Ciò che possiamo licenziare

lunedì 23 febbraio 2015

Renzi e Gasparri uniti nel segno di Pinocchio.

Il più famoso burattino del mondo accomuna, neanche li avesse scolpiti lo stesso Geppetto, due opposti. Che poi siano opposti è da dimostrare. A chiacchiere son forti tutti e due. Uno ha la nasella ma l’altro è toscano. Entrambi campano di politica. Dagli insulti all’unità.

Maurizio Gasparri, o il suo ghost magari più facile, ha passato gran parte del pomeriggio a ritwittare la simpatica vignetta che si vede qui accanto. L’opera è dei giovani virgulti di Forza Italia che se la sono ben distribuita tra loro ed ognuno l’ha poi rilanciata su Twitter. Regia eccellente e ben organizzata se è stata pensata, meglio ancora se invece frutto del caso. Che spesso è più acuto dei cervelloni strategici. Comunque quel che è certo è che Maurizio Gasparri non si è lasciato scappare un solo tweet che portasse in dote quell’immagine e subito, come una mangusta, l’ha acchiappata e l’ha ritwittata talvolta con un piccolo commento talaltra esclusivamente come passaparola. Insomma è stato messo in campo un bel battaglione a sua volta duplicato dal senatore Gasparri, non a caso figlio e fratello di generali dei Carabinieri , nonché ex colonnello  di Gianfranco Fini (sto con Fini da più di trent’anni) . 

IUn bel tentativo per controbilanciare la twittermania di Matteo Renzi. E soprattutto per vendicarsi della frase: «La  Rai è un pezzo di cultura, non può essere disciplinata dalla “legge Gasparri”» che il Presidente del consiglio ha perfidamente lasciato cadere durante un’ intervista con Lucia Annunziata. Con ciò intendendo che cultura e Gasparri se non sono proprio agli antipodi certo corrono su piste opposte. E dargli torto può venire difficile.

La prima reazione è stata all’altezza del senatore: «Imbecille. Figlio di massone. Chiacchiere e distintivo (espressione utilizzata dal cattivo Al Capone). Insider Trading. Abissale ignoranza …» poi passata la fregola, dopo una notte forse insonne, sono apparsi come vendicatori celesti i giovani di Forza Italia. E lì giù a ritwittare. C’è da dire che Renzi ritwitta poco o nulla. Sarà per supponenza o per arroganza o perché padroneggia meglio lo strumento, ma lui i tweet se li pensa e se li piazza per conto proprio. Lodevole perché è noto che fa da sè fa per tre..

C’è però un dettaglio che i giovani di Forza Italia non potevano conoscere e che probabilmente il senatore Maurizio Gasparri ha pensato bene di non segnalare fidando anche nella riservatezza dei suoi vecchi camerati e magari anche un poco sulla loro scarsa memoria. In verità sbagliando. I vecchi del Fronte della Gioventù hanno buona memoria e si ricordano perfettamente come avevano soprannominato il camerata Gasparri: Pinocchio logorroico. 

Il nomignolo gli è rimasto appiccicato anche quando è diventato segretario provinciale (Roma) del Fronte della Gioventù e poi, negli anni ottanta presidente nazionale del Fuan  che era l’associazione degli universitari neofascisti. Che però quel posto lo usurpava non essendo universitario avendo smesso con gli studi subito dopo il liceo.

Sul perché i suoi camerati lo chiamassero Pinocchio non c’è certezza. C’è chi dice per alcune bugie, innocenti si suppone, e chi invece per la protuberante nasella. Ciò che non è in discussione è la logorrea. Dategli uno spunto e il senatore Gasparri può parlare ininterrottamente per ore. E anche oltre.  Ovviamente sul contenuto non si garantisce. Mai e per nessuno. Meno che mai per Gasparri. E lo stesso è per il Renzi: gli  sia dato un microfono e ce ne si può dimenticare per ore. Si può andare a fare shopping e al ritorno lo si ritrova dove era stato lasciato.

Comunque alla fine è bello vedere che gli opposti hanno dei punti in comune. Potrebbero partire di lì ed insieme andare un po' più in là. Dove li porta il cuore. 

venerdì 20 febbraio 2015

Pena per Gino Paoli e tristezza per i militanti del gnocco fritto

Non sempre atteggiamenti e comportamenti vanno a braccetto. Le Feste dell’Unità da dispensatrici di salamelle e gnocco fritto a dispensatrici di nero. È stato anche parlamentare con il Pci ma eletto a Napoli e non a Genova e nella commissione trasporti invece che cultura.

Subito dopo l’edizione più vista del festival di Sanremo, ecco un altro piccolo scoop per il mondo della musica leggera: Gino Paoli è indagato per evasione fiscale. E già che ci si è anche per esportazione di capitali. Non è il primo e non sarà l’ultimo. Specialmente nel suo mondo. Se per gli altri si prova rabbia per lui solo pena. Pena perché è il nonno (ha ottanta anni)  che si conosce da sempre quello che ha insegnato a cantare anche agli stonati e che con le sue canzoni ha scandito molte tappe della vita di qualche generazione di italici.

