Ciò che possiamo licenziare

mercoledì 30 settembre 2015

Renzi e la sindrome del celodurismo

È una sindrome che attanaglia molti quando raggiungono posizioni di potere. La causa strutturale sta nella non compiuta relazione con il padre.Alcuni la esprimono in modo rozzo, altri con metafore, altri dicendo qui comando io. Può capitare che celodurismo e inconscio desiderio di autoevirazione vadano a braccetto.

La voglia di dimostrare di essere il padrone della situazione e di essere quello che comanda attanaglia molti, ma non tutti, tra quelli che raggiungono una qualche posizione di potere. Da qualche anno la manifestazione di questa voglia è stata definita come la sindrome del celodurismo.
Alla base di questa sindrome,  come ti sbagli, sta la non compiuta e neppure maturata relazione con il padre. Quindi il desiderio, per lungo tempo represso di poter finalmente gridare all’universo mondo: «qui comando io e non lui» e per dimostrarlo ecco il richiamo al totem della virilità nella sua forma più gagliarda. Va da sé che questa manifestazione ha da essere ovviamente simbolica, meglio non correre rischi tra l’in potenza e l’in atto.

Le cause scatenanti la manifestazione di questa sindrome possono essere le più varie. In genere sono fatti occasionali e, per dirla tutta, una vale l’altra: da chi vuole eccitare la folla in un comizio a chi vuole irridere i compagni di tavola, a chi sgomita per cercare ancora maggiore visibilità e magari attirarsi qualche simpatizzante fuori mazzo.

C’è chi nella sua dichiarazione si è espresso rozzamente (ce l’abbiamo duro), chi ha usato metafore (il capo tavola è dove mi siedo io) , altri ancora come l’attuale Presidente del Consiglio cercandosi ad ogni piè sospinto degli sparring partners a cui dire di no. A muso duro. Aggiungendo come nell’ultimo caso, il richiamo della UE al senso di realismo, «sulle tasse degli italiani decido io»
Mentre negli altri casi si è trattato di manifestazioni simboliche senza reali ripercussioni pratiche sulla vita della nazione in questo caso il «decido io» opposto da Renzi ad un suggerimento di buon senso, almeno apparente, suona non solo come una riaffermazione di celodurismo ma anche come un dispetto. Che l’abolizione della tassa sulla prima casa per tutti sia una bischerata, per dirlo alla fiorentina, lo sanno tutti. L’esercizio è già stato fatto e non ha portato risultato. Anche perché a guadagnarci effettivamente saranno solo i veri ricchi che si ritroveranno qualche  migliaia di euro di in più in tasca. E non sapranno come spenderli.  I loro consumi non aumenteranno di certo in maniera significativa. Chi ha già due camerieri non assumerò il terzo.. Per i medi proprietari il risparmio sarà di qualche centinaio di euro all’anno, poche decine al mese e non è con questi che si sosterrà la ripresina in atto. Per quelli con le case più modeste l'avanzo sarà di poche decine di euro all’anno, spiccioli su base mensile. Qualche caffè in più al bar. Senza contare che si allargherà il divario tra poveri e ricchi, e di questo non c’è certo bisogno. E poi dopo questa bella pensata da dove salteranno fuori le risorse per coprire questo mancato gettito? Magari l’idea di ridurre la tassazione sui redditi bassi ed innalzarla su quelli alti, no? E quell’altra idea bislacca di far confluire nella dichiarazione dei redditi tutti i ricavi,personali inclusi quelli finanziari, no? E si potrebbe andare avanti di buon senso in buon senso., Quel senso che Renzi Matteo sembra avere smarrito nel momento in cui si reso conto di essere per davvero il Presidente del Consiglio e che non stava sognando.

Sì, questo «le tasse in Italia le decido io» sembra più un dispetto. Ma di quei dispetti un po’ sciocchi e molto autolesionistici. Come quei mariti che per far dispetto alla moglie decidono di evirarsi.
Magari un inconscio desiderio di auto evirazione.Come dire: il celodurismo a braccetto con l'evirazione. Con un piccolo dettaglio: gli “attributi” in gioco non sono i suoi ma sono quelli del Paese.



lunedì 28 settembre 2015

Pietro Ingrao: Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto persuaso.

Era un visionario e come tutti i visionari vedeva oltre il proprio naso. Troppo per gli apparatinichi del Pci e non solo. Nel 1966 si scontrò con i miglioristi, perse ma alla luce della storia aveva ragione. Da quella sconfitta venne fuori la politica come è oggi. Nel 1976 scrisse Masse e Potere fu letto poco e ancor meno capito. In quello c’era già molto dei giorni nostri.  

Probabilmente in questa frase: «Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto convinto» c’è tutto Pietro Ingrao. La pronunciò durante l’XI congresso del Pci nel 1966. Congresso importantissimo per la definizione del successivo posizionamento e della nuova missione del Pci. Dal punto di vista storico quel congresso segnò il punto di svolta: principio della fine del partito dell’alternativa.

Nel 1966 si scontrarono due linee, quella di Amendola e quella di Ingrao. Il primo sosteneva che bisognava incalzare il centro-sinistra, nato due anni prima ma che già dimostrava tutte le sue deficienze, nell’attuazione del programma con l’obiettivo di dimostrarne l’inefficienza e proporsi come partner risolutivo. Questi erano i futuri miglioristi tra i quali, come ti sbagli, stava Giorgio Napolitano. La posizione di Ingrao andava nella direzione opposta poiché chiaramente vedeva nel centro-sinistra un pericoloso disegno di integrazione culturale e sociale di una parte del movimento operaio, e dunque il pericolo di subalternità e omologazione. Come è avvenuto. Quindi la sua proposta: non inseguire la chimera migliorista ma lavorare per un reale modello di sviluppo economico e sociale alternativo. Di cui ora si parla e si scrive, Piketty (1971) non era ancora nato. L’ha capito, adesso, anche D’Alema.  Forse.

