani, Pezzopane, Pinotti, Martina, Orlando, un tot d’altri e da poco anche Carla Cantone. Quest’ultima adesione un po’ a colpito non foss’altro perché si pensa che i pensionati, avendone viste tante, siano saggi. Ma un conto è la tradizione e un altro la realtà. E se al Renzi hanno creduto (o no?) i vecchi apparatiniki come può resistere un supposto ingenuo della mittleuropa? Comunque adesso anche Cuperlo è entrato nel reality e come prima scena viene girato l’abbraccio con Maria Elena Boschi. con immancabile selfie. Era giusto rottamarli.  


mercoledì 26 ottobre 2016

Gorino: il delta del Po come il delta del Mekong.

Aveva ragione Giambattista Vico ci sono corsi e ricorsi storici. La guerra di Gorino ricorda per l’ambientazione e e le parti in commedia quella del Vietnam. Come allora hanno vinto i guerriglieri. Alle dodici migranti dodici, di cui una gravida, è stato assegnato il ruolo dell’Agente Orange.

I guerriglieri di Gorino vincono come i vietcong di Ho Chi Minh

Con il caso delle dodici migranti dodici in quel di Gorino, frazione di Goro, la storia si ripete. Corsi e ricorsi storici diceva Giambattista Vico e aveva pure ragione. Anche se qualche volta ci si stupisce. Chi l’avrebbe mai detto di trovare nell’area urbana (le province ormai non ci sono più) di Ferrara una riedizione dell’epopea Vietcong? Gli elementi ci sono tutti: il delta, il tasso di umidità che ti circonda da tutte le parti, dal cielo, dalla terra e anche dal mare e ti attacca la camicia sulla pelle, un popolo che difende la sua libertà, con tanto di capo definito “con le palle”, un esercito nemico e anche, ma questo solo metaforicamente scrivendo, il terribile Agente Orange che può distruggere la vita del paese. E come non bastasse la notizia che rimbalza sui telegiornali di mezzo mondo proprio come quando il grande e grosso generale William Westmoreland, da West Point, se la vedeva con il piccolo e minuto generale Vo Nguyen Giap che invece ha fatto gavetta nella giungla. Autore tra l'altro di un agile trattatello dal titolo “Guerra di popolo esercito di popolo”. Comunque, mentre ci si fa prendere dai gloriosi ricordi, vanno adeguatamente distribuite le parti in commedia.  O forse farsa da avanspettacolo.

Il delta fa la parte del delta. Certo quello del Mekong è un pochetto più largo e profondo, ma del resto nei ricorsi storici non è che si può avere proprio tutto tutto e in ogni caso c’è quello che serve: dell’umidità s’è già detto, poi ci sono le zanzare, l’acqua dolce che si mischia alla salmastra, la sabbia e la corrente prorompente. Non manca neanche il rischio di finire risucchiati in qualche gorgo. E quindi il macro-contesto c’è. Ovviamente non può mancare il popolo che si batte per la libertà e per il futuro, proprio e dei figli, che come noto sono piezz’e core. Con il popolo, va da sè ci vuole anche un capopopolo e anche questo c’è: Nicola Lodi detto Maomo, leghista. Lui fa la parte del generale Nguyen Giap. Manca solo un Ho Chi Minh, ideologo colto e raffinato, capace di padroneggiare diverse lingue e dalle robuste letture, ma non si può chiedere troppo a quelli della Lega. Comunque non manca il “sentiero di Ho Chi Minh” con le sue deviazioni in questa rappresentato da un  paio di strade provinciali. Adesso che non ci sono più le provincie sarà un problema definirle, ma questo è un altro discorso. Al posto delle micidiali trappole inventate dai Vietcong che infilzavano gli yankee come polli ci sono più prosaici pallet, più maneggevoli, meno pericolosi, e pure di riciclo perché nella vita di tutti i giorni i vietcong del Po li usano per ammonticchiarci le vongole. E da queste parti non si butta niente. Evvabbé. Questo dalla parte dei buoni. Poi ci sono i cattivi.

Il cattivo per eccellenza è naturalmente lo Stato che ha la pretesa di distribuire i migranti sul territorio ed è rappresentato da un colonnello dei carabinieri accompagnato da una manciata di militi. Con un po’ di fantasia, che al novello Giap-leghista non manca, questi sono lì a rappresentare la VII° Forza Anfibia della United States Navy nonché i marines della 9° Marine Expeditionery Brigade e, per non farsi mancare nulla, anche la 173° Brigata Aviotrasportata. Anche se nessuno dei militi aveva la bandana e neppure si è pucciato nel Po' con il garand sopra la testa. Peraltro in questo periodo c'è il rischio di una polmonite. Il tutto coordinato dal Prefetto Mario Morcone nella parte del generale William Westmoreland il comandante, delle forze Usa nel sud-est asiatico, ovviamente lo sconfitto. E anche al prefetto non è proprio andata bene. Anche lui come Westmoreland ha fatto marcia indietro e si è arreso a poco più di un centinaio di guerriglieri. L’unica differenza è che non ha dovuto buttare in mare degli elicotteri. Con quel che costano. 