Pena per Gino Paoli perché il suo romanticismo è solido e non lagnone e i lenti, per quelli che hanno avuto la fortuna di ballarli,  sulle sue canzoni erano speciali. Così speciali che qualcuno ci si è pure innamorato. Pena perché ha avuto una carriera di alti e bassi. Prima trasgressivo, musicalmente parlando con la scuola genovese,  poi vincente, poi dimenticato ed etichettato come troppo vecchio e quando vecchio ha cominciato ad esserlo per davvero s’è messo a fare tour come un ragazzino.  In fondo, per uno che ha vissuto  nel rutilante mondo dello spettacolo, non ha dato troppo da dire ai giornaletti se non per due suoi amori, prima con Stefania Sandrelli e poi Ornella Vanoni, e un tentativo di suicidio. Tutti e tre gli sono andati male: con la Sandrelli e la Vanoni si è lasciato e del suicidio gli è rimasta ancora oggi la palla in corpo, vicino al cuore. Altri atteggiamenti stravaganti, a memoria, non ne ha avuti. Si intendeva che stava dalla parte dei normali e dignitosi anche se talvolta meno fortunati e le sue canzoni di normalità e dignità tutto sommato dicevano.

Si è impegnato in politica ed è stato in Parlamento con il Pci. Stranamente eletto nel collegio di Napoli invece che in quello per lui naturale di Genova e poi è finito nella commissione trasporti invece che in quella cultura. Misteri della politica. E adesso si stava battendo per il giusto riconoscimento del diritto d’autore che dopo la notizia di oggi può lasciare qualcuno perplesso.

La tristezza invece la si riserva tutta per i militanti delle salamelle e del gnocco fritto delle feste dell’Unità, quelli che per dare una mano al partito si giocavano le ferie e con orgoglio versavano ogni sera l’incasso al segretario della sezione. Quelli che erano contenti di vedere i cantanti e gli attori democratici girare tra gli stand e fermarsi a cenare sui lunghi tavoloni dove stavano tutti. Ed era proprio bello vedere anche il compagno Gino Paoli cantare alle feste dell’Unità dove tutti pensavano che lo facesse come loro in omaggio all’idea, per intenderci: gratis  Ché questo è quello che fanno le star americane quando si impegnano per un candidato. E adesso è triste scoprire che così non era: si faceva pagare e questo, volendo, ci sta, ma come il peggiore dei borghesucci, in nero. Come dire esentasse, che loro invece quasi tutti dipendenti le tasse gli sono, da sempre, trattenute  alla fonte. E fa tristezza pensare che i dirigenti del partito abbiano accettato (o magari proposto?) quel sistema per frodare il fisco. E fa tristezza anche leggere che poco tempo fa l’abbiano fermato, il Paoli, al confine svizzero con più valuta del consentito che equivale a diversi mesi di stipendio di uno normale. E fa tristezza che magari per qualcuno questo possa essere un esempio e pensi che se anche uno come Paoli (o magari qualche  dirigente del partito) fa così alla fine è giusto fare così e che non c'è differenza con gli altri e quindi dacci dentro anche tu.

Però quel che più pesa  tra pena e tristezza è la pena. Perché deve essere duro guardarsi allo specchio tutte le mattine e radersi senza scalfire il baffo quando si sa che il comportamento non corrisponde a quello che si pensa. O magari che quello che si pensa è solo un atteggiamento. Magari per sbarcare il lunario.

giovedì 19 febbraio 2015

Twitter: Maurizio Gasparri si autocensura per Castruccio Castracani.

Maurizio Gasparri impedisce a tre follower di seguirlo. In compagnia di Castruccio sono La Vera Cronaca e Pippo Caricato. Il senatore ha oltre 58.000 follower  e solo a questi tre impedisce di seguirlo e leggerlo. Viene lanciato l’hashtag #mauriziogasparrifattiseguire. Detto senza malizia.

Si stenta a crederlo eppure è vero: Maurizio Gasparri ha deciso di autocensurarsi. La cosa avrebbe quasi del miracoloso se sotto sotto, ma proprio sotto, non ci fosse il trucco: si tratta di un’azione limitata e non rivolta erga omnes. Bello ed anche con una certa valenza civica, sarebbe stato se l’ex colonnello di Gianfranco Fini nonché partner di Ignazio La Russa nella corrente di An che, con sfoggio di creatività era stata battezzata «Destra in movimento», denominazione che dava adito a non poche ironie dentro e fuori il partito per un certo sentore di lubrico, avesse deciso di autocensurarsi completamente, ma così non è stato. D’altra parte una punizione per essere esemplare deve per sua natura essere selettiva. Nel primo caso poi più che una punizione si sarebbe trattato di una liberazione. Ma tant’è.