Quel congresso fu vinto dalla componente migliorista che pose le basi per l’involuzione delle cooperative, la sola rivendicazione salariale dei sindacati e, come una buona chioccia, si mise a covare i futuri politici manager. Quelli di cui Cesare Romiti, quasi trent’anni dopo, disse «se nei ministeri gestiti da loro si fosse parlato in inglese sarebbe parso di stare in una merchant bank.» Ma in realtà risultarono inefficienti come politici dell’innovazione e manager incapaci.

Nel 1977 pubblicò “Masse e potere” raccolta di saggi visionari nei quali ipotizza «fusione tra iniziativa economica coordinata e scienza sociale» e vede come nemico del concetto di partito (di sinistra)  «la sua riduzione a coacervo di mediazioni corporative ad amministratore e sensale di spezzoni sociali e di equilibri tra confraternite.» Spiegarlo a Renzi no  sarebbe male. E aggiunge che «le fortezze ministeriali romane non sono capaci di padroneggiare la società multiforme e contraddittoria in cui viviamo.» Per finire scrive di: «assemblee che contano non per il numero e la minuzia delle leggi, ma per il coordinamento che realizzano, per la loro capacità di controllare non solo i pezzi ma l’insieme.» Bossi era di là da venire. E di citazioni se ne potrebbero fare a iosa. Non fu ascoltato allora e non è letto adesso. E poiché quelle 390 paginette formato mezzo uni sono illuminanti quanto basta capire quello che ci sta succedendo meglio lasciarle riposare sullo scaffale della libreria.

Voleva la luna, Pietro Ingrao e non l’ha avuta, ma in compenso vide con illuminante chiarezza le radici delle nostre attuali sciagure e le segnalò. Quelli che gli stavano attorno rimasero ciechi e oggi se ne pagano le conseguenze. Comunque ogni suo atto ha dato una scossa , scomoda e per questo non appieno valutata e seguita, alla coscienza collettiva del Paese. L’ha fatto anche con la sua dipartita: su twitter per alcune ore ha svuotato la componente renziana. Molti fra gli attuali supporter del fiorentino (tutti ex di qualcosa) si sono messi ad esaltarlo non capendo che ogni parola detta in suo omaggio è contestualmente di condanna alla loro attuale posizione. D’altra parte se l’avessero capito non sarebbero renziani. Spesso d’accatto. Il solito sciacallaggio.


Piccola nota biografica: in quell’anno un professore di sociologia, alla Statale di Milano, mi rifiutò la tesi su quel testo. Troppo scarno, disse. Troppo idiota, pensai.

domenica 27 settembre 2015

Se entra Verdini esco io.

Conversazione colta sull'autobus 30 barrato. I  sei corollari che stanno dietro a Verdini. La storia si ripete e di solito i remake raccontano del peggio. Esistevano i gasparriani e il senatore Amoruso era uno di questi. Polverizzata la legge sulla impenetrabilità dei corpi. L’opposizione chiwawa del Pd e il plurinquisito Verdini.

«Se entra Verdini (nel senso di Denis) esco io.» la frase, purtroppo non è mia, è stata colta al volo stando su un autobus superaffollato. Dacché la Volkswagen ha dichiarato che ritirerà undici milioni di autovetture il numero dei passeggeri del 30 barrato è aumentato vertiginosamente. Si spera che non tutti vorranno svernare sul 30 barrato. E, comunque, questo era solo l’incipit, poiché il discorso, stringato, continuava con:«Esco non solo perché Verdini è Verdini ma anche perché mi tocca dar ragione a Berlusconi e a Giovanni Toti. Che se resto poi non potrò più uscire di casa.»

E come dare torto al compagno di sofferenze del 30 barrato. L’entrata di Verdini, sempre nel senso di Denis, nell’area di governo, se non nei sottosegretariati, se non addirittura nel Pd più che dell’esistenza del surreale dimostra che la realtà supera sempre e di molto la fantasia. Non solo per il fatto in sé ma anche e soprattutto per i corollari che gli stanno attorno. Il primo è che la storia si ripete, a dispetto delle migliori intenzioni. Il senatore D’Anna, una vita politica a fare il berlusconiano duro-e-puro, a distanza di 43 anni si è messo a ricalcare le orme di John Connally. Non ricordate chi era John Connally? Nessuna preoccupazione, molto probabilmente pochissimi, tra voi quattro lettori, ha vaghezza che, da inizio corrente legislatura,  negli scranni del Senato della Repubblica ha poggiato le terga Enzo D’Anna, dopo aver passato quella precedente alla Camera dei deputati. Comunque, per vostra gioia, si svela l’arcano: John Connally fu il fondatore nel 1972 del movimento “i democratici per Nixon”. E con loro c’era anche Frank Sinatra. In questi giorni il senatore D’Anna lo imita lanciando l’appello-il-movimento-la-speranza-e-il-chissà-che-cosa-sarchiaponesco “i moderati per Renzi”. E con loro non c’è Celentano. Forse qualche neomelodico. Connally andava da sinistra a destra D’Anna da destra a sinistra. Sostanzialmente la stessa cosa. I maliziosi lo chiamano il salto della quaglia. Esercizio ginnico-politico particolarmente agito negli ultimi ventidue anni. Il Verdini talvolta o spesso nei panni dell'allenatore.

Il secondo corollario (che per intenderci è una verità conseguente di un’altra già dimostrata)  è che allo stupore non c’è limite. Paolo Romani, anche lui senatore dell’ex PdL ora di nuovo Forza Italia si appella al capo dello Stato e tuona contro la compravendita di senatori. Lo fa anche il senatore Gasparri Maurizio che insulta l’ex camerata Francesco Amoruso (sei legislature sulle spalle degli ignari contribuenti) insinuando che il suo passaggio con Verdini Denis sia dovuto esclusivamente alla voracità di consulenze. Come dire una caduta di stile. Che poi l’Amoruso fosse universalmente definito un “gasparriano”, nell’evoluzione della specie esistono anche questi, sta a dimostrare che al fondo non c’è fine. Evidentemente il fatto che Romani ed il Gasprri si siano persi le folgorazioni di Scilipoti, Razzi e altri durante la passata legislatura testimonia solo della distrazione con cui vengono seguiti i lavori, annessi e connessi, del Parlamento.

