Ciò che possiamo licenziare

sabato 31 gennaio 2015

Con Sergio Mattarella vincono tutti. Per ora

Elezione lampo. Buona la prima con un risultato che va oltre le aspettative. Renzi, Bindi, Bersani, Fassina, Cuperlo ma anche Alfano e pure Fini e Brunetta, tutti accomunati nella vittoria. Vince anche la prima Repubblica. Perde solo Berlusconi e Dudù non si sa con chi sta.


Alla prima votazione vera, le precedenti tre facevano parte del teatrino della politica, Sergio Mattarella, giudice costituzionale è stato eletto Presidente della Repubblica.I voti a favore sono stati 665, ben centosessanta più del necessario. 
Non è stata una vittoria difficile e meno che mai sofferta, di fronte aveva il nulla. Non uno schieramento alternativo non un vero candidato competitore. Con Mattarella hanno vinto tutti. Cioè tutti meno uno: Silvio Berlusconi e una parte del suo partito. Neanche tutto.

Matteo Renzi è stato quello che ha vinto di più. Almeno apparentemente. Ha vinto perché ha dimostrato di saper ricompattare il partito e di esserne il capo. Ha vinto Rosy Bindi, che di Renzi non è stata fino ad oggi una supporter, e con lei tutti gli ex democristiani ed ex margheritini, Sergio Mattarella è uno dei loro. Ha vinto Pierluigi Bersani che con un solo faccia a faccia di quindici minuti con Renzi l’ha convinto a presentare Mattarella. E con lui ha vinto tutta la minoranza del Pd. Oltre a Fassina e Cuperlo anche D’Alema. E per quest’ultimo è stata un’esperienza quasi nuova date le poche volte che l’ha provata. Gli altri sono giovani ed hanno davanti tutto il tempo. Ha vinto Nichi Vendola che, a detta di Massimo Cacciari aveva il nome di Mattarella in testa da diversi mesi, ma non l’ha fatto per non “bruciarlo”. E inoltre ha dimostrato di poter essere un partner affidabile. Ha vinto Angelio Alfano, anche se continua a mancare del quid, ha mantenuto il posto ed ha dimostrato a Berlusconi quanto pesi un marginale. Ha vinto Giorgia Meloni e la sua banda di nostalgici sottotraccia dimostrando di saper mantenere il punto. Ha vinto anche Matteo Salvini pure se in modo sgradevole, ma la signorilità se uno non cel’ha non se la può dare. Hanno vinto un po’ anche i cinque stelle, così dice Grillo ed è inutile stare a contestarlo. Il fatto che siano irrilevanti ed inutili neanche li sfiora.  Hanno vinto i siciliani di ogni schieramento: il nuovo Presidente è un loro conterraneo. Ha vinto anche Gianfranco Fini intervistato da Ruotolo per Servizio Pubblico: una voce dall’al di là Ha vinto anche la prima Repubblica, quella che Renzi voleva (in passato) rottamare: il Presidente Mattarella viene da quelle parti. anzi è l’ultimo democristiano moroteo. Altri in giro non ce ne sono. Una rarità. .

Ha vinto pure Raffaele Fitto, poiché ha dimostrato a tutto il suo partito che le scelte fatte sul tema sono state fallimentari e che il turlupinatore massimo è stato turlupinato. Ha vinto anche Brunetta che ha sentenziato: «Avevo ragione e adesso che Berlusconi ha visto che avevo ragione mi darà ragione.» Piccola soddisfazione ma queste sono proporzionali all’altezza degli uomini. Il bello sarà vedere come Mattarella e Renzi coabiteranno. Ma c’è tempo.


In tutto questo ha perso uno solo: Silvio Berlusconi che s’è beccato una bella “sola” come quella che tirò agli italiani con l’abolizione dell’Ici e poi dell’Imu. Tanto per dirne due.. In più ha fatto arrabbiare le sue valchirie con in testa Santanché e Biancofiore. La Gelmini non ha aperto bocca ma al confronto con le altre è un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.e forse sta ancora almanaccando sul tunnel per il neurino e sui danni perpetrati alla scuola nazionale. Francesca Pascale, per ora, non ha rilasciato dichiarazioni e Dudù non si sa con chi sta. Magari con Bianconi.il ribelle.

Quarta votazione Quirinale: non dire Mattarella se non l’hai nel sacco.

Tutti d’accordo sul vecchio democristo moroteo. Ma specializzati a far scherzi da prete in Parlamento ce n’è parecchi. A guastare la festa a tanti, è uno sballo, Le burle più crudeli son dette scherzi da prete e con un ex democristiano e moroteo ci sta alla grande.

Il maghetto Renzi con un discorso fiume, che quelli di Fidel Castro sono un pallido ricordo, ha tirato fuori dal cilindretto per la posizione di Presidente della Repubblica il nome di Sergio Mattarella. L’ultimo dei democristiani morotei, che al contrario di quello dei moicani, non era lanciato in eroiche avventure ma se ne stava bello bello acquattato alla Corte Costituzionale. All’annuncio quelli dell’assemblea del Pd prima si sono dimostrati stupiti poi si sono messi a battere le mani e  quindi ad alzare, tutti insieme e con sobria diligenza, la delega per assentire: all’unanimità. Roba da soviet staliniani, che un po’ al Renzi ci piace. È stato un passo in più rispetto a due anni addietro. Allora non si votò. Come se quello sventolar di deleghe fosse il giusto esorcismo contro imboscate future.  

In verità il nome di Mattarella Sergio l’aveva già fatto il filosofo Massimo Cacciari. Almeno un mese prima dalla Gruber. Come dire: in tempi non sospetti. Poi s’è scoperto che ci aveva pensato anche Vendola Nichi ma non ne fece parola per non bruciarlo. E in cuor loro, adesso dicono, ce l’avevano anche gli ex della Margherita che poi sono gli ex della Dc. Addirittura la Bindy Rosy ci ha pure versato qualche lacrimuccia che sarebbe stato pure bello vederla, fatto eccezionale al cui confronto la nevicata di Boston ci fa un baffo. Il Mattarella piace anche a Orfini e Fassina autoproclamatisi giovani turchi, e che essendo per soprammercato tutti ex dalemiani avrebbero preferito l’Amato Giuliano. Che per quelli specchiati il D’Alema e i suoi pulcini ci hanno un debole. Ovviamente non poteva che piacere a Bersani Pierluigi che se non fosse stato comunista certo sarebbe stato democristiano e moroteo anche lui  Deinde poscia, è stata questione di qualche ora, più che altro per perdere quel rimasuglio di faccia che gli resta, il Mattarella è diventato "piaciuto" anche a quelli di Alfano: il partito con il vuoro intorno. Insomma se Mattarella non ci fosse stato bisognava inventarlo. Una vera panacea.