Tornando ai fatti: il Gasparri Maurizio, con atto unilaterale e anche di una certa arroganza che si potrebbe tacciare quasi di fascismo, ma quello staraciano che faceva sganasciare,  ha deciso di non far più leggere i suoi tweet a due frequentatori del social network e segnatamente a Vicario Imperial alias Castrucccio Catracani e La Vera Cronaca. Dopo qualche ora a questi è stato aggiunto anche Pippo Caricato non conosciuto ai due ma alla pari dolente compagno di sventura.  Ché vedersi portar via il pallone da quello dispettoso solo perché ne è il proprietario fa male due volte.

Atto d’imperio, la censura, e tanto più odioso quando viene selettivamente attivato. Un po’ come i film vietati ai minori di 14 anni. Un conto sarebbe stato se l’autocensura gasparriana fosse  stata applicata a tutti i suoi follower che sono oltre cinquantottomila e altro che solo quei tre poveri tapini siano stati inibiti dal poter leggere le gasparrate. Non c’è giustizia in questo mondo. Nel primo caso, con il pianto nel cuore e l’ira più iraconda, per le mancate risate, ci si sarebbe consolati con il classico «mal comune mezzo gaudio» ma in quello in questione resta solo la disperazione degli esclusi. Che è il peggio del peggio Solo questi tre condannati a non poter vedere la sintassi italiana bistrattata e fatta a brandelli o a non leggere Nazareno scritto con doppia zeta o a perdersi affermazioni paradossali confliggenti con il buon gusto ancor prima che con la logica. O altre simil razziste o simil omofobe: insomma a perdersi il meglio della produzione gasparriana. E poi perché solo questi tre? Non è dato sapere.

Si può comunque facilmente immaginare lo scoramento dei tre quando arrivati sulla pagina di Maurizio Gasparri hanno clickato sul bottone «segui» e anziché aprire il magico mondo hanno visto l’orrida scritta «Ti è stato impedito di seguire questo account su richiesta dell’utente» Certo a tutta prima si può immaginare che un moto di orgoglio abbia riempito i loro cuori:«l’olimpo Gasparri mi conosce» per poi lasciar spazio allo scoramento «non potrò mai più leggerlo. Salvo che non mi crei un nuovo account e lo segua in incognito.» Magia del web.. Già perché fatto il divieto immediatamente si trova il come aggirarlo. Specialmente quando il divieto è stupido. E in ogni caso decine di amici sono pronti a far circolare i 140 caratteri gasparriani in forma di samizdat.

Uno dei tre, il più legalitario, per por fine al barbaro divieto vuole ricorrere al Tar del Lazio e poi alla Corte di Cassazione e se necessario anche ai paracadutisti della RAF: nessuno può limitare la libertà di stampa e tantomeno Maurizio Gasparri a sé stesso.  Un altro, più tecnologico intende dar battaglia sul medesimo terreno e lancia l’hashtag: #mauriziogasparrifattiseguire. E che nessuno in questo vi legga malizia. Del terzo non si sa.

domenica 15 febbraio 2015

Sanremo: io non c’ero. La Melandri sì.

L’ex ministro ai beni culturali ed allo sport si è calata nel nazionalpopolare e ha twittato minuto per minuto l’ultima serata di Sanremo. Forse ci ha visto riflessa la sua carriera politica.


Non ho visto Sanremo. Pazienza. Ieri dopo il divertimento di “Non sposate le mie figlie” che raccomando, non ho avuto cuore di guastarmi  la serata e così, con amici ugualmente indisciplinati, ci siamo immedesimati in “Appaloosa” uno dei migliori film dell’epopea western. Viggo Mortensen è più eccitante di Carlo Conti e la scenografia che può offrire il New Messico è meno scontata di quella dell’Ariston e la trama, oggettivamente, è più avvincente. Se poi, come paventa Andrea Scanzi, alle prossime cene qualcuno mi chiederà del festival risponderò che non l’ho visto e quel qualcuno se ne farà una ragione. Volendo.

Chi invece ha seguito con passione, in compagnia di altri tredici milioni di italici, la manifestazione canterinara è stata Giovanna Melandri. La ragazza che lasciò il centro studi della Montedison per dedicarsi al bene dell’Italia e vivere da deputata per diciotto anni e cinque legislature non ne ha perso un attimo. A fare un giro sul suo profilo twitter si possono cogliere per minuto le sue palpitazioni. Ovviamente non è d’accordo con il verdetto uscito dalle urne, ma non è una novità. Nazionalpopolare sì ma fino a un certo punto: un po’ di chiccheria ci sta. Nessuno è mai contento del risultato neanche quelli che per tante legislature l’hanno vista eletta eppure hanno dovuto tenersela. E ce la si è tenuta non solo come parlamentare ma anche come ministro e adesso come presidente della fondazione Maxxi.