Terzo corollario: Giovanni Toti ebbe a dire che in Forza Italia non c’erano né falchi né colombe ma solo piccioni. Verità sacrosanta. In quel di Lombardia e zone limitrofe quando si dice che uno è un piccione gli si dà del grullo, del citrullo e per bene che vada dell’ingenuo. Non sarà stato contento Berlusconi. Infatti il team manager di Forza Italia,  tra una discesa in campo e l’altra, con quei maleodoranti politicanti che stanno in parlamento solo per interessi propri e non per il bene del Paese c’è andato a pranzo e cena. E li ha ben omaggiati e da loro è stato ben omaggiato senza mai accorgersi di chi in realtà fossero: anime nere e perse. Al dunque ha ragione Toti Giovanni in Forza Italia solo piccioni: dalla base al vertice. Cosa che molti da parecchi anni anni sospettavano. Adesso ci sono anche le prove. E la confessione.

Quanto corollario: esiste la penetrabilità dei corpi, quantomeno politici. Da domani infatti si avrà un partito di centrosinistra che poggia la maggioranza governativa  su una componente di centrodestra, NuovoCentroDestra,  sostenuto dall’esterno (per ora) da un’altra componente di centrodestra per portare innanzi una legislatura di destra vera. E si capisce perché D’Alema sia imbufalito: voleva farlo lui questo bel polpettone. In tutto questo l’opposizione chiwawa del Pd: i Cuperlos i Bersanis gli Speranzas pare non abbia nulla da dire. Chissà che faranno quando al senato arriverà la pratica Verdini Denis, il plurinquisito? Magari sarà solo un remake dei casi Azzollini e Calderoli. Voteranno a favore del Denis per disciplina di partito o per lealtà o per senso di responsabilità? Dimostrando così il quinto corollario che recita: tutti, anche senatori e deputati, tengono famiglia. Ma questo lo si sapeva già.


Il sesto corollario: il compagno del 30 barrato se non uscirà dal Pd dovrà passare la vita tappato in casa per la vergogna mentre tutti quelli che stanno in Parlamento continueranno entrare e usccire come se nulla fosse. E anche questo lo si sapeva già

lunedì 21 settembre 2015

La minoranza del Pd fa sul serio?

Per far sul serio ci vuole un progetto e la voglia di rischiare. Della minoranza del Pd non si capisce quale sia il progetto politico. Ha mancato molte occasioni tattiche.I posteri se vorranno giudicheranno.

La minoranza del Pd fa sul serio? Non è certo la domanda del secolo e neppure dell’anno. A voler essere buoni lo si può considerare l’interrogativo del giorno e forse della settimana. Come orizzonte temporale non si può certo andare più in là che il rischio del ridicolo è addirittura prima di arrivare all’angolo.
Quel che è certo è che a far la voce grossa quelli della minoranza ci provano, qualche volta alla Camera, qualche volta al Nazareno e, come in questi giorni anche al Senato. Quando minacciano di non votare Renzi convoca una direzione e li liquida dicendo che devono seguire i suoi desiderata legislativi: «non per disciplina di partito ma per lealtà e senso di responsabilità.» Che poi è come dire che chi non pensa come lui è un irresponsabile neanche tanto leale con il partito che l’ha fatto eleggere ovvero che lo deve fare per disciplina di partito. Ovvio.

Comunque, fino ad ora la minoranza non ha dato grandi grattacapi al segretario del partito se si fa eccezione per la seccatura, Renzi direbbe lo sbatti, di convocare periodicamente, spesso dalla sera alla mattina, una direzione straordinaria. Ne sono già state convocate 25 e tutte sono finite con lo stesso risultato: ex bersaniani, ex dalemiani, ex veltroniani, ex ulivisti tutti diventati renziani più i renziani doc vincono a stragrande maggioranza su bersaniani e dalemiani e veltroniani (se ce ne sono ancora) e ulivisti rimasti tali. Copione di una noia mortale che da quasi due anni si ripete sempre uguale. Se qualcuno ci vede un plagio ha ragione: il riferimento è a Dalla ed alla sua critica alla musica andina che noia mortale son più di tre anni che si ripete sempre uguale. Però la domanda resta: la minoranza del Pd fa sul serio?

Per fare sul serio in politica, come in qualsiasi altra attività, ci vogliono almeno due condizioni: una necessaria ed una sufficiente, più un corollario. Quella necessaria presuppone un progetto, nel caso specifico politico, che la minoranza non ha mai esplicitamente dichiarato se non per differenza. Ovvero dire il contrario di quello che sostiene il segretario Renzi. Che magari è pure giusto, ma poggia sul quasi nulla e richiede troppi sforzi per capire quale è il vero senso del busillis. Quella sufficiente è che si abbia la voglia di rischiare. Il rischio, è inteso, sta tutto nella possibilità di una prossima candidatura. E qui cominciano i distinguo perché tra quelli che possono campare anche fuori dalla politica, pochini, quelli che diventerebbero simil esodati: troppo giovani per la pensione/vitalizio e al contempo disoccupati dalla politica, poi ci sono quelli che fuori dalla politica non sanno che altro fare. Sono quelli a cui le mogli non affiderebbero neanche il cane da portare a far la pipì. 

E poi c’è il corollario: cogliere le occasioni topiche di distinguo che di solito sono occasioni tattiche. E su queste la brillante minoranza non ne ha colto alcuna. Non l’ha fatto con il job act, non l’ha fatto con la sedicente buona scuola e, per distinguersi, non ha neppure colto le occasioni offerte dai casi Azzollini e e Calderoli. In quest’ultimo si è arrivati al paradosso che il senatore (nominato e non eletto) Gotor Miguel ha votato a favore del diffamatore ed ha accettato lo spacchettamento del reato per, ha detto, disciplina di partito. Da scompisciarsi. E negli ultimi giorni questi pericolosi sinistri hanno evitato di votare contro la proposta di calendario della maggioranza rinunciando a battersi per rispedire la riforma del Senato in Commissione e come se non bastasse non hanno dato nessun aiuto al Presidente Grasso. Che quel «se apre l’articolo 2 valuteremo le conseguenze» detto da Renzi rivolto alla seconda carica dello Stato ha molto più che un vago sentore di minaccia. Quindi la minoranza del Pd sulla questione Senato farà sul serio? Vien da dubitarne ma si lasci la possibilità ai posteri di emettere l’ardua sentenza. Sempre che non abbiano qualcosa di meglio da fare.

domenica 20 settembre 2015

Renzi: da rottamatore a robivecchio

La partenza è stata alla grande poi man mano che la gara procedeva Renzi si è disunito. Ora imbarca tutti anche quelli, alla Verdini, che vanta sei processi per truffa e bancarotta. Il cambiamento non si fa con pezzi vecchi e consunti dall’uso.