La potenza ancora una volta è nulla senza il controllo del territorio e soprattutto quando c’è la créme di un popolo che si batte per una giusta causa come la libertà. Nel ruolo dell’Agente Orange sono, per  sineddoche, dodici donne dodici di cui una gravida, con il fondato sospetto che siano d’avanguardia di altri poi quantificati in otto adolescenti. Totale: venti migranti. Questo plotoncino mignon potrebbe infatti annichilire l’intera popolazione di Gorino, 590 residenti, e quella di Goro 3828 abitanti. Per non dire dell’intera area di Ferrara.

Ah, dimenticanza: cos’è l’Agente Orange? Era così chiamato il defoliante (in seguito scoperto cancerogeno) usato dagli yankee per scoprire il sentiero di Ho Chi Minh. E dunque meglio colpire i poveri guerriglieri. E questo dovrebbero fare le dodici migranti dodici di cui una gravida. Vero che la storia si ripete?

lunedì 24 ottobre 2016

Renzi distrugge Equitalia con un cacciavite.

Un cacciavite può essere più rivoluzionario di una falce e di un martello. Soprattutto perché non picchia non taglia ma solo svita. La doppia anima del cacciavite svita e avvita. Il cacciavite come transustanziaione del Gattopardo. La fenomenologia del cacciavite.


«Datemi un cacciavite e vi cambierò il mondo» hanno sentito gridare da Matteo Renzi in una recente uggiosa mattina d’autunno. E così come si conviene ad ogni one-man-show in neanche un battito di ciglia è stato accontentato. Poi però quando il giovin virgulto fiorentino, segretario del Pd e, come giusto, Presidente del consiglio, s’è trovato l’utensile tra le mani non sapeva che farsene. Un cacciavite, si sa, vita e svita, non rottama, non picchia come un martello e neanche taglia come una falce. E quindi? In quel momento si è in po’ pentito di aver esternato con così grande foga un pensiero tanto profondo. E quindi si stava domandando che farci con il cacciavite quando, come illuminato, ha capito che un cacciavite può essere un meraviglioso ed efficace strumento di comunicazione. Pure anche di disinformazione di massa. E di questa seconda il Renzi Matteo è maestro impareggiabile.

«Il cacciavite - s’è detto il giovin signore - è la transustanziazione della metafora di Tomasi di Lampedusa. Il cacciavite ha doppia e contraria funzione avvita e svita. Tomasi ci ha messo centinaia di pagine per spiegare la sua tesi ed io smollando quattro viti rendo concreto il concetto del cambiamento che nulla cambia. Quassi quasi mi faccio scrivere un trattatello sulla fenomenologia del cacciavite. »

Così senza por tempo in mezzo ha lanciato una delle sue “grida” che al confronto quelle spagnole riportate dal Manzoni sono acqua fresca. L’idea di tornare al diciassettesimo secolo peraltro gli piacerebbe assai e un po’ è portato a pensarlo per via dei bravacci che si trova intorno, e soprattutto dei tanti don Abbondio che se ne stanno assisi nei palazzi e che si incontrano ad ogni angolo di partito e di parlamento. Pardon si intendeva dire: di strada.

Comunque adesso che il cacciavite c’è non resta che trovare la targa da staccare e cosa di meglio, idea geniale, che smontare quella di Equitalia. Ente inviso ai più e dalla pessima immagine. Al dunque Equitalia non ci sarà più. Cancellata, distrutta, annichilita. Senz’altro iniziativa gradita, popolare ed applaudita anche perché Equitalia ha dimostrato nei fatti, assai prima che l’idea venisse a Rossella Orlandi, qual è il lato oscuro del fisco.  Come dire che la pratica arriva sempre prima della teoria: prassi-teoria-prassi..E l’ha,sempre fatto, Equitalia, mostrandosi inflessibile con i deboli e rimediando figure di palta con i forti. Si ha ancora negli occhi come ha pignorato macchinari a piccole aziende, televisiori a pensionati, auto a commessi viaggiatori e come, per contro, quanto non è riuscita a combinare con i concessionari di slot e con Google. Tanto per dirne solo due.

Comunque svitata la targa di Equitalia e gettatala sul carretto dei robivecchi non resta che inneggiare al cambiamento. Evviva, evviva. Però, al solito, c’è un però. Cioè a dire che qualcuno le tasse dei morosi dovrà pur andarle a riscuotere e poi il personale resta lo stesso, «senza soluzione di continuità di trattamento e carriera» ha prontamente sottolineato il Zanetti Enrico, vice ministro all’economia che 8000 dipendenti sono una bella lobby. E anche le sedi rimarranno le stesse, salvo ipotesi di speculazione o come nel caso (definito “strano” dal Corriere della Sera) dell’Asl Milano che prima vende l’immobile dove ha sede per due cocomeri ed un peperone  e poi ne diventa affittuario.
Comunque ciance a parte, stesse sedi, stesso personale, stessa mission aziendale e verosimilmente gli stessi mezzi coercitivi di incasso anche perché la riscossione delle tasse non è un pranzo di gala. E poiché i soldi è meglio prenderli dove è più facile rispetto a dove sono realmente sarà la solita storia di sempre: forte coi deboli e debole coi forti. Dunque cosa cambia?