Gli unici a cui sembra non piacere sono Berlusconi, le sue ormai spompate valchirie, e naturalmente i superfedelissimi: quelli disposti a giurare sulla chioma sansonica del boss. Ma non è detto magari dopo aver fatto abbaiare il Brunetta, che gli viene facile, lo sconfessi e dica che lo vota pure lui. Tanta unanimità è un bel po’ sospetta. Si fosse ai tempi del soviet leniniano, o in Bulgaria o nella Corea del nord il fatto ci starebbe, ma l’essere in Italia qualche dubbietto lo dà. Questa è terra di anarchici, di briganti papalini, di gente disposta a rinunciare a parte del salario pur di aver l’autorizzazione al mugugno, di quelli che hanno come missione fare la minoranza. Terra di  bastiancontrari. Che simile parola e concetto relativo nelle altre parti del mondo non esiste proprio.

Quindi qualche dubbietto il giovane Renzi che ormai è anche lui entrato negli "anta", dovrebbe tenerselo da qualche parte per non far la faccia stupita del gonzo nel caso il voto andasse storto. Anche perché poco c’è di più divertente che impallinare il preteso vincitore e guardarne la faccia che fa. Ne san qualcosa in Vaticano dove nei conclavi si diverton come matti. Non a caso le burle più crudeli son dette scherzi da prete.


Magari tutto filerà liscio come l’olio ma come diceva il trio Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno non dire gatto, pardon, Mattarella se non l’hai nel sacco. Che il cigno nero è sempre dietro l’angolo. 

domenica 25 gennaio 2015

Lettera a un ragazzo che vuole fare politica

MICHAEL IGNATIEFF 
CARO amico, mi ha colpito che tu ti sia rivolto a me per avere un consiglio in vista del tuo ingresso in politica. Chi ha alle spalle una carriera politica difficile, crudele e breve — come la mia — è grato che qualcuno tenga in considerazione la sua opinione. Posso solo dire che il mio pensiero ha “l’autorità del fallimento”, come scrisse Francis Scott Fitzgerald. 

Prima di tutto devi capire il perché di questo tuo desiderio. Non sai quanta gente entra in politica senza saper dire perché tiene tanto a farlo. Le motivazioni, in realtà, sono sempre le stesse: il desiderio di gloria e di fama, l’opportunità di fare qualcosa di importante, che davvero migliori la vita di tante persone. Devi far parte di quelli che hanno ambizioni smisurate, addirittura ridicole, che vogliono far valere le loro idee al di là di quella che può essere una conversazione intelligente attorno a un tavolo. Devi sentire una sorta di vocazione, essere convinto che sia assolutamente necessario fare qualcosa e che la persona giusta sei proprio tu. 

Io avevo la vocazione della politica. Mi mancava però l’attitudine alla lotta politica. Gli attacchi li vivevo come affronti personali, il che è un grave errore. Non c’è mai niente di personale, sono solo affari. È così da sempre. Ci si può preparare al combattimento guardando gli incontri da assistente, dietro le corde del ring, come facevo io quando avevo vent’anni. MA, credimi, quando sei tu a salire sul ring, il primo pugno ti lascia sempre sconvolto. È in quel momento, quando ti scuoti e ti riprendi, che capisci se il tuo primo istinto è combattere o scappare.

Sono entrato in politica con la convinzione che se sostenevo le mie tesi in buona fede qualcuno mi avrebbe ascoltato. È una supposizione logica, ma sbagliata. In cinque anni e mezzo di attività politica nessuno si è mai preso la briga di criticare le mie idee in sé. Il problema non è mai stato il messaggio. È sempre stato il messaggero.

Non attaccheranno ciò che dici e neppure il tuo diritto di dire quel che vuoi. Nel mio caso dicevano che ero stato troppo tempo all’estero, non ero “uno di noi” bensì “uno di loro”. Ero “in visita”. Le critiche più dure da affrontare non sono quelle false, ma quelle che hanno in sé un pizzico di verità.

La mia permanenza all’estero non era motivo di vergogna, ma non mi è stata esattamente d’aiuto nel costruire la fiducia che qualsiasi politico deve instaurare con il proprio elettorato. 

Per creare dal nulla quella fiducia serve autenticità. Non si può far finta di essere diversi da ciò che si è. Chi dice che la politica è una recita ha capito male. Non si interpreta un personaggio. Si è in palcoscenico, questo è vero, ma nel ruolo di se stessi. La gente non deve identificarsi con la tua vita per votarti, ma deve credere che tu sei chi dici di essere.

Adesso mi farai l’elenco di tutti i farabutti ipocriti che sono arrivati al potere senza essere autentici. Mi hai frainteso. Uno come Richard Nixon aveva autenticità da vendere. Gli elettori sapevano esattamente chi era: ambiguo, manipolatore, ipocrita e del tutto simile a loro. In lui vedevano loro stessi. Per essere autentico devi avere pieno possesso della tua vita. Riconoscere tutto. John Kerry è stato vittima degli attacchi dei veterani perché non è riuscito a ammettere, nel suo intimo, di essere stato quel giovane tenente che, al ritorno dal Vietnam, rese al Congresso una testimonianza sulle atrocità di cui era stato testimone sul delta del Mekong. 

Non ha saputo dire: «Sì, ero proprio io. Se non volete votare per un uomo che ha criticato il suo Paese, fate pure».

La gente finisce per perdonare quasi tutto ai candidati se lottano per il diritto di essere se stessi. La vera battaglia in politica è sulla reputazione, il diritto di essere ascoltato per la persona che sei. Dopo che i veterani avevano colpito nel segno senza ricevere replica, Kerry poteva anche parlare, ma nessuno lo ascoltava più. Aveva perso la sua reputazione. 

Dopo che i miei avversari dissero che ero qui solo “in visita”, persi la mia. Potevo parlare, ma senza avere ascolto. Ecco quindi il mio consiglio: non permettere che i tuoi avversari abbiano in pugno la tua vita. Se non riesci a farlo sul serio, cambia mestiere. E se non sai difendere la tua vita dagli attacchi hai un’ampia scelta di altre vite che non esigono un’esposizione così totale. 

Un’altra cosa che non paga è pretendere di essere migliore dell’ambiente di cui fai parte. Non puoi riuscire in politica se dai troppo a vedere che disprezzi le vili prassi con cui si governa. Esprimere tedio e disgusto per le rozzezze e le meschinità della politica può funzionare nell’aula di un’università, ma è fatale in campagna elettorale. 

Il disgusto per la politica è comune tra le persone che si sono distinte al di fuori di essa, a livello accademico, giornalistico o imprenditoriale, e che entrano in politica con la ragionevole presunzione che il prestigio guadagnato in precedenza nella loro professione si trasferisca automaticamente al campo politico. Non è così. Quelli che pensano di aver diritto a una buona reputazione perché sono intelligenti, ricchi o famosi quasi sempre hanno la peggio. Dimenticano che la reputazione si guadagna, non è un diritto acquisito. Questo è l’aspetto migliore della democrazia, l’unica ragione per cui ancora non siamo completamente governati da ricchi oligarchi. 

Può darsi che io sia entrato in politica con un atteggiamento non riconosciuto di superiorità nei confronti di quel gioco e di chi ne faceva parte, ma ne sono uscito con più rispetto per i politici di quanto ne avessi prima. I peggiori di loro — i carrieristi e i predatori — li trovi in ogni professione. I migliori erano un vanto della democrazia. Sapevano distinguere tra un avversario e un nemico, sapevano quando accontentarsi di mezza pagnotta e quando pretendere tutto il forno, quando fidarsi del proprio giudizio e quando ascoltare la gente. 