Quando nel dicembre 2013 quasi tre milioni di elettori del Pd (con un obolo pari ad almeno sei milioni) si recarono alle urne per scegliere il nuovo segretario del partito non pochi pensarono (e sperarono) che se avesse vinto il giovane sindaco di Firenze molte cose sarebbero cambiate. E cambiate per davvero. Infatti ben il 68% si decise a segnare il suo nome sulla scheda. Gli altri concorrenti riuscirono a raggranellare pochissimi voti: Cuperlo il 18% e Civati il 14%. Praticamente non c’è stata storia. Infatti i vecchi marpioni del partito, gli artefici delle precedenti sconfitte non osarono confrontarsi nell’urna con il nuovo aspirante segretario. L’avessero fatto sarebbe stata una  debacle di proporzioni colossali per loro e un trionfo ancor più grande per Renzi.

In verità la vittoria di Renzi non fu tutta sua, contribuirono in bella misura anche vecchi pezzi della Dc, come Franceschini che fu il primo a fare il salto della quaglia, e del Pci, fra tutti come non ricordare Fassino e Chiamparino e anche quel De Luca da Salerno detto successivamente impresentabile ma ora presidente della Regione Campania. , Tre campioni dell’apparato di Botteghe Oscure. Comunque sull’onda dell’entusiasmo pochi, o forse nessuno, si domandò come mai nel giro di breve le preferenze per Renzi raddoppiassero rispetto a solo un anno prima. E nessuno si domandò perché mai il rivoluzionario rottamatore accettasse senza parere gli appoggi, magari un po’ inquinanti, dei vecchi apparati. Quelli da rottamare per intenderci. E ancora a nessuno venne in mente che tanta grazia dovesse in qualche modo essere ripagata. Tutti si aspettavano che il rottamatore iniziasse a rottamare. Chi con speranza e chi con ansia. Ma non accadde un bel nulla. Anzi la schiera dei rottamandi che si alleavano con il fiorentino aumentava ogni giorno: Rondolino, Velardi, Minniti, La Torre, Tonini, giusto a titolo esemplificativo. Ché l’importante è farsi trovare dal vincitore al posto giusto al momento giusto. Nella storia dell’umanità ci son stati altri fulgidi esempi e quindi anche quelli contemporanei per quanto miserrimi, ci stanno. Però se è la qualità degli alleati a dare la cifra del vincitore o del leader allora il rottamatore sta messo maluccio.

E magari accade oggi ciò che intuì Don Camillo: a grattar il Giuseppe Bottazzi (Peppone), proletario senatore del Pci, vien fuori  il Pepito Sbazzeguti piccolo borghese giocatore compulsivo e occasionalmente vincitore del Tototcalcio. E dunque oggi a grattare Renzi il rottamatore vien fuori Renzi il robivecchio, nel merito e nel metodo, che scopre nuovi amici tra ex derogati, ex bersaniani, ex dalemiani ex veltroniani, ex montiani ed ex di qualsiasi altra cosa. Per i nomi c’è solo l’imbarazzo della scelta. E a quanto si dice il presidente del Consiglio è già bell’e pronto ad imbarcare nel governo altri ex berlusconiani, alcuni addirittura ex duri e puri, che adesso si chiamano verdiniani. Di nuovo in tutto questo, nel merito e nel metodo pare ce ne sia veramente poco. Soprattutto in quel Denis Verdini che, anche se non ha mai detto come l’incauto Mastella Clemente di essere il Moggi del centrodestra, più d’uno spostamento di casacca è riuscito ad organizzarlo. Certo allora giocava nella squadra di Berlusconi che da presidente del Milan ben conosceva l’importanza di spendere per acquistare campioni della pedata. 

E per esser precisi si tratta proprio quel Denis Verdini le cui intercettazioni telefoniche sul caso La Maddalena il Senato autorizzò nell’aprile del 2014, ma di cui non si è saputo più nulla. E che è rinviato a giudizio per il caso P3, processo iniziato nel febbraio corrente anno che ci si augura arrivi a termine. Prima della (quasi) immancabile prescrizione. E poi ci sono i rinvii a giudizio per i casi del Credito Cooperativo Fiorentino (truffa e bancarotta), dell’immobile di via della Stamperia (illecito finanziamento e truffa), dell’indebita percezione di  fondi per l’editoria (truffa), della Scuola dei Marescialli (concorso in corruzione), e infine di Toscana Edizioni (bancarotta). Al dunque gente vecchia se si escludono quelli del giglio magico e metodi vecchi: insomma la solita zuppa di sempre. E anche i gufi, i rosiconi e il futuro stan diventando frusti oltre che noiosi. Rimestare la broda all’uso democristiano alla fine stanca gli ascoltatori che dello storytelling conoscono già il come va a finire.
In tutto ciò la grande fortuna di Renzi il robivecchio è che la minoranza interna, dirla di sinistra è quantomeno impreciso dato che quando è stata al governo di sinistra ha fatto ben poco, non ha una vera proposta politica e teme a tal punto di non tornare su quegli scranni che alla fine, non per disciplina di partito ma per lealtà e senso di responsabilità approverà l’inapprovabile. Che senz’altro sarà riciclo di robe vecchie.



giovedì 17 settembre 2015

Renzi, il Senato e la commedia all’italiana.