Il punto vero è: chi scriverà il trattatello sulla fenomenologia del cacciavite? Ci vorrebbe qualcuno buono per tutte le stagioni e qui c’è solo l’imbarazzo della scelta.

giovedì 20 ottobre 2016

Schiaparelli sconvolto da Obama e Renzi si schianta su Marte.

Anche i computer hanno sentimenti come aveva previsto Stanley Kubrick. Se sono solleticati. I discorsi allo state dinner sono stati esilaranti. Quando Renzi ha detto che i pomodori di Michelle fanno schifo. Schiaparelli s’è divertito da matti. Pensava di pigiare il clacson ha schiacciato l’acceleratore.

Il fatto è ormai noto, la sonda Schiaparelli si è sfracellata sul suolo di Marte avendo spendo i motori qualche secondo prima ti ammartare. Ora tutti gli scienziati del progetto e anche quelli del resto del mondo si stanno domandando come ciò sia potuto accadere. Quale la causa scatenante. La risposta c’è: la coincidenza tra le operazioni di discesa e lo state dinner Obama-Renzi. I computer non sono solo qualche chilogrammo di lamiera, silicio, plastica e rame, i computer, specialmente quelli con intelligenza artificiale, hanno anche sentimenti. E a questi reagiscono.

Ben lo sapeva Stanley Kubrick che l’aveva già previsto nel 1968, pure se aveva posposto gli accadimenti al 2001: persino i computer hanno una sensibilità. Non a caso Hal, il computer protagonista di 2001 Odissea nello spazio, si è comportato come molti uomini e molte donne si sarebbero comportati al posto suo. Ha fatto un errore e per rimediare ne ha infilati altri uno peggio dell’altro. Come fanno molti uomini e molte donne. Da qui l’espressione s’è pezo il tacon del buso.  

I computer hanno affetti e passioni, sono soggetti (quasi) alle stesse malattie degli umani, si raffreddano e si surriscaldano, sentono il caldo e il freddo nelle stesse estati e inverni e allo stesso modo, se sono solleticati ridono, se sono avvelenati muoiono, se patiscono un torto si vendicano. La cattiveria che gli è insegnata la mettono in pratica e saranno duri ed eseguiranno meglio le istruzioni ricevute. Ecco, tutto questo i costruttori di computer, algoritmi e intelligenze artificiali non lo considerano.

Schiaparelli non poteva sfuggire alla regola, lassù, ha captato qualche notiziario, a tutti piace quando si va all’estero essere informati dei fatti di casa. Fino a che ha visto (aveva anche la tv) che tutto procedeva normalmente: guerre, massacri, annegamenti, truffe, promesse di abbassare le tasse, aumento dell’occupazione e poi aumento dei licenziamenti e altre paccottiglie, Schiaparelli è stato sereno. Nessuno va matto per gli imprevisti. Era sicuro che quando fosse  ritornato sulla terra l’avrebbe trovata tale e quale l’aveva lasciata. Non si è preoccupato neanche quando ha saputo che l’ultimo dinner state di Obama sarebbe stato con Renzi: in fondo ci sta che per l’ultima cena uno si voglia divertire.

I problemi sono cominciati quando Schiaparelli ha sentito l’endorsement di Obama per le riforme renziane, politically correct ha pensato, poi quando The Commander-in-Chief ha detto che se  vince il NO non ci sarà una nuova edizione del diluvio universale, a cominciato a sorridere e gli sono saltati un paio di circuiti. Il discorso del Presidente del Consiglio è stato tragicomico: prima ha sparato incredible e thank you a raffica poi ha detto a Michelle Obama che i suoi pomodori fanno schifo quindi ha invitato tutta la famiglia a Firenze per mangiare un tost in un’osteria. A questo punto l’euforia di Schiaparelli è salita a livelli di guardia, neanche avesse bevuto  tre Negroni a stomaco vuoto. Quando poi ha visto la foto di gruppo con Agnese Renzi ficcata a forza dentro un vestito che meritava senz’altro ben altro phisique du role, ha perso totalmente il controllo e in quei momenti di risate pazze, mentre si batteva, metaforicamente, le mani sulle ginocchia e sganasciandosi a più non posso, pensando di pigiare il clacson ha schiacciato il tasto dell’acceleratore. Disastro. Schiaparelli era a pochi secondi dall’arrivo e si è sfracellato al suolo. Tutta colpa del fatto che quando i computer sono solleticati ridono.

Forse per le prossime missioni spaziali l’unica precauzione sarà togliere il senso dell’umorismo dalle intelligenze artificiali per non farli ridere e deconcentrare. Pensare di rendere meno ridicoli gli umani è mission impossible.