Anche al Maxxi c’era entrata per spirito di servizio giusto due minuti prima che fosse conclamata la sua rottamazione.  Un ministro montiano, Lorenzo Ornaghi, l’ha nominata presidente e lei subito ha dichiarato che non avrebbe percepito stipendio le sarebbe bastato il vitalizio parlamentare. Poi ha cambiato idea e si è data uno salarietto, quasi centomila eurini annui, a cui poi ha fatto seguito anche un bonus. Ça va sans dire.

Su Sanremo invece la Melandri ha twittato gratis come tutti: i social sono la moderna livella. E lì si è scatenata. La sua preferita è Malika e fin dall’inizio la sostiene mettendo in  seconda posizione Nina Zilli. Poi omaggia, ritwittando, Gianna Nannini e, in proprio. critica Panariello. Ovviamente non poteva mancare l’accenno a Michele Ferrero, l’hannno fatto in  tanti, anche Salvini, e in ogni salsa a riprova che la decenza è decisamente in ribasso. C’è stato anche quello.

Dopo di che in rapida sequenza e senza soluzione di continuità: si dichiara supporter di Irene Grandi di cui diventa follower doppiando la scelta con Anita Atzei, e comincia a osteggiare i Volo. Neanche a dirlo. Si strazia per il dodicesimo posto di Irene Grandi con un adolescenziale: «nooooooo.» E con l’aria di saperla lunga nel momento della proclamazione dei vincitori cinguetta un «come volevasi…» Probabilmente con questo intendendo che tutto fosse già predisposto. E a lei di simili come volevasi … ne devono aver rivolti tanti nel corso degli anni domandandosi i più che capperi ci facesse in parlamento. Infine sospende le trasmissioni dopo il desolato ritwitter di tale Paolo Russomanno che recita: «È l’Italia. Mamme commosse.». Ché, se come dice, l’Italia è ancora quella delle mamme dovrebbe ammettere il fallimento della sua permanenza negli scranni del palazzo  e confermarsi  che a nulla sia servito il suo sacrificio di ragazza di 35 anni che lascia la Montedison per servire il Paese. Se ne poteva fare a meno.

Mentre tutto questo accadeva Viggo Mortensen chiudeva la sua avventura con Ed Harris e come nei meglio film western si avvia ad inseguire il sole che tramonta. Bello. Da rivedere alla prossima occasione. Lasciando alla Melandri il resto

sabato 14 febbraio 2015

Renato Brunetta: dai sorci verdi alle preghiere.

Il capogruppo di Forza Italia si batte con energia contro il governo anche se fa fatica a mantenere ordinati i suoi. Sorride talvolta ma spaventa. È disposto a litigare con tutti anche con una segreteria telefonica.  Le sue minacce hanno effetti inversamente proporzionali al loro fragore.E alla fine piagnucola.

La cosa che piace di più a Brunetta Renato è fare la parte del rodomonte. Del personaggio ariosteo ha tutto. Cioè, quasi tutto: gli manca di essere moro. Ma nessuno è perfetto. D’altra parte se fosse moro difficilmente potrebbe stare al fianco di Matteo Salvini che come noto ama il tipo caucasico, alla Putin. Di cui si sente impareggiabile campione. Ma questa è un’altra storia.

Riempie il cuore di orgoglio nazionale vederlo spuntare dal suo scranno mentre protendendosi verso l’alto attacca con biliosa ira il governo, e segnatamente il Presidente del consiglio. In quei momenti ci si rende conto che con una decina di uomini così, magari anche un centinaio o forse meglio ancora un migliaio si potrebbe vincere qualsiasi tenzone. Ci si conferma in questa opinione specialmente quando lo si osserva battere con secca violenza la mano sulla tavoletta che sta di fronte al seggio mentre sfoggia il suo eloquio da battaglia E forse per questo il Berlusconi deve averlo scelto come capo dei deputati: ritenendolo forse l’unico in grado di tenere intruppati quegli scalmanati  discoli di Forza Italia, ma si sbagliava. Ognuno vota alla viva il parroco e senza grossi patemi.

Qualche volta il Brunetta sorride ma sarebbe meglio non lo facesse: i dentini che mette in mostra lo fanno apparire ancor più pericoloso di quel che effettivamente sia e un poco di paura la mettono soprattutto agli amici o millantati tale. Però qualche svago gli va lasciato. Pare tuttavia che sui nemici il suo ghigno non abbia lo stesso effetto.

Per Brunetta non c’è uomo che non sia nemico, a parte Berlusconi per il quale stravede, e neppure litigio che non sia degno di essere litigato e, come ha raccontato Aldo Cazzzullo, all’occorrenza  è capace di acchiapparsi anche con una segreteria telefonica. Esercizio che probabilmente pratica per tenersi in allenamento.