Osservando i colleghi più saggi e avveduti di me nel corso di una legislatura in democrazia, ho imparato che davvero è ammirevole andare comunque ogni giorno al lavoro e sforzarsi di realizzare qualcosa, nonostante il disincanto circa le motivazioni, l’avidità e le capacità di inganno dell’umanità che possono comparire in questo mondo. Il liberalismo diventerà l’enclave di una minoranza sempre più ristretta se i sedicenti liberali non riagganceranno la fede nella tolleranza, eguaglianza e opportunità per tutti alla più ardua fede nel mestiere sporco, strillato, falso e mendace della politica. 

Disprezzarlo è cinismo mascherato da nobili principi. La massima fedeltà del politico democratico non va al partito, neppure ai princìpi, ma alla prassi corrotta chiamata politica. Il mio consiglio finale è quindi il seguente: la politica non è un volgare mezzo per raggiungere un obiettivo, ha nobiltà in sé. E senza amore non puoi farla bene. Io non ci sono arrivato, ma mi auguro che tu ci riesca.
Con affetto, Michael 

L’autore è stato leader del Partito Liberale canadese dal 2-009 al 2-011. Il suo ultimo libro è “ Il male minore - L’etica politica nell’era del terrorismo globale” (Carocci) 
Traduzione di Emilia Benghi

giovedì 22 gennaio 2015

Indennità disoccupazione co.co.pro: se non te la paghi non ce l’hai.

Chi ha pensato all’indennità una tantum per i collaboratori a progetto era una fine umorista. D’altra parte la Fornero rise fino alle lacrime quando pronunciò la parola sacrifici. L’ironia richiede sempre un pizzico di sadismo: le cinque condizioni per avere l’assegno lo dimostrano. Solo chi lavora può ottenere l’assegno una tantum.

Con la legge 92/2012 il governo Monti e la Fornero, per gli amici la cenerentola del Canavese, decisero di istituire l’indennità una tantum per i contratti a progetto. Titolo astruso che fu poi tradotto e vissuto come l’indennità di disoccupazione per i co.co.pro.  I più pensarono che in fondo, ma molto infondo, anche Monti e la Foprnero avessero un cuore. Idea balzana. Covavano entrambi in cuor loro la perfidia dei fini umoristi. Molti ricorderanno come la Fornero rise fino alle lacrime nel pronunciare la parola «sacrifici». E ancor di più deve essersi scompisciata quando ha messo a punto questo provvedimento. Solo che in questa occasione lo fece in strettissimo privato.

Questa legge è stata congegnata con lo stesso spirito del contadino che per far camminare l’asino gli tiene davanti al muso una carota che non potrà mai raggiungere. Gli umoristi sono sempre un po’ sadici. I requisiti per ottenere l’indennità sono un percorso di guerra pieno di trabocchetti che neppure il soldato Jane riuscirebbe a superare. E piacerebbe vedere la Fornero nei panni del soldato Jane.

Andando con ordine. Per avere diritto all’indennità occorre soddisfare cinque  semplici requisiti, tratti, anche nell'ordine da www.lavoro.gov.it:
1. Aver operato in regime di monocommittenza nell’anno precedente a quello della richiesta
2. Aver guadagnato nell’anno precedente un reddito fiscalmente imponibile inferiore a 20.000,00€
3. Avere un contributo mensile nell’anno della richiesta
4. Avere almeno due mesi di disoccupazione nell’anno precedente a quello della richiesta
5. Avere almeno 3 mensilità (saranno 4 nel 2015) di contribuzione nell’anno precedente a quello della richiesta.
Gli ingenui dando una scorsa a queste righette diranno: «Beh  che ci vuole: semplice.» Già. Semplice. Semplice non riuscire a soddisfare i cinque requisiti in contemporanea.

Evvai con gli esempi.
Se il richiedente, causa crisi imperante, come quasi tutti i contratti a progetto - quasi tutti per non voler essere assolutisti e dire tutti – ballonzola da una società all’altra per sbarcare il lunario non ha diritto a questa indennità. Pure se ha lavorato solo sei mesi in un anno: tre mesi più tre mesi. Monocommittenza è la parola chiave. Quindi non è un disoccupato degno di aiuto.
Se invece il co.co.pro di cui sopra, nell’anno precedente la richiesta ha lavorato per dieci mesi, da gennaio a ottobre, per dire, nella stessa azienda, con un reddito inferiore ai 20.000€ ma nell’anno in cui presenta la domanda non ha lavorato per almeno un mese vedrà la sua domanda respinta. Se poi ha lavorato da febbraio a novembre e nell’anno successivo ha ripreso a gennaio che succede? Niente. Non avrà il sussidio: i due mesi di disoccupazione non sono continuativi. E se invece nell’anno precedente ha lavorato per una sola azienda (monocommittenza ok)  per tre mesi, si ipotizza da gennaio a marzo (codicillo n.4 ok) ed ovviamente è stato entro i limiti di reddito (punto 2 ok) e, per sua sventura, non ha trovata altra occupazione da aprile a dicembre (due mesi di disoccupazione continuativa ok) che succede?  Nulla: se nell’anno in cui fa richiesta non ha lavorato almeno un mese. Anche lui è un disoccupato non meritevole di aiuto.

Però non bisogna farsi abbattere. C’è un caso in cui ce la si può fare e nella sua diabolicità testimonia anche della grullaggine (per non dire altro) di chi ha scritto la norma.
Il co.co.pro. ha lavorato nell’anno precedente (ipotizioamo 2014) per una sola azienda (punto 1 ok) , ha un reddito di 18.000€ lordi (punto 2 ok) nell’anno della richiesta (2015) sta lavorando (punto 3 ok), nell’anno antecedente (2014) è stato disoccupato nei mesi di gennaio e febbraio (punto 4 ok), nello stesso periodo (2014) ha lavorato da marzo a dicembre (punto 5 ok).  Bene questo co.co.pro. che è un occupato, perché l’azienda che lo ha assunto nel marzo 2014 continua a farlo lavorare anche nell’anno 2015, ha diritto all’indennità di disoccupazione una tantum. Ebbrava Fornero.
In altre parole si può avere l’indennità di disoccupazione solo si è occupati. Se questa non fa ridere, cosa può far ridere?

Se la Fornero avesse gestito il codice Enigma quel cervello di Alan Turing non ce l’avrebbe mai fatta a decodificarlo. Ebbrava Fornero.

C’è un proverbio veneto che recita: sghei chiama sghei, m…. chiama m…. Come sono saggi i proverbi.

lunedì 19 gennaio 2015

Convegno sulla famiglia a Milano: c’è aria di goliardia e anche un pedofilo.

Nomi di spicco in platea, tra gli altri don Inzoli, accusato di pedofilia ed Elton John, evocato da Mario Adinolfi.  Ignazio La Russa definisce «culattone» un giovane gay. Maroni lancia un altro convegno da tenersi durante l’Expo. Il mondo comprenderà il significato della parola «pirla» Non s’è parlato di come curare i gay.