Sul Senato la Boschi ha i numeri. Renzi fa il ganassa e minaccia di trasformarlo in un museo. Nel frattempo Gotor vota a favore di Calderoli per disciplina di partito. Dopo l’uscita di Padoan non si sa più a chi togliere tasse. E ci si mette anche Squinzi. Dall’Italia se ne vanno solo quelli che non hanno senso dell’umorismo altro che cervelli in fuga.

In realtà il titolo avrebbe potuto essere Renzi più la riforma del Senato uguale la commedia all’italiana. Dato che ogni giorno questa mirabile vicenda mostra lati imprevisti. Comicamente imprevisti. La ministra Boschi sostiene che il governo ha i numeri come gli illusionisti dicono di avere i magici poteri. Il fatto è che se per davvero la ministra ha i numeri avrà modo di mostrarli senza necessariamente sfrangere l’italico popolo con le sue comparsate e battute del tipo: «È l’Europa che lo vuole» Come se all’Europa importi molto il fatto che l’Italia abbia un sistema bicamerale paritario. Eventualmente sarà più interessata al conto economico. Al fatto che i comuni comprino prodotti e servizi senza passare dall’ufficio acquisti centralizzato. Che la corruzione balli senza freni ogni volta che c’è una gara pubblica. Che si pensi a potenziare il Freccia Rossa e non i treni dei pendolari. Che la politica costi un badalucco e i partiti si facciano leggine su misura. E si potrebbe andar di lungo, ma son temi che tutti conoscono. 

Poiché il governo è ben sicuro di farcela Renzi fa il ganassa (espressione lombarda per dire chi vuol fare il di più e si atteggia a genio della lampada) e minaccia:«Chiudo il Senato e lo trasformo in un museo» Forse il fiorentino non lo sa ma ha, involontariamente?, riecheggiato chi voleva trasformare «quell’aula sordida e buia in un bivacco di manipoli.» Renzi per fortuna non ha i manipoli, quel tipo di manipoli. Anche perché vien difficile immaginare Luca Lotti come marciatore. In verità dà l’impressione fare come quei bambini che al buio urlano e cantano per far vedere che non hanno paura. Comunque la provocazione c’è tutta. Un solo dubbio: chi glieli dà in Senato i voti per abolire il Senato? Magari meglio procedere cpn il metodo Verdini, fiorentino anche lui e con un lunga esperienza in materia. Ecco allora che il Calderoli Roberto ritira inopinatamente cinquecentomila emendamenti dopo che il Senato ha deciso che gli insulti alla ex ministra Kyengé (assomiglia a un orango) sono solo diffamazione e non istigazione all’odio razziale. Forse si intende che per accendere il secondo reato avrebbe dovuto metterla in gabbia. con una catena al collo.

Naturalmente la sedicente sinistra del Pd, Gotor in testa, ha votato a favore della vergogna. «Per disciplina di partito» dice Miguel. Avrebbe potuto chiosare.:«Non per disciplina ma per lealtà e senso di responsabilità» Avrebbe fatto contento Renzi Almeno una volta. Ha mancato anche questa occasione. E comunque l’ex rottamatore fa affidamento sull’esperienza ella vecchia guardia ora tutta innovazione tecnologia e segnatamente su Anna Finocchiaro, una  che, secondo il regolamento del Pd, neanche dovrebbe essere in Senato dove è entrata come derogata. E chissà che la lettura dell’articolo 104 del  regolamento non sia una specie di uovo di pasqua con dentro allegre sorprese per il futuro prossimo venturo. 

Nell’allegra compagnia di giro ha voluto avere una parte anche il ministro Padoan che vuol eliminare la Tasi agli inquilini. Fra un po’ non si saprà più a chi togliere le tasse: le categorie cominciano a scarseggiare.. Quindi meglio affrettarsi con le dichiarazioni d’intenti. Poi si vedrà. Rimane il dubbio su chi le debba pagare e qualcuno fa il nome di Pantalone. Naturalmente delle pensioni, che magari potrebbero dare un po’ dii ossigeno ai consumi non parla nessuno. Troppo facile. 

Poteva rimaner fuori dalla commedia la Confindustria ritagliandosi uno spazio serio ed autorevole ma il presidente Squinzi, solitamente moderato ha voluto farsi notare e niente come le corbellerie aiutano nell’obiettivo. Ha quindi affermato che il lavoro va dato prima agli italiani e poi agli altri. Un amico di facebook, sitonovefebbraio, gli ha suggerito di fare un giro per le imprese edili, di ceramica, di lavorazione carne, giusto per dire le prime che vengono in mente. E poi anche una passeggiata in qualche ospedale e magari anche una guardatina in casa sua chissà che ci sia una badante rumena o una colf filippina.

E poi dicono che sono i cervelli a scappare dall’Italia. Non è vero sono quelli che non hanno senso dell’umorismo.


giovedì 10 settembre 2015

Esodati e derogati: per chi i soldi?

Nuova leggina per finanziare i partiti. Lancio di finte banconote da 500€ la vicepresidente Sereni le fa ritirare prima che qualcuno le intaschi e poi le spacci. «Darvi dei ladri è  offensivo per i ladri» urla l’on. Nuti del M5S, lo pensava anche un camorrista dell’affaire Expo. Gli esodati fanno parte del panorama, chi li tocca.

Come noto l’Italia è un Paese di santi (una volta) navigatori (meglio non citare Schettino) e poeti (ormai rari) a queste vanno aggiunte due categorie: gli esodati e i derogati.  La deroga è quello strano meccanismo per cui se c’è una legge o un regolamento od anche una semplice prescrizione si può fare come se non ci fosse. Qualche volta ci sono deroghe logiche: le donne in stato interessante saltano la fila, altre volte sono truffaldine: i condoni. A quelle truffaldine fanno capo le deroghe sui finanziamenti ai partiti. E il Parlamento, giusto per non smentirsi, ieri ne ha dato una ennesima brillante dimostrazione: derogare alla legge che taglia i vergognosi finanziamenti. Il tutto è stato fatto con una leggina che consente anche ai partiti che non hanno i conti in regola, forse son quasi tutti, di avere i denari che spetterebbero solo a chi invece ce li ha. Il ridicolo è che l’ideatore della legge, chi stabilisce la deroga e chi ne trae vantaggio sono gli stessi: i partiti. Ridicolo. Se si fosse in un Paese normale il simpatico passaggio si definirebbe come interessi privati in atti d’ufficio, o conflitto di interesse o truffa o per dirla piatta piatta cialtronaggine. Ma da noi per sedere in parlamento bisogna essere dei buoni incassatori (termine pugilistico) far scorrere le critiche sulla corazza della propria indifferenza e poi già che vi si è saper far la parte del muro di gomma. 