Negli ultimi tempi è stato portentoso e non poteva essere diverso dato che nel mirino c’era il Presidente del consiglio Matteo Renzi. Gli ha detto di tutto, da «se continuerà a fare il bullo, peggio per lui» a «dovrà rimpiangere l’accordo con Berlusconi» e poi ancora «gli faremo veder i sorci verdi» fino a «Renzi e il suo modo di fare politica sono stati sconfitti – che faceva seguito a – Ha vinto la nostra ostinazione» Queste ultime gli devono essere sfuggiate in sogno.  Ha anche dichiarato: «Lo sconfitto è il bulletto di Firenze» doppiato da un «Dalla seduta fiume alla palude. Renzi in un mare di guai.» Anche se poi prima della votazione sembrava quasi piagnucolante quando se ne è uscito con uno struggente: «per l’amor di Dio fermatevi» Laddove dimostra di non aver capito bene né la situazione né con chi ha a che fare. Ma anche i migliori fanno cilecca di tanto in tanto. Considerando il lasso di tempo che corre tra un giorno e l’altro.


Adesso Brunetta-Rodomonte vuole incontrare il Presidente Mattarella, quel signore che viaggia con Alitalia e non scomoda l’aereo di stato. Senz’altro sarà un incontro divertente: l’irruenza veneta contro la flemma siciliana. Che è assai simile a quella inglese. E forse lo stesso humor

giovedì 12 febbraio 2015

Paolo Naccarato: non come Razzi e Scilipoti ma come Razzi e Scilipoti.

Paolo Naccarato di Gal, per salvare il governo Renzi si inventa stabilizzatore che è come fecero Razzi e Scilipoti  da responsabili per Berlusconi. Ma Naccarato dice di non essere come Scilipoti.

Una delle meglio riuscite gag di Antonio Di Pietro recita così: «mia moglie, non è mia moglie» 
Che oggettivamente è da fuoriclasse e se Groucho Marx  volesse buttare un occhio agli sgarrupati politici italiani ne avrebbe da imparare. E si è certi che lo farebbe con tutto il cuore. Le battute quando son belle non fanno in tempo ad invecchiare che subito trovano ammaliati propalatori. Tra quelli dell’ultima leva si trova anche, non essendo il solo, il senatore Paolo Naccarato delle cui gesta si ricordano solo gli aficionados delle cose del palazzo.
Detto senatore fa attualmente (avverbio con cui si intende  un lasso di tempo dai confini labilissimi) parte del gruppo definito Gal, acronimo che sta per Grandi autonomie e libertà. Non che sia politicamente nato in questo dadaista gruppo, lui viene da lontano. Originariamente democristiano, con specifiche ascendenze cossighiane,  nel 1998 diede vita a Udr insieme a Mastella, Buttiglione e vari altri. Quindi per due anni, 2006/2008, ha fatto parte del secondo governo Prodi. Nel 2012 aderisce a Italia Futura e nel 2013 si presenta con la Lega Nord, di qui transita in Ncd per poi approdare in Gal. Praticamente un viaggiatore continuo che al confronto i bistrattati Razzi e Scilipoti di salti della quaglia ne hanno fatto solo uno: dall’Idv, e Di Pietro torna in ballo, al gruppo dei sedicenti responsabili che poi voleva dire Pdl. E infatti ora seggono in senato nelle file di Forza Italia. Le motivazioni ufficiali di quel passaggio furono il bene del Paese la necessità di garantire continuità al governo che tornare alle urne sarebbe stata una iattura. Ce la fecero. Le motivazioni cosiddette ufficiose facevano parte di altra categoria: la necessità, disse il Razzi, di garantirsi nel presente la continuità dell’indennità parlamentare e nel futuro il vitalizio. Intenzioni queste sdegnosamente rigettate dal Naccarato.
Innanzitutto il Naccarato, e gli altri che stanno con lui, hanno deciso con un colpo di creatività di darsi come qualifica quella di «stabilizzatore» Che se essere responsabili comporta delle responsabilità lo stabilizzare la situazione suona quasi come atto neutro. Che poi mettersi a garantire lo status quo degli avversari suona bizzarro ma tutto può essere fatto nel supremo interesse del Paese. Anche perché se si andasse ad elezioni anticipate è da vedersi se tutti gli stabilizzatori, che ovviamente sono tenuti da una famiglia, potrebbero trovare un posto in lista e soprattutto essere eletti. Quanto poi al sospetto di voler mantenere nel presente scranno e relativa indennità neanche a parlarne. E comunque dopo la confessione, a sua insaputa, di Razzi vien difficile pensare che qualcun altro ci caschi un’altra volta anche perché il Razzi aveva bollato i suoi colleghi come malfattori ognuno dei quali intento a curare i casi suoi piuttosto che quelli della nazione. E i malfattori in genere sono astuti e colgono al volo le situazioni.
Se una volta ci si poteva immolare al grido di «Dio lo vuole» ora, nell’epoca del laicismo imperante viene meglio farlo perché il «Paese lo vuole». E di fronte al bene supremo come non sacrificarsi? E così si ripercorre lo stesso sentiero del duo, che poi erano di più, Razzi-Scilipoti. Ma poiché non fa fine ecco cadere il distinguo: «io responsabile (come Scilipoti) ma non come Scilipoti» Che ad essere nei panni di quest’ultimo forse varrebbe la pena di valutare se non ci siamo gli estremi per una quereluccia per diffamazione. Anche se poi si finirebbe davanti alla Giunta per le autorizzazioni e lì, il caso Calderoli-Kyenge docet, il diritto presenta letture difformi oltre che metodi bizzarri