Parterre de rois al convegno sulla famiglia organizzato da Alleanza Cattolica, Obiettivo Chaire, Nonni 2.0 e Fondazione Tempi e naturalmente la Regione. Non manca il simboletto di Expo che è stato portato lì a sua insaputa. Ma da quelle parti è normale.

Nella prima fila hanno trovato posto: il ministro Maurizio Lupi, Roberto Formigoni, i fratelli Ignazio e Romano La Russa, Roberto Maroni e un altro bel tot di leghisti. In seconda fila, i posti della prima non sono infiniti e proprio dietro Maroni, in modo da poterne ammirare la chierica, nientepopodimenoche don Inzoli. Non male. Lui è uno che essendo prete alla famiglia ci tiene e anche tanto.

Il don in questione indossa il clargyman e non è uno da poco: è stato presidente del Banco Alimentare, e, forse lo è ancora, personaggio di punta di Comunione e Liberazione. Inoltre, come non bastasse si vocifera che fosse anche il confessore del Celeste alias Formiga alias Formigoni. Però questa ultima notizia non è certa. Il don Inzoli era anche noto presso i parrocchiani e magari la gerarchia, come don Mercedes per l’amore portato alla casa tedesca e alla bella vita.  Però è risultato abbastanza noto anche a papa Francesco che gli dedicò del tempo e gli inviò una lettera nella quale è scritto: «in considerazione della gravità dei comportamenti e del conseguente scandalo, provocato da abusi su minori, don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza come segno di conversione e di penitenza.»

Forse don Inzoli ha pensato che partecipare ad un convegno sulla famiglia con i fratelli La Russa fosse un momento di umile riservatezza  e dar la mano a Roberto Maroni facesse parte della vita di preghiera. In effetti pregare perché il Maroni si tolga, per così dire, dai piedi, in qualche modo ci sta. Il Maroni sul momento è parso contento dell’incontro, a quanto si capisce dalla foto. Poi quando il giorno dopo ha letto sui giornali chi aveva alle spalle l’ha subito scaricato nel più classico dei modi: «non lo conoscevo e se mi avessero detto chi era l’avrei fatto espellere. »

In effetti don Inzoli nel clima del pomeriggio poteva anche starci visto lo stile con cui l’onorevole Ignazio La Russa si è rivolto al giovane universitario che si è presentato con l’idea di fare una domanda sul concetto di famiglia che ai suoi occhi può essere diversa. L’onorevole La Russa l’ha accolto con una sola parola: «culattone!» Ignazio La Ryussa è sempre stato un goliarda e va capito. Comunque, complimenti onorevole, anche se non molto originale. Si poteva fare di meglio ma magari non si può pretendere di avere prontezza di reazione e brillantezza d’eloquio nello stesso tempo. Ma senz’altro ci saranno altre occasioni.

Come in tutte le convention che si rispettino oltre ad un pubblico festante ci vuole anche una gest star ma non potendosela permettere hanno ben pensato di evocarla. Si è prestato all’opera Mario Adinolfi, fresco direttore del quotidiano La Croce. La star evocata è stata Elton John con il suo compagno ed i loro due bambini. Sono nati da madre surrogata, la stessa in entrambi i casi, con il seme fornito da Elton e dal suo compagno David e questo per gli organizzatori del convegno è spaventoso. Che poi i quattro siano una famiglia felice non è rilevante. Naturalmente.

Per questa volta non si è parlato di come curare i gay dalla malattia dell’omosessualità, ma ci saranno altre prossime occasioni. Come ha annunciato nelle conclusioni Roberto Maroni che ha anche orgogliosamente dichiarato: «Non mi faccio condizionare da quattro pirla.» Riferendosi alle associazioni Lgbt che all’esterno contestavano il senso del convegno. Il convegno si ripeterà  durante l’Expo. Per essere sotto i riflettori del mondo. Complimenti, così il mondo saprà ben tradurre e dare significato all’esotica parola «pirla». Avendone sotto gli occhi un esempio.  

Sui soldi cascano tutti. Anche i rivoluzionari.

Ben 54 ex consiglieri della regione Lombardia ricorrono contro il taglio del 10% del vitalizio. Ci sono tutti dagli ex fascisti agli ex rivoluzionari. Altro che arco costituzionale. Quanti vitalizi toccano al presidente emerito? E se il prossimo fosse Giuliano Amato: a quanto ammonterebbe la sua entrata mensile?

Gli adagi popolari sul denaro sono tanti e anche di ordine diverso. Da quello buonista «i soldi non sono tutto nella vita» a quello rampantista «di soldi non ce n’è mai abbastanza» Il secondo in verità si adatta bene anche a quelli che non arrivano alla fine del mese che oramai sono i più. Oggi s’è saputo che il patrimonio delle prime dieci famiglie italiane equivale a quello di venti milioni di loro concittadini. Allegria. Forse, e si sottolinea forse, in questo caso di soldi ce ne è a sufficienza e magari torna buono il primo proverbio. Comunque, sui denari e sul suo possesso, san Francesco a parte ma i suoi confratelli si sono rifatti ab abundantiam, ci cascano tutti. Ma proprio tutti.

Quelli che fanno più scalpore sono i politici non tanto e non solo per la quantità di denaro percepita e utilizzata e sperperata ma anche perché personaggi pubblici che più pubblici non si può. Tutti loro vivono di pubblico poiché senza quello non ci sono i voti. E poi perché passano la vita campando di parole, talvolta pure infuocate o addirittura rivoluzionarie, per dire di quanto sia necessario fare il bene di tutti. Chi volendo più stato sociale e chi togliendo più tasse. Però quando  poi si arriva al dunque li si trova tutti, da estrema destra a estrema sinistra passando per il centro, abbarbicati alle miserie della vile pecunia. Quella personale, ovvio. Ché fare i grandi con i soldi degli altri è un attimo.

Divertente ed emblematiche sono le storie susseguitesi a raffica nella settimana: dai 54 ex consiglieri regionali della Lombardia  al neo presidente emerito Giorgio Napolitano e quindi al suo amico Giuliano Amato. candidato a prenderne il posto.

I 54 della Lombardia (pare adesso 53 poiché la dottoressa Daniela Benelli ha ritirato la sua firma)  hanno presentato un esposto contro un taglio del loro vitalizio del 10%. Si sottolinea 10%. Che tradotto in soldoni sarebbe di poche centinaia di euro al mese e che su base annua non arriva neppure a coprire una intera mensilità su tredici che sono percepite. Che tra questi ci siano indagati per tangenti, sospettati di aver condotto affari con la n’drangheta e pure qualcuno che ha passato qualche notte al fresco tutto sommato ci può stare. Come dire: aspettarsi da questi un ricorso per una manciata d’euro è il minimo sindacale. Che invece ci siano vecchi rivoluzionari (si fa per dire) che si sono battuti (si fa per dire) per il bene (si fa per dire) della classe operaia e degli ultimi e dei diseredati ci sta un po’ di meno. E non vale dire oggi di non essere mai stati comunisti: non si è di fronte alla Sacra Rota che annulla i matrimoni solo per aver concepito infedeli retropensieri prima dell’atto. Dovevano dirlo allora e comportarsi di conseguenza. C’è stato qualcuno infatti di casacche dal Pci a Forza Italia ne ha pure rigirate. Soprattutto viene una certa irritazione per quelli che in carriera (si dice così anche per i politici) di scranni ne hanno occupati parecchi. E talvolta due o più pure in contemporanea.