Il povero Padoan che fa i salti mortali per mettere d’accordo il pranzo con la cena ed ha detto che lo scivolo delle pensioni è rimandato perché mancano le risorse su questo provvedimento, c’è da scommetterci, i denari li troverà in quattro e quattro otto. Forse questo è un altro modo per mettere in pratica il famoso:«C’è chi dice sì» sbandierato da Renzi e dal suo team alla festa dell’Unità: dire sì a quello che fa comodo. Se questo è il cambiare verso non si vede la differenza con il verso che girava prima. Chissà se e cosa avrà da dire la Corte dei Conti e magari anche la Consulta su questo disinvolto modo di gestire la legge. Magari anche niente. 

«La politica costa» disse Pierluigi Bersani per difendere il principio del finanziamento ai partiti. Per inciso gli italici con un referendum dissero però che non volevano pagare il conto con i soldi dello Stato. Voti al vento. Però ci fu chi fondò il partito repubblicano e poi quello socialista e poi le società di mutuo soccorso e poi le cooperative e poi le case del popolo per arrivare a Giustizia e Libertà senza un soldo di finanziamento pubblico. Come fecero?  «La politica è passione e senso civico e interesse del paese.» tuona di tanto in tanto qualche trombone magari anche trombato o qualche rimasuglio di minoranza ma quando si vota sugli sghei chissà com’è  il senso civico e l’interesse del Paese evaporano. «La mancanza di finanziamento è un’incitazione al furto» si disse, La realtà che spesso supera la fantasia ha ampiamente provato il contrario. 

«Darvi dei ladri è offensivo per il ladri» ha urlato in aula Riccardo Nuti del M5S, unico raggruppamento a votare contro. L’opinione non è solo sua, era dello stesso avviso anche un camorrista intercettato nell’affaire Expo:«Questi sono veri delinquenti» disse e magari sottintendeva un «altro che noi.» Per irridere la placida assemblea sono state lanciate sulle teste di tutti quelli che hanno votato a favore dell’ignobile leggina finte banconote da 500€. La vice presidente della Camera Marina Sereni non ha sospeso la seduta ma ha chiesto ai commessi di ritirarle. Meglio ritirarle subito, avrà pensato, prima che qualcuno se le intaschi e poi le spacci. 

L’ignoto ai più deputato Boccadutri (Pd) relatore della leggina, ha voluto smentire la rinuncia del M5S dichiarando che: «Il M5S  non ha rinunciato a nulla. Semplicemente non hanno diritto ad alcun finanziamento perché non hanno depositato alcun documento relativo al bilancio.» Che poi è come dire che chi non deposita un documento per avere un beneficio rinuncia al beneficio. Ovvero cvd: come volevasi dimostrare. Magari scegliere del personale politico con una maggiore dimestichezza con la logica aiuterebbe. Per soluzioni sugli esodati invece buio pesto. Fan parte ormai in pianta stabile del bel panorama italico e toglierli sarebbe brutto.


domenica 6 settembre 2015

Tedeschi brava gente

I tedeschi oltre che ingegneri e laureati ci scippano anche gli appellativi migliori. Accolgono i profughi con vestiti, vettovaglie e la scritta wilkommen. Nei Landër dell’Est c’è un po’ di paura, ma la supereranno. Ai nuovi venuti insegneranno guten tag e guten morgen per Kant ed Hegel c’è tempo.

E così mentre il Salvini Matteo riempie il tendone della Lega a Buglio, nota località balneare della Valtellina che ha 2.036 abitanti, sbrodolando contro, nell’ordine, i profughi, i migranti, il governo,  mafia capitale, Angelino Alfano, Renzi Matteo, papa Francesco e magari anche Angela Merkel, i tedeschi accolgono festosi i migranti, per lo più siriani.. Lo fanno, ovviamente a modo loro: con organizzazione.
I tedeschi arrivano alla loro frontiera con auto proprie piene di vettovaglie, coperte, vestiti e, dato che come noto hanno un cuore ed amano i bambini,anche giocattoli e peluche. Naturalmente non dimenticano le bandiere, nera rosso e oro e gli striscioni dove hanno scritto wilkommen che vuol dire benvenuti. I britannici hanno che hanno ereditato dai conquistatori sassoni la stessa radice l’hanno trasformata in wellcome ma al momento non la usano con chi cerca di salvarsi la pelle.

Comunque, i tedeschi, che ci stanno scippando l’appellativo di brava gente,oltre che ingegneri e laureati vari e in un sol giorno si sono portati a casa qualche migliaio di profughi. Ovviamente si saranno preparati per tempo e con teutonica precisione smisteranno i nuovi arrivati in giro per i Landër, gli daranno un appartamento, li iscriveranno a scuola e, si può star certi che le prime parole che insegneranno saranno guten morgen, guten tag, bitte e danke. Per Kant, Fichte, Schelling ed Hegel e maghari anche Heideger  ci sarà tempo, se vorranno. E alcuni tra i nuovi quasi sicuramente vorranno. Le parolacce le lasceranno alla libera iniziativa dei nuovi venuti.

Poi senz’altro gli spiegheranno che sui mezzi pubblici si paga il biglietto, come fanno tutti loro, e che se si trova un lavoro, magari da badante o da raccoglitori d’uva dalle parti della Mosella, bisogna essere messi in regola e i datori di lavoro devono versare i contributi e che l’affitto delle case popolari va pagato. Faranno, insomma, come hanno fatto con un milione e passa di turchi, molti dei quali sono anche diventati cittadini tedeschi e come tali si comportano e si sentono. Nulla di particolarmente impegnativo. Solo buon senso.