Diceva Benjamin Franklin che stupidità è fare sempre la stessa azione, esattamente nello stesso modo, sperando che il risultato cambi. O che ne cambi la definizione. Comunque alla fine ognuno si inganna come crede. 

sabato 7 febbraio 2015

Caso Calderoli: il verbale della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari n.59

Un verbale che manchi di dati fondamentali nessun amministratore di condominio oserebbe stilarlo. Grande produttività della Giunta in soli 65minuti: due corpose relazioni, 11 interventi e una votazione. Brillante intervento di Carlo Giovanardi. Se un reato non è denunciato non è un reato.

Il 4 febbraio, come alcuni forse sapranno, si è riunita la Giunta delle elezione e delle immunità parlamentari (1). Sul sito del Senato della Repubblica (www.senato,it) si può facilmente scaricare il verbale della riunione che ha avuto come oggetto, per dirla in burocratese: «Richiesta di deliberazione sull’insindacabilita` di opinioni espresse dal senatore Roberto Calderoli, per i reati di cui agli articoli 595, terzo comma, del codice penale e 3 della legge 25 giugno 1993, n. 205 (diffamazione con mezzo di pubblicita`, aggravata da finalita` di discriminazione razziale. Seguito e conclusione dell’esame)» (2)  

Il numero di protocollo, giusto per non farsi mancare nulla, è Doc. IV-ter, n. 4. La seduta è iniziata alle ore 13,35, recita il frontespizio. Così quelli che vivono fuori dal palazzo possono facilmente arguire che i senatori hanno avuto una pausa pranzo ridotta o addirittura che questo è stato saltato. Che per alcuni non sarebbe un neanche male.  Il tutto con il giusto tratto di demagogia.

Comunque il punto è che questo verbale dovrebbe essere portato nelle scuole di notai, commercialisti, revisori di conti nonché amministratori di condominio come brillante esempio di come un verbale non debba essere redatto. Almeno nella parte visibile sul sito del Senato.
Innanzi tutto manca l’elenco dei partecipanti alla seduta, si scopre solo alla fine che il presidente «ha constato la presenza del numero legale» Come? La Senatrice Stefania Pezzopane, via twitter ha comunicato che all’inizio vengono raccolte le firme. Le si da credito, ovviamente, ma non sono allegate al verbale. Forse la raccolta delle firme ha altri scopi, magari di gettone. Di solito gli amministratori di condominio allegano al verbale il foglio delle presenze.

Dopo di che nel verbale si legge che la Giunta respinge a maggioranza la proposta del Senatore Crimi. Già, ma quale maggioranza e composta da chi? Non è dato sapere. Infatti non solo il verbale non riporta chi ha votato come, la votazione è palese, ma neppure quanti si sono espressi a favore quanti i contrari e quanti gli astenuti. Tutte informazioni da registrare a futura memoria e utilissime per il un eventuale, si spera di no, simile caso. Un amministratore di condominio non farebbe mai un simile errore. Nel caso del Senato della Repubblica invece sì.

La seduta si chiude alle 14,40. I senatori hanno una produttività da cottimisti vecchia maniera. Infatti in solo un’ora e cinque minuti sono riusciti a farci stare la relazione di Crimi, undici interventi , una votazione e un ulteriore ordine del giorno. Sì perché oltre alla vergogna Calderoli si è parlato anche di verifica dei poteri e qui la Pezzopane ha svolto anch’essa la sua bella relazione che ha riguardato le cariche di cinque senatori in altrettanti ordini professionali.  La relazione oltre che riportare le argomentazioni sulla incompatibilità contiene anche il sunto delle cinque risposte più varie argomentazioni di diritto. Su questo secondo punto, neanche i senatori della Giunta sono bionici non si è arrivati a capo di nulla e l’esame è stato rimandato. Grande lavoro.