È già, perché c’è chi oltre ad essere stato consigliere regionale (vitalizio) è stato anche nell’italico parlamento (vitalizio) e magari pure deputato europeo (vitalizio). Sempre che poi a tutti questi non si debbano aggiungere pensioni da giornalista e magari pure da funzionario di partito. Che a mettere insieme tutti quei cud può venire il mal di testa e si capisce bene perché qualcuno si ritiri in campagna. Che poi quella della campagna è una bella tradizione per ex. Un podere ce l’hanno, tra gli altri, Di Pietro Antonio ma anche D’Alema Massimo ma anche  Capanna Mario, uno dei suoi libri è intitolato «Il fiume della prepotenza», che lamenta un misero introito di solo 5.000,00 euro al mese. Forse, detto senza malizia, si tratta di uno solo dei cud. Forse.

Non si lamenta dell’ultimo vitalizio (ma forse non unico) il recente presidente emerito: 15.000€ al mese Più un tot di borbonici fringe benefit (autista, maggiordomo, segretaria, bollette del telefonono…?) che si possono pure estendere alla famiglia e magari tramandare di padre in figlio. Certo che monitare (sta per lanciare moniti) stando belli comodi e garantiti e mandare solidarietà che costano poco o nulla ai terremotati o a chi vive nella terra dei fuochi o non può veder bonificato il giardino pubblico di fronte a casa, e soprattutto non pagarla di tasca propria non deve venire particolarmente difficile.

By the way n. 1, il Presidente Napolitano aveva detto che voleva ridurre il vitalizio per gli ex che avevano occupato la carica ma poi preso dai moniti se ne deve essere dimenticato. By the way n. 2 come senatore a vita avrà anche diritto ad una indennità? Che chiamarlo stipendio fa poco fine. By the way n.3 il fatto che sia stato per lunga pezza deputato in Italia fa scattare un altro vitalizio? E se ne palesa un altro per le due legislature fatte in Europa? E come funzionario di partito?

Giuliano Amato candidato berlusconiano alla carica di Presidente della Repubblica su questa pista parte già bene: ai trentamila-e-briscola-euro che percepisce mensilmente, una pensione più un vitalizio confermato da lui stesso, sarà da aggiungere qualche cosina per il suo essere (stato) giudice costituzionale? E poi a tutto ciò si aggiungerà la pensioncina da ex capo dello stato?
Uno dei pezzi ricorrenti nei comizi del giovane Capanna suonava così: «Avanguardia Operaia è il cavallo di troia, più troia che cavallo, della borghesia milanese all’interno dell’Università» Lo si potrebbe mutuare in «Il vitalizio è il cavallo di troia, più troia che cavallo, della meschinità anche nell’animo dei rivoluzionari.»
Magari fossero usi ad incassar tacendo ne farebbero miglior figura.

venerdì 16 gennaio 2015

Charlie Hebdo occhio alla penna. Il Papa mena.

Francesco come un gaucho se gli offendono la mamma mena. Si dice che gaucho derivi dall’arabo e significhi «uomo a cavallo». Ma anche «senza madre.» Alla fine tutto si lega. L’offesa sta nell’orecchio di chi ascolta. La logica del sì...ma. Il tempo di nì dieu nì maître è da venire.

E così Jorge Mario Brgoglio, in arte papa Francesco, ha gettato la maschera. Era ora. Il gaucho arrabalero (delle periferie ndr) uomo di casas malas, sangue e coltelli, come tutti i gauchos, l’ha detto chiaro-chiaro: «se uno insulta mia madre io gli do un pugno.» Altro che porgere l’altra guancia. E in fondo si può dire che tantissimi, probabilmente quasi tutti con la miserrima eccezione di quelli che sono nati nelle antiche ruote dei conventi, la pensino allo stesso modo. Eh sì, per bacco baccone, la mamma è sempre la mamma. Bella scoperta. E tutte le mamme so piezz e core. Tutte le mamme anche quella del Papa. E quindi chi offende mammà sa che gli può capitare. E non son cose belle.

Certo è che a qualcuno, forse più di uno e magari anche di due e di tre, in quel del Vaticano dopo aver sentito l’affermazione gli deve essere ballonzolata la viola berretta cardinalizia sulla cucuzzola. «Ma come? È da oltre duemila anni che raccontiamo la fola delle guance offerte e mò arriva questo e ci e smonta il teatrino.» Eh sì, succede.

Già, succede. Ma succede proprio dopo che milioni e milioni di manifestanti si sono sgolati a gridare: «Je suis Charlie Habdo».Per condannare la strage di Parigi ed esaltare la libertà di stampa. Tanto che i gesuiti di Francia sono arrivati a pubblicare sulla loro rivista alcune delle vignette che ritraggono Maometto e sono alla base o al pretesto dell’attacco terroristico di Parigi. E invece arriva lui, papa Francesco, e come ridere dice che alle offese si reagisce. Ma come al solito c’è un ma. Né potrebbe essere diversamente, in fondo quello del «sì … ma» è tutto nel dna di oltre Tevere. Mica è solo patrimonio di Pierluigi Battista o del decotto Walter Veltroni, sempre che non lo riesumino.

Il «sì … ma» di questo caso consiste in: se offendi ti becchi un pugno ma non bisogna offendere. Che poi, come dicono alcuni, l’offesa stia più nelle orecchie e negli occhi di chi ascolta e guarda, è tutta un’altra storia. È come quando si prende in mano un rosario che non si capisce dove inizi e dove finisca. Roba dura da far digerire ad un gaucho, uomo spiccio e anche dal coltello facile. Oltre che gran ballerino di tango.

Nelle parole di papa Francesco si possono leggere e anche legare le due leggendarie origini del nome. Pare infatti che per alcuni gaucho derivi dall’arabo e significhi uomo a cavallo mentre per altri questo derivi dal quechua huacho (pronuncia: huaccio) che significa senza madre. Ma il gaucho non ha bisogno che gli offendano la madre per accendersi e dare quattro smatafloni.


Quindi Chalie Hebdo di tutto il mondo: occhio alla penna. Il tempo di nì dieu nì maître è da venire.

lunedì 12 gennaio 2015

Perché riesumare la Fallaci quando c’è Giuliano Ferrara?

Il Corriere lancia una nuova rubrica «Le parole di Oriana» Titolo vagamente messianico che forse non è proprio quello di cui si ha necessità di questi tempi. Le argomentazioni della Fallaci di allora sono le stesse del Ferrara di oggi. Paragone ardito quello tra Ferrara e Fallaci? Non tanto. L’elefantino ha il pregio dell’attualità, ma è l’unico.