Non che la Germania sia diventato il paradiso in terra ma, come spiega l’astro nascente della filosofia teutonica Markus Gabriel: «Ora l’idea prevalente è: essere tedeschi non è niente più che avere la  cittadinanza tedesca e parlare la lingua.» Poi aggiunge che sì, anche lì c’è qualche problema specialmente nei Landër dell’Est: «Opposizioni ci sono anche nel Baden-Würtemberg, il Land più ricco. A Est la popolazione è meno benestante e ha più paura della concorrenza di chi arriva da fuori.» Avevano anche paura dell’idraulico polacco ma poi se ne sono fatta una ragione e hanno scoperto che l’importante è essere un buon idraulico e non importa il paese d’origine.  Quindi c’è anche una Germania razzista, ma ne sono coscienti e la Cancelliera non ha difficoltà ha bollarne gli aderenti come tali. La coscienza nazionale non le farà perdere voti.

È da aggiungere anche che i tedeschi non hanno la parola “peracottaro”, se copiano due righe nella tesi di laurea, anche loro hanno un tot di furbetti,  si dimettono e magari anche si vergognano pure. Da loro a nessun ex Cancelliere verrebbe mai in mente di dire come augurio di matrimonio che le «donne, come le case e le barche si devono affittare.» E non approverebbero mai una legge per poi definirla: «Una porcata.» Tedeschi brava gente.

giovedì 3 settembre 2015

L’intervista di D’Alema a Cazzullo: piagnona.

Il Corriere della Sera regala a Massimo d’Alema una pagina per piagnucolarsi addosso. Gli fa da spalla Aldo Cazzullo. Si spazia dai viaggi in Arabia Saudita alla tomella (espressione bolognese) sull’arroganza e sulla rottura sentimentale tra partito ed elettori


Tra i giochi individuali, nel senso di uno contro uno, quando l’avversario manifesta una superiorità soverchiante, c’è l’opzione dell’abbandono.  Se il vocabolo suscita orticaria, per chissà quali ancestrali pulsioni, lo si può sostituire con ritiro. Succede nel pugilato, con il lancio della spugna, negli scacchi, facendo cadere il re, nel judo battendo la mano sul tatami e anche nel ciclismo, scendendo dalla bicicletta. Accade qualche volta anche in politica, ma solo all’estero. Si dirà che la politica non è un gioco, beata ingenuità: cos’altro è?

Qui da noi anche lo sconfitto più sconfitto, tipo D’Alema per l’appunto, continua tignosamente la sua battaglia sperando in chissà quale colpo di ventura che possa ribaltare la situazione. Poiché la sconfitta non la si attribuisce ai propri errori ma «al destino cinico e baro».  Come dire non voler considerare il contesto e le cause che l’hanno generata. Cioè la metafisica diventata realtà. L’intervista che Massimo D’Alema, con generosità gratuita, ha concesso ad Aldo Cazzullo ne è chiarissimo esempio. Al solito, con così tanto intervistato, la questione è stucchevolmente centrata sull’arroganza, sul modo spiccio di fare di Renzi e poi sui numeri che lasciano il tempo che trovano e sulla rottura sentimentale con gli elettori. Quest’ultima è nuova. Pochino pochino sulle sue scelte politiche. Dato che non è facile smentire platealmente quello che si sarebbe voluto fare e non si è fatto.

Dimentica il D’Alema che quando Renzi nel 2012 girava per le Case del Popolo se voleva un applauso facile facile bastava lo citasse e aggiungesse: «lo rottamo». Subito l’entusiasmo popolare saliva alle stelle. Che tradotto anche per non fini politici significa che il sé-dicente lìdermassimo aveva fatto il suo tempo e che anzi lui e gli altri come lui erano stati la vera causa del fenomeno Renzi. Diciamo. Il cosiddetto popolo del Pd dei vecchi politici e del loro modo di giocare la partita ne aveva le tasche piene per cui si provava a scommettere su un giovanotto che prometteva di buttarli fuori. Quella volta gli andò male, ma per quasi poco: perse contro Bersani per 60 a 40. Ovviamente per cento.  Il fiorentino attese con pazienza e al secondo tentativo, quello per la segreteria del partito, fece bingo a scapito di quanto disse il D’Alema: «sono sempre stati eletti segretari quelli che io ho appoggiato.» Profezia sbagliata C’era da chiedersi il perché ma il D’Alema non lo fece e anzi con fare saccente cercò di ammaestrare il pupo. Altro errore

L’attacco dell’intervista è decisamente dalemiano: «Sono appena tornato dall’Arabia Saudita e sono rimasto colpito  dalla percezione terribile dell’Europa.» Se lo dicesse un marziano ci sarebbe da credergli ma da uno che è partito l’altro ieri da Roma e che ha volato solo per qualche ora è l’ennesima dimostrazione di spocchia doppiata da un «Mi occupo di politica internazionale» che è come dire faccio cose e vedo gente. Insomma si direbbe il solito D’Alema se, dopo un fugace passaggio sui numeri di voti persi e  guadagnati, non attaccasse una tomella (espressione bolognese che sta per piagnisteo proungato e noioso) sull’arroganza e sul vittimismo: «Io coperto di insulti.Per ordine dall'alto è iniziato contro di me  un linciaggiodi tipo staliniano.»

Ammette di aver avuto modi sprezzanti (anche questa intervista lo è e neanche tanto tra le righe) e aggiunge: «Posso essere stato spigoloso,non sono cattivo né vendicativo» E porta ad esempi i casi di Veltroni e Prodi che sostenne per le posizioni di vicepresidente del consiglio e commissario europeo. Dimentica però di dire che lo fece per liberarsi della loro ingombrante presenza: promoveatur ut amoveatur.  Certamente mentre si autogiustifica piagnucolosamente dimentica anche quel simpatico siparietto che ebbe, nell'ottobre del 2012 con Giacchetti, suo segretario d’aula: «Ma è vero che tu stai con Renzi?» chiese «Sì è vero, sto con Renzi», gli rispose Giachetti «Allora da questo momento non ti rivolgerò più la parola» lo gelò D’Alema. E lo fece. Il che non vuol dire né essere cattivo, né vendicativo e neppure stalinista. Visto che a proposito di Renzi è saltato fuori anche il compagno Stalin. Con ciò dimenticando che lo stalinismo è anche un metodo, magari sgradevole, di governo, Che tutti, o quasi, quelli che gestiscono potere usano. E a ben vedere anche papa Francesco in certi suoi atteggiamenti ha un che di stalinista. Niente di grave. Normale amministrazione. Ci sta.