Giusto come divertissement il sunto di un paio di interventi e loro effetti collaterali.
Carlo Giovanardi (Ncd) che sintetizzarne l’intervento deve essere stata un’impresa, ha rilevato che: «Le opinioni espresse nel caso di specie dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario.» cosa ci sia di politico nel definire un avversario orango lo sa solo lui.
Lucio Malan (FI): «Nel caso di specie non vi è stata nessuna (meglio sarebbe dire alcuna) offesa visto che l’interessata non ha sporto querela.» Come dire che un reato non è reato se nessuno lo denuncia. Ha poi aggiunto che: «Un politico ha diritto di fare battute umoristiche, atteso che queste rientrano nel diritto di manifestazione del proprio pensiero di cui all’articolo 21 della Costituzione.» Evvabbé ci si potrebbe allo stesso modo rivolgere al senatore Malan ma non essendo politici e se lui querela il dire goliardico sarebbe reato. Evvabbé un’altra volta.
Si accodano, come ti sbagli, alle argomentazioni di Malan anche due del Pd il Moscardelli, per mancanza di querela da parte della Kyenge sua compagna di partito e il Cucca, per il contesto di critica politica. Questo l’argomento più gettonato. Alla fine intervengono in undici e solo i senatori Giarrusso e Buccarella oltre naturalmente al relatore Crimi si dicono a favore della procedibilità. Considerando che il ruolo di vicepresidente del Senato coperto dal Calderoli sia un’aggravante e non una attenuante. Nessun altro parla a favore.

Se i condomini di un qualsiasi palazzo ricevessero un simile verbale l’amministratore avrebbe vita breve, professionalmente parlando, per i senatori invece è lunga almeno cinque anni sempre che non siano ricandidati e nuovamente eletti. 
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(1)   https://www.senato.it/3717?seduta=32071
(3)   http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/814741.pdf

venerdì 6 febbraio 2015

Calderoli dice di Kyenge: orango. Il Senato assolve

Definire orango un nero si può fare, almeno se si è senatori o deputati. Dare definizioni di Calderoli è tempo sprecato. È giusto che l’onore o la vergogna ricada sui membri della giunta di cui è riportato l’elenco.

In verità Senato verrebbe voglia di scriverlo minuscolo anzi di vergognarsi proprio di scriverlo. È successo infatti che il Calderoli, chiamarlo senatore fa un po’ senso, sia stato assolto, per così dire, dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari dall’accusa di istigazione razziale. Il fatto è noto: il 13 luglio del 2013 durante un comizio dinnanzi a 1.500 leghisti, dicono le cronache, il suddetto Calderoli se ne è uscito con la frase:« Non posso non pensare ad un orango quando vedo la Kyenge.» La frase, di suo, dice già molto di Calderoli o forse addirittura tutto. Comunque così è e probabilmente non c’è alcun modo di mondarlo.

Accadde che a stretto giro che il senatore Vito Crimi, M5S, che della succitata Giunta fa parte, chiese  l’autorizzazione a procedere contro il leghista Calderoli, per istigazione all’odio razziale. È da notare che il Calderoli medesimo è anche vicepresidente del Senato e che dopo la sua frase il Presidente Grasso gli impedì, nella sostanza di presiedere per lunga pezza. Il Calderoli ebbe anche l’ardire di lamentarsene e qualche sua amica del Pd, magari aspirante la presidenza della Repubblica, raccontò all’orbe terracqueo di  quanto sia bravo il Calderoli in quella funzione. Ovviamente sulle amicizie non si può che dire: de gustibus disputandum non est. Ognuno si accompagna ai suoi simili come crede. Poi come talvolta accade le punizioni finiscono nel dimenticaroio e qualche volta lo si è vergognosamente visto sullo scranno più alto.

Dopo oltre un anno e mezzo dalla richiesta del Senatore Vito Crimi, cosa vuol dire la velocità, è finalmente arrivata la risposta: la Giunta respinge. E questa è la motivazione: «La condotta del vicepresidente del Senato è insindacabile in quanto coperta dal primo comma dell’articolo 68 della Costituzione, in base al quale "i membri del parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni".» 

Al di là di ogni altra considerazione di merito, sul metodo verrebbe da chiosare che un comizio non è stricto sensu un’esercizio della funzione di parlamentare. Chiunque può tenerne uno e un parlamentare non è obbligato a farlo.  Sul merito comunque c’è poco da dire. Se c’è chi non capisce da solo il senso delle parole del Calderoli  e la conseguente assoluzione è inutile sprecar tempo per stare a spiegarglielo.

Vale la pena comunque a loro merito ricordare chi fa parte della Giunta delle autorizzazioni perché godano del prestigio di questa importante decisione. Sono, in ordine alfabetico per non far torto ad alcuno che magari vorrebbe essere più assolutore di un altro: Dario Stefano (ex Sel ora Pd) è il Presidente, Stefania Pezzopane (Pd) è vicepresidente insieme a Giacomo Caliendo (Forza Italia), fanno da segretari Isabella Del Monte (Pd) e Benedetto Della Vedova (Scelta civica, già Pdl, già radicale). I membri semplici sono: Maria Alberti Casellati (Forza Italia) Andrea Augello (Ncd), Enrico Buemi (Psi), Felice Casson (Pd), Vito Crimi (M5S), Giuseoppe Cucca (Pd),  Nino D’Ascola (Ncd), Mario Ferrara (FI), Rosanna Filippin (Pd), Serenella Fucksia (M5S), Mario Giarrusso (M5S), Carlo Giovanardi (Ncd), Doris Lo Moro (Pd), Lucio Malan (FI), Claudio Moscardelli (Pd), Giorgio Pagliari (Pd), Erka Stefani (Lega nord).