Da sabato 10 gennaio, dopo i terribili fatti di Parigi, il Corriere della Sera ha deciso lanciare una rubrica quotidiana dal messianico titolo: «Le parole di Oriana». La Oriana in questione è Oriana Fallaci. Naturalmente, data la titolazione della rubrica, si intende che al Corriere ritengano che le parole della Fallaci non possano assolutamente essere state fallaci. Beati loro.

In tre giorni, sabato e domenica e lunedì, tre pezzi, Ovviamente sono riedizioni, del 1979 e del 2002. Il primo, ripubblicato anche nel volume Intervista con il potere, (magari la Rizzoli spera in un rilancio, business is business) è per l’appunto una intervista. Intervistata è una giovane terrorista, così viene definita Rascida Abhedo, la quale sostiene con feroce durezza, riporta la Fallaci, che per lei anche i bambini israeliani sono nemici. 

Domanda: «Anche se è un bambino Rascida? Anche se è un neonato?» La risposta: «Mi ordinai: Rascida loro (gli israeliani ndr) ammazzano i nostri bambini e tu ammazzerai i loro» Che se si chiede ad un lupo, metaforicamente inteso, cosa ne pensi degli agnelli, viene difficile immaginarsi una risposta differente. Quindi domanda banale ancor prima che stupida. Il secondo, quello di domenica, invece è un articolo megalomanico, in cui la Fallaci racconta con una ampia e noiosa introduzione, che il suo libro «La Rage e l’Orgueil» in Francia (e nel resto del mondo) sia un grande successo editoriale. Anche se non di critica visto che, la stessa dichiara come il novantacinque  per cento della stampa parigina la attacchi. Ma, scriveva Hannah Arendt, non basta avere la maggioranza dei consensi per avere ragione. Il che vale per entrambi i casi.  E in aggiunta non basta difendere un solo popolo per essere immuni dal morbo del razzismo. Il terzo pezzo, quello di lunedì 12, manco a dirlo, è l’intervista a Khomeini. Ovviamente in risalto la frase topica: «L’islam è tutto la democrazia è equivoca.» Sul fatto che la democrazia sia equivoca si è esercitato il fior fore dell’intellighenzia liberale dell’orbe terraqueo. Però senza riuscire a darsi risposta.  

Domenica, giusto per santificare la festa e dare un buon viatico alla manifestazione di Parigi e a quella più modesta organizzata dal consolato francese a Milano, Pierluigi Battista chiacchiera con Giuliano Ferrara. Il posizionamento dell’intervista è, come per caso nella pagina a fianco di quella fallaciana. Una mano data all’elefantino così riesce a raggiungere qualche lettore in più rispetto ai quattro gatti che riesce a mettere insieme quotidianamente. Nell’intervista Ferrara mette insieme il suo solito armamentario, confuso quanto basta, sulla guerra di civiltà. Frasi fatte, masticate e rimasticate che lasciano pure poco spazio alla fantasia. Sentito una volta sentite tutte.  Solo il duo Salvini-Borghezio riesce a fare di peggio.  Come novità aggiunge che lui piuttosto che andare con Holande e il resto dell’Europa preferirebbe accompagnarsi alla manifestazione dei Le Pen anche se li trova un pochetto antisemiti. Però il fatto che questi ce l’abbiano, forse, un po’ di più con gli islamici gli fa mandar giù il rospo. De gustibus. Come dire piazza un elefantino in una cristalleria ed otterrai lo stesso risultato.

A questo punto vien da chiedersi perché si debba riesumare la fallace Oriana avendo a disposizione, anche se non meno fallace, Ferrara. Almeno questo ha il pregio dell’attualità. Sempre che alla fine non si scopra che l’ideuzza editoriale ha come unico fine di piazzare qualche copia in più. Che magari sarebbe bello fosse conquistata con argomentazioni che coinvolgano la testa piuttosto che mettere in agitazione lo stomaco. Anche perché quanto può andare avanti la rubrica di Oriana?  Fra un po’ come successo per l’11 settembre anche questa notizia perderà il suo appeal editoriale e a quel punto le parole di Oriana non serviranno più. E il giochetto sarà scoperto.


venerdì 9 gennaio 2015

L’ultima ironia di Charlie Hebdo: Matteo Salvini

Bacchettata a papa Francesco: non sa fare il suo lavoro. Salvini con la barba assomiglia ad un imam. Il cognome potrebbe essere una contaminazione dall’arabo El Salavin. Troppi terroristi sono passati per Milano. Ma pure molti cretini. Interviene Carlo Giovanardi.

Anche i fatti più dolorosi e drammatici dimostrano di avere una venatura ironica e irridente. Senz’altro se Stéphane Charbonnier e gli altri di Charlie Hebdo potessero leggere i giornali di questi giorni si sganascerebbero. E molto probabilmente comincerebbe proprio da quelli italici. Comici ce ne sono ovunque ma battute frizzanti come quelle dei politici dello Stivale ce ne sono pochi. Al confronto anche Fronçois Hollande è da serie B.

L’ultima delle “perle” ci viene nientepopodimenoche da Matteo Salvini, quello che cantava «senti che puzza scappano anche i cani stanno arrivando i napoletani.» Se l’è presa con papa Francesco: severa bacchettata. Il vescovo di Roma è stato accusato di non occuparsi dei “suoi” e quindi di non fare bene il suo lavoro. Per Salvini papa Francesco è troppo dialogante, troppo conciliante e, in definitiva, troppo cattolico. By the way cattolico deriva dal greco katholikós e significa per l’appunto universale. Ma forse il Matteo quando era al liceo s’è perso le lezioni di greco. O non le ha capite. Più facile. Quindi ha invitato papa Francesco ad occuparsi solo dei suoi cattolici. Che, ha sottinteso, se ci fosse lui la musica cambierebbe all’istante. Magari, con originalità, proporrebbe crociate al grido di «Dio lo vuole». E anche di bruciare le fattucchiere, impalare i gatti neri, reintrodurre l’inquisizione, la schiavitù e le pene corporali.

Da che è diventato segretario della Lega ha deciso di darsi una ripulita ed un tono ecumenico. Poi qualcuno, dotato di pazienza, gli spiegherà il senso della parola. Ha aperto ai romani ed ai meridionali sostenendo che i ladri non sono loro (poco originale, lo si sapeva già) ma la Roma dei palazzi. Ha sorvolato che in quelli la Lega ci sta comoda-comoda da oltre vent’anni e alcuni dei suoi sono stati beccati con le mani nella marmellata. Poi ha sostenuto con coraggio che non tutti i mussulmani sono terroristi. Anche questo era noto.  Nel di mezzo per rendere credibile le sue affermazioni si è fatto crescere la barba che un po’ la fa somigliare ad un imam. E questo non sembra il solo tratto somatico che lo allontana dalla tipiche fattezze dei gallo-celti: non è biondo non ha gli occhi azzurri e anche quanto a carnagione è un po' scuretto. Mica come la Le Pen Marine: candida come la neve. Vuoi mai mettere che a scavare nel suo albero genealogico si scopre che ha ascendenze magrebine? E magari che il cognome italico sia una contaminazione dall’arabo di  El Salavin? Che quindi per intero sarebbe Matta El Salavin. Con un djellaba ed un turbante verrebbe difficile distinguerlo da un figlio del maghreb.