Infine gli ultimi due capoversi: i collaboratori fedifraghi e il cuore del popolo di sinistra.
Sui primi ha un moto di quasi assoluzione: «appartiene al metodo staliniano (e dai ndr) far attaccare i reprobi dai vecchi amici e dai familiari.» Come se i vecchi amici non se la fossero data a gambe dal suo gruppo per saltare sul carro del vincitore. Anzi sono stati anche loro e forse soprattutto loro a fare di Renzi il vincente. Che, è bene ricordarlo in Parlamento di veri renziani all’inizio ce ne erano pochini (avendo composte le liste Bersani) e se adesso se ne conta la maggioranza il merito non è del fiorentino ma delle folgorazioni avvenute sulla strada delle prossime liste elettorali. E poi questo è il Paese dei tengo-famiglia. Fa quindi venire un certo qual luccicor d’occhi leggere che tra partito ed elettori «è avvenuta una cosa più grave di una rottura politica: una rottura sentimentale.» Che sentir D’Alema parlare di sentimento (pubblico e politico ça va sans dire) è come immaginarsi il lupo di Cappuccetto Rosso dichiararsi vegetariano. Nessuno dei due sa esattamente di cosa si sta parlando.

martedì 1 settembre 2015

Roberto Calderoli si sposa. Così forse se ne andrà

Si spera che con il gran passo metta la testa a partito. L’anno scorso aveva annunciato il suo prossimo ritiro. Agosto per Calderoli è il mese dei buoni propositi magari settembre diventa quello dei bei fatti. Sarebbe bello se il viaggio di nozze lo facesse nel deserto del Gobi

È ben vero che visto da vicino nessuno è normale, ma è altrettanto vero che se uno non lo si guarda da vicino vien difficile trovargli del buono. Ed evidentemente in questi ultimi 14 anni Gianna Gancia, ex presidente leghista della provincia di Cuneo, deve aver ben osservato, mirato e rimirato Roberto Calderoli per trovarci quel tanto di buono che alla fine l’ha fatta decidere al gran passo del matrimonio È senz’altro stata un’osservazione lunga e minuziosa d’altra parte i cuneesi, la prossima signora Calderoli è nativa di Narzole cittadina diventata famosa alla fine degli anni ottanta per la produzione di vino al metanolo, son gente che pesa, soppesa e pondera ogni decisione. Dalla stessa provincia vengono anche Daniela Garnero in arte Santanché e Favio Briatore. Due campioni.

Quindi del buono nel Calderoli Roberto da qualche parte deve pur esserci. E lei, la Gianna Gancia, l’ha trovato e con ogni probabilità se lo vuol tenere ben stretto. Che se fosse anche custodito sotto chiave in qualche casa sperduta nella provincia granda sarebbe una gran fortuna per tutti. Ma per lei soprattutto.

Comunque ora che il Calderoli fa il gran passo si spera metta la testa a partito, come si usava dire una volta agli scavezzacolli. E lui negli ultimi vent’anni di essere uno scavezzacollo (si è nell’era del politicamente corretto quindi più in là di scavezzacollo non si va) l’ha ampiamente dimostrato. Inutile brandire il solito elenco di calderolate che son tante, quasi da guinness dei primati e sempre con un neanche tanto vago afrore becero-rozzo-trivial-razzista. Il che ci sta tutto poiché la vita di uno scavezzacollo non è un pranzo di gala in guanti bianchi.

 Già l’anno scorso, 2014 era anche allora agosto, ma l’inizio, il Calderoli aveva dato segni di un possibile, che non voleva dire certo,  impegno per il bene dell’umanità. In una intervista a Il fatto quotidiano aveva annunciato la sua prossima dipartita dalla politica dimenticando, pur tuttavia, di indicarne il giorno, il mese e soprattutto l’anno. Unico vago riferimento temporale era stato un accenno all’approvazione di non meglio precisate riforme. Il fatto che per la renziana riforma del Senato abbia presentato cinquecentomila emendamenti non fa ben sperare, ma il matrimonio invece sì. L’intenzione, diceva nel chiacchierare con il giornalista, era di riprendere i valori veri della vita. Quindi il matrimonio ci sta tutto. Dicono i bene informati, specialmente quelli che questa esperienza hanno affrontato reiterate volte per il solo amore della famiglia, sia un’istituzione calmante. Casini Pierferdinando è infatti meglio di un sonnifero.

Pare infatti che il gran passo, almeno nei primi tempi rassereni il nubendo, ne concentri l’attenzione sulle cose della casa, dia ordine e ritmo costante alla vita e, in genere faccia anche un po’ ingrassare. Il bell’ingrasso dovuto all’appagamento dello spirito e dei sensi che nulla ha a che fare con quello derivato aell’isteria politica che il Calderoli ha già provato.. Ed inoltre essendo questo il matrimonio numero due per il nostro ci sono maggiori possibilità di riuscita senza contare la fortuna di un bel congedo matrimoniale con annesso viaggio di nozze. Che una volta partiti non è detto si ritorni. Altri hanno già provato l’ebrezza della trasgressione, una camper e una vita d’avventura nel deserto del Gobi, per esempio, perché la coppia Caldereoli-Gancia non dovrebbe provarla? Lì, nel deserto del Gobi, a ponzare se si è davanti un cammello o un dromedario e a chiedersi quanti millenni siano necessari per avere quei bei granelli sfericamente perfetti di  sabbia, domande ontologicamente epistemiche di fronte alle quali la vicepresidenza del senato impallidisce. Quindi tutti a tenere le dita incrociate e a tifare per il matrimonio. Con annesso viaggio di nozze. Nel deserto del Gobi. Auguri senatore Calderoli.