Giusto per la statistica: in totale sono 23, di cui 16 maschietti e 8 femminucce. Del Pd sono in 9, di FI sono in 4, come quelli del M5S, di Ncd sono in 3, di Scelta civica, o di quel che ne rimane ce n’è 1 come per il Psi e la Lega nord.


Di certo concedere l’autorizzazione sarebbe stato un bel segnale, specialmente dopo le sbrodolate sull’elezione del nuovo Presedente della Repubblica e le sperticate lodi a Papa Francesco ma si deve fare con quel che si ha a portata di mano che non è né tanto né bello. Se poi adesso qualche becero rincitrullito vorrà mettersi sulle peste del Calderoli certo non ce ne si potrà stupire.

mercoledì 4 febbraio 2015

Il discorso del Presidente Sergio Mattarella. I commenti.

Quasi tutti i commenti si sono concentrati sul termine arbitro. In quello della Boschi si potrebbe cogliere una larvata minaccia. Berlusconi non ha commentato il discorso ma si è rifatto parlando con la Bindi. Pragmatico realismo del cinque stelle Sibilia.

Come sempre succede ad ogni discorso del Presidente della Repubblica gli elogi si sono sprecati. E anche il breve, oggettivamente un grande merito, discorso del Presidente Mattarella corre su questi binari. Senza contare che per l’italica stampa vale la legge dell’arrosto: l’ultimo messo in tavola dalla moglie è migliore del precedente. Per quelli sposati da trent’anni ormai si veleggia su livelli irraggiungibili neanche da un decastellato Michelin. Per loro fortuna i Presidenti della Repubblica Italiana durano solo sette anni e quindi ad ogni nuovo giro si parte da zero. Il che è un bel vantaggio.

L’attenzione dei commentatori si è focalizzata sulla frase: «L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale.» Tutti i quotidiani la riportano con grande enfasi neanche si trattasse della nuova scoperta del bosone di Higgs. In compenso un barista, che assisteva in diretta al discorso, l’ha commentata dicendo:«Se un arbitro non è imparziale non è un arbitro.» Gli avventori del momento hanno gravemente fatto segno di sì con la testa e quando uno ha buttato con nonchalance: «È solo una tautologia» il consenso è stato da stadio. Ma questi non sono stati gli unici a commentare l’hanno fatto anche i politici. E tutti con sagacia, lucidità ed acume sopraffino. 

Hanno voluto mettere il lro sigillo ala giornata praticamente tutti. Tra gli altri:

Giorgio Napolitano:« discorso esseniale, coinciso, non retorico» che per il re dei moniti deve equivalere ad una mezza bocciatura seguita comunque da un sospiro di sollievo: il palmares del ridondante, sbrodolato e retoricuccio rimane suo.
PierLuigi Bersani:«È semplicemente Mattarella, la sensibilità, la sobrietà (che l’ultima volta non ha portato bene ndr) i valori Gli do il massimo dei voti» Che Mattarella sia Mattarella non lo metterebbe in dubbio neanche Casaleggio e dare il massimo dei voti al proprio candidato suona un po’ di nepotismo. Ma d’altra parte «È quest’acqua qua» e pare ce la si debba tenere. Almeno fino al 2018. Forse.
 Giorgia Meloni: «Discorso impeccabile. Da buon democristiano» Che viene spontaneo farsi delle domande. La prima: se il discorso è impeccabile come fa ad essere democristiano? La seconda: se impeccabile va a braccetto con democristiano lei che ci fa a braccetto con La Russa?
Enrico Letta:«Mattarella sarà arbitro imparziale ma forte ed inflessibile» Che, non è neanche una tautologia essendo il ma una congiunzione avversativa. Senza contare che arbitri imparziali ma deboli ed accomodanti in giro non se ne sono mai visti.. Sono scivoloni di questo tipo che hanno reso Enrico sereno.
Maria Elena Boschi:«Il presidente della Repubblica ci esorta ad andare avanti con le riforme. Lo faremo con determinazione» E questo più che un commento al discorso del Presidente sembra una minaccia agli italiani.
Silvio Berlusconi non ha commentato il discorso del Presidente e ha fatto bene ci ha guadagnato in serietà. Poi ha incontrato la Bindi ed ha detto:«Ho visto che ha versato lacrime di commozione, non ce lo aspettavamo da un uomo … pardon da una donna.» A riprova che truzzi si nasce e non lo si diventa. Ci vorrebbe troppo studio.
Giovanni Toti : «Un discorso da Capo dello Stato. Sia davvero arbitro di tutti.»  Premio originalità. Al fatto che l’arbitro sia l’arbitro di tutti quelli che giocano ci avevano pensato in pochi. Anzi solo lui.

Carlo Sibilia  (M5S) «Ho l’impressione che se dovessi morire e rinascere ascolterei le stesse cose.» Pragmatico e realista: come dargli torto