Comunque per rimanere sulle pagine dei giornali non resta che sparare bischerate che, notoriamente, non conoscono nazionalità, razza, religione e fanno audience . E lui, Matta El Salavin sa bene la parte e la fa da par suo. Per tenersi in allenamento ha definito imbecilli gli ottantottomila poliziotti che danno la caccia ai terroristi che se ci fosse lui già starebbero al fresco e si è scagliato contro la costruzione di moschee a Milano.  «Spero e penso – verbo impegnativo in bocca sua -  che il sindaco Pisapia blocchi qualsiasi concessione.» E questo perché, ha aggiunto:« Da Milano sono passati troppi terroristi.» Se è per questo non sono gli unici. Ci sono passati anche molti cretini e troppi continuano a stazionarci.

Comunque, poiché la vita è divertente le uscite di Matta El Salavin (per l’occidente Matteo Salvini) hanno resuscitato (metaforicamente) anche Carlo Giovanardi, non lo si sentiva da tempo, che ha detto: «non c’è limite alla volgarità ed al degrado morale di questo personaggio». Che se lo dice Giovanardi è una garanzia.

I ragazzi di Charlie Hebdo hanno colpito ancora.

mercoledì 7 gennaio 2015

Il 19bis, D’Alema salta la fila per Pino Daniele, i numeri dei vigili di Roma.

Tre fatterelli di inizio d’anno raccontano dei guai del Belpaese molto più di quanto piacerebbe. E ancora una volta la realtà supera la fantasia.

L’articolo 19bi
Sull’articolo 19bis s’è fatto un bel gran parlare più nella forma che nella sostanza. S’è perso un gran tempo a stabilire a chi appartenesse la”manina” che ha aggiunto quell’articoletto, bis per l’appunto, alla legge. Come se fosse poi interessante sapere se era stato aggiunto dalla ex capo dei vigili di Firenze o da qualche sconosciuto tecnico ministeriale. Poi Renzi se ne è assunto nobilmente la responsabilità. E così vien da pensare che il giochino avesse l’intenzione di far perdere di vista la sostanza: secondo il codicillo si dava via libera alla truffa dello Stato fino al 3%, con scarsa pena. Se si è pescati. La qual cosa dà l’idea, forse peregrina, di voler mettere l’Italia in compagnia del Lussemburgo e delle isole Cayman. Ché se questo è il modo di attrarre capitali stranieri c’è da domandarsi di che capitali si abbia voglia. Probabilmente qualcuno nel giro del governo ritiene mafia, camorra e n’drangheta non sufficienti. Quindi avanti gli altri, che essendo esteri danno il tocco classico dell’esotismo. Che poi, a dirla tutta, quand’anche i malupini vengano colti come pere mature, la tradizione dice che sarà ben difficile incassare il maltolto, le penali e le multe, Il caso delle macchinette mangiasoldi insegna. Magari dimostrarsi corretti nella forma e nella sostanza (iob act a parte) darebbe una mano.

D’Alema salta la fila per Pino Daniele. 
 Anche oggi il D’Alema Massimo ha voluto dimostrare cosa significhi essere casta. Ha scelto come palcoscenico la camera ardente di Pino Daniele. Poteva scegliere meglio, ma le occasioni se non si colgono al volo, si perdono. La differenza tra il sentirsi e il comportarsi da casta e i comuni mortali passa per piccoli ma appariscenti atti. Alla casta piace attraversare con il rosso e scavallare la fila. Alle poste così come nelle camere ardenti. I fan di Pino Daniele che erano, lì, belli stipati e in fila da ore quando se ne sono accorti l’hanno fischiato. Sono stati fischi meritati. Anzi, di più. In un twitter il D’Alema si è giustificato prima scrivendo che «Pensavano godessi di un qualche privilegio per l'essere ammesso a salutare la salma, mentre a loro non era consentito» Che più che un pensiero era un fatto.  Acclarato. Poi non contento, rispondendo un commento ha aggiunto: « Che poi a dirla tutta gli errori sono roba da lapis rosso, al più.» Come riecheggiare la frase del marchese del Grillo: «Io so’ io e voi non siete un …» Magari bisognerebbe spiegare al D’Alema che l’arroganza è errore da lapis blu. Quello degli errori gravi. E ricordargli pure che Almirante quando decise di onorare le spoglie di Berlinguer si mise in fila, in mezzo a tutti gli altri che erano, la più parte, comunisti. Si guardi un po’ da chi si deve prendere esempio. Che poi, a dirla tutta, visto il comportamento e poi i commenti twittati,  si ha la sensazione che l’arroganza, se potesse, lo lascerebbe solo, il D’Alema.

Quanti i vigili assenteisti a Roma?

Sui vigili romani assenteisti nella notte di san Silvestro i numeri oramai sono da giocare al lotto. All’inizio della storia i giornali riportavano erano più di 800 quelli che non si sono presentati al lavoro. Poi la cifra si è drasticamente ridotta a 44 e quindi  è risalita a 66 fino ad arrivare a essere 90 quelli  che rischiano il licenziamento.. Insomma gli assenteisti quanti sono? Non che la sostanza cambi di molto se ad essere mancanti al lavoro sono uno o centomila: il fatto moralmente e non solo è grave. Ma è anche grave (di altra qualità) che dopo sette giorni non si sappia con esattezza quanti dovevano essere e quanti in effetti non erano al lavoro. E in più quali le motivazioni dell’assenza, ben classificate per motivazioni e cause.  Se chi controlla è approssimativo corre il rischio di non essere credibile. Anche se ha ragione.

Sic transeat gloria mundi

sabato 3 gennaio 2015

L’omosessualità si può curare? Chiedere al governatore Roberto Maroni.

Il 17 gennaio all’ auditorium Testori si dibatterà su come curare l’omosessualità. Il governatore Maroni nei panni che furono dei Re Taumaturghi, loro curavano le scrofole e lui, più moderno, l’omosessualità. Magari prima del convegno potrebbe provare con razzisti e cretini. Forse per lui più a portata di mano.

L’omosessualità si può curare? Il dubbio è amletico e attanaglia, non da oggi, alcune tra le più brillanti menti contemporanee che hanno la generosità di arricchire con la loro presenza questi travagliati tempi ed anche i primi giorni del 2015. Anno che nasce all’insegna del ritmo. Questa volta però, il Presidente Renzi non c’entra. Almeno per il momento.

Pensare che l’omosessualità sia una malattia è argomento vecchio ma periodicamente riportato all’attualità da quei brillanti di cui sopra, e che annoverano tra le proprie fila personalità del calibro di Luigi Amicone, ciellino, direttore di Tempi e Mario Adinolfi fondatore del quotidiano La Croce. Due nomi che di per sé sono già un programma. E in qualche misura anche una garanzia. A questi si aggiungerà il governatore della regione Lombardia, Roberto Maroni. Difficilmente sarà possibile vedere ancora un simile trust di cervelli riuniti in un unico consesso. L’occasione storica ed epocale sarà data il prossimo 17 gennaio Giornata dedicata alla famiglia. Ça va sans dire. 

Il convegno che avrà come titolo «Difendere la famiglia per difendere la società» sarà organizzato da due popolarissime associazioni che annoverano milioni e milioni di iscritti e che sono in grado di far vacillare, per autorevolezza e serietà scientifica, i governi di mezzo mondo oltre che il premio Nobel e l’assemblea dell’Onu. I più avranno già capito che si tratta nientepopodimenoche di Obiettivo Chaire e Alleanza Cattolica. Molti sorrideranno soddisfatti pensando:«L’avevo capito subito!» Naturalmente a simile evento non poteva mancare il sostegno della regione Lombardia e del suo dinamico governatore. Anzi sarà proprio lui, Roberto Maroni, senz’altro ferratissimo nella cura dell’omosessualità, a tirare le conclusioni del convegno  e a dettare le  ricette future.

Immaginarsi il Maroni, nomen omen, nei panni che furono dei Re Tuatmaturghi del medio evo è un tutt’uno. Quelli antichi con la sola imposizioni delle mani guarivano i sudditi dalle scrofole, mentre lui imponendo chissà cosa (bisognerà attendere la fine del suo intervento per saperlo) guarirà dall’omosessualità. E già si vedono frotte di lesbiche e plotoni di gay di pura fede padana, la precedenza a quelli della Lega Nord ovviamente, correre al nuovo palazzo della regione Lombardia per farsi curare. Senz’altro arriveranno anche gli altri: chi da  Verona, con il permesso del sindaco Tosi, e chi dalle altre province della oramai mini macroregione con il permesso disinteressato di Zaia. Magari arriveranno anche dal resto dell’Italia stracciando la tessera dell’Arcigay. E verranno dalla Groenlandia e dalla Kamchatka e da Čita. Saranno gente del popolo ma anche professionisti, avvocati, giudici, dentisti e artisti, gruisti, giornalisti e sacristi, tanto per dire, e  magari pure ex sindaci. La malattia non guarda in faccia a nessuno.

Chissà se il Maroni, sempre nomen omen, prima di cimentarsi con una malattia così difficile e dalle molte implicazioni sia psichiche sia fisiche vorrà provare con altre malattie ancor più perniciose e devastanti e di diffusione più ampia. Potrebbe provare con i razzisti e con i cretini,  entrambe le categorie sono più riconoscibili degli omosessuali e magari anche più a sua portata di mano.  Ci rifletta. Se può.
Ps. Per la felicità dell'Italia tutta tra gli sponsor del convegno figura anche il logo di Expo. La cosa non può che far felici per l'endorsement di immagine che ne deriverà a livello planetario.

giovedì 1 gennaio 2015

Il discorso di fine d’anno di Napolitano: doveva essere un monito e si è trasformato in una pizza.

Ultimo discorso di fine anno del Presidente Giorgio Napolitano. Tre ingredienti: autoreferenzialità, se c’ero dormivo, mal comune mezzo gaudio. Finale con minaccia: «Resterò vicino agli italiani»

Così anche quest’anno si è svolto il trito e frusto rito del discorso di fine d’anno del Presidente della Repubblica. Mediamente, negli ultimi settant’anni in cui sono stati recitati, quasi tutti si sono dimostrati dei piani esercizi di retorica: si diceva agli italiani del bene che avevano fatto e di quanto dovessero impegnarsi per il futuro. Discorsi banalotti che appena sfioravano i problemi della gente e comunque lasciavano il tempo che trovavano. Quanto a incidere sulla realtà lo zero era quasi assoluto. Un paio di giorni dopo, il 2 gennaio, i giornali, tutti, se ne uscivano con il solito commento: «discorso di alto profilo politico e morale.» Nel frattempo il Paese caracollava per i fatti propri. Alcune volte (rarissime) al meglio mentre in altre (la più parte) al peggio. Il cinismo italico è sempre riuscito a digerire qualsiasi pizza anche le peggio cotte. E, al di là del gioco delle parti, digerirà anche questa nona volta di Giorgio Napolitano.

Come nelle migliori tradizioni degli ultimi anni quello di questa sera doveva essere il solito monitone (grande monito) e invece si è trasformato in una lunga pizza con ingredienti sciapi, patita senza nessuna eccitazione. Neppure quella della contestazione che sembra oramai non faccia più effetto. Gli ingredienti quanto mai amalgamati del monitone alla fine sono stati tre, come nella pizza margherita. Il primo: per fortuna c’ero io. Il secondo: se c’ero dormivo, Il terzo: mal comune mezzo gaudio.

Subito calata neanche fosse un carico da undici punti (per gli amanti del tresette) è stata l’autoreferenzialità: quale sarebbe stata la situazione del Paese senza di me? Risposta immediata: ho tenuto in piedi la legislatura (che magari sarebbe stato meglio agire diversamente) «con ciò contribuendo a sfatare quell’idea di instabilità che accompagna da quasi sempre l’immagine del Paese.» Senza contare che «vedo l’importanza delle riforme istituzionali che sono in atto» non ultima quella elettorale. Infine l’afflato patriottico «Ho fatto del mio meglio per rafforzare l’unità nazionale.» Insomma una viva e vibrante autosoddisfazione. Contento il Presidente, contenti tutti. Per quel che ne cale.

Il secondo ingrediente, mozzarelloso quanto basta, è consistito nella denuncia, non viva e neppure tanto vibrante, dei mali di sempre che sono stati definiti « Debolezze e distorsioni antiche nella struttura sociale»  Che poi si chiamino corruzione, mafia, mondo di sopra e mondo di sotto paiono solo accidenti della storia. Patologie. E comunque bisogna «bonificare il sottosuolo della nostra società» Come? «Con intangibili valori morali.» E non è «Bollando la politica come inetta» che si ottengono soluzioni. A corollario il solito «Assillo per la condizione dell’economia, la disoccupazione gli scarsi consumi» e via banalizzando. Mancava a questa parte la domanda d’obbligo: ma Lei Signor Presidente dov’è stato dal 1953 ad oggi?  Se la risposta fosse «su Marte» la soddisfazione negli interlocutori, questa volta sì, sarebbe viva e vibrante. E soprattutto capirebbero il senso del discorso.

Il terzo ingrediente è dato dal fatalismo napoletano. «Non dobbiamo chiuderci nel nostro limitato orizzonte» Oggettivamente suona un po’ provinciale. «Guardiamo fuori e così vediamo che i problemi mondiali sono più grandi.» Come non averlo pensato prima? Ecco perché è stato coniato il detto mal comune mezzo gaudio. Anche se poi Vasco Rossi ha spiegato che il mal di pancia non si può condividere. E dovendo scegliere un maître à penser  magari conviene prendersi il secondo: più vicino alla vita di tutti i giorni. E poi il buon senso vola al livello delle persone normali.

Il prefinale è stato nostalgico: ritorniamo al  «Senso di solidarietà, del dovere e delle istituzioni degli anni del dopo la guerra» Già di quando, nel 1953, il giovane deputato Giorgio Napolitano occupava per la prima volta il seggio in Parlamento. Sempre nella speranza che non ci si auguri una guerra per avere un dopo guerra.

Il finale invece è stato quasi minaccioso: «Resterò vicino agli italiani.»  Magari anche no, grazie.