Ciò che possiamo licenziare

mercoledì 30 dicembre 2015

Il caso Apple: come evadere le tasse e vivere felici.

Apple evade tasse per 880 milioni di euro e ne paga 318 in Italia si esulta ma anche a Cupertino. Se non ti chiami Apple e non fai parte dello star system invece sono dolori. Un conto è evadere milioni un altro poche migliaia o addirittura centesimi di euro. A evadere un centesimo si paga oltre seicento volte di più. Sui grandi evasori la differenza tra Letta e Renzi non è poi così tanta.

In realtà il titolo può essere letto anche in maniera speculare, quasi fosse un palindromo: come farsi fregare e vivere felici. In questo caso il fregato è lo Stato italiano. Che evidentemente ci gode a stare in questa situazione di allegro buggerato dato che l’ha già sperimentata non poche volte: con i produttori di slot machine e con diversi versi personaggi dello star system. 

La trama di questa farsa è sempre la stessa e le parti in commedia invece pure. Si parte con un bel accertamento fiscale dove si scopre che l’attenzionato, pare sia questo il gergo burocratico con cui si definisce l’azienda o il privato cittadino sospettato evasore, non sia in regola con il pagamento delle tasse. Per solito si tratta di evasioni importanti, di molte centinaia di milioni, quando si tratta di poche migliaia di euro la trama e i ruoli cambiano radicalmente. Si passa dalla farsa alla tragedia. Dalla fessaggine al sadismo e talvolta alla stupidità. Nel caso di Apple si recita la farsa che segue il normale copione. L’agenzia delle Entrate, accertata l’evasione, fa partire  il contenzioso che in genere dura anni e viene condotto in punta di diritto da importanti e agguerriti legali. Da questo stadio in avanti la strada per l’evasore si fa in discesa e sono rose e fiori mentre per l’italico Stato allegre fregature spacciate per esaltanti successi. Questo accadeva ancor prima che emergesse il vezzo del renziano storytelling. Ci cascò anche quel fantasioso asceta di Enrico Letta che tentò di far apparire un successo lo smacco subito con dieci concessionarie di slot machine. 

L’Agenzia delle Entrate, nello specifico di Apple, scopre che l’evasione, nei soli anni che vanno dal 2008 al 2013, è di 880 milioni che, con la media del pollo, suona circa 176 milioni all’anno. Di discussione in discussione si arriva alla fine del 2015 quando, gioia gaudioque, finalmente i legulei di Apple gettano la spugna e si arrendono: l’azienda pagherà. Già, ma quanto? La bellezza di 318 milioni si affrettano a dire con entusiasmo quelli dell’Agenzia delle Entrate e altrettanto fanno i giornaloni e le gazzette di tutto il Belpaese.  Bhé 318 milioni di euro non sono bruscolini e magari ci si sovvenziona una parte dell’abolizione della tassa sulla prima casa, deve aver pensato qualche testa d’uovo del governo. Pensiero non nuovo perché fu fatto anche dal governo Letta nell’agosto del 2013 quando si proponeva di abolire l’Imu. Alla fine tra Letta e Renzi la differenza non è poi così tanta. 

Comunque, tornando alla arida logica dei numeri risulta che Apple ha pagato solo, e si sottolinea solo, il 36% dell’evaso. Senza mora e sanzioni. Dite un po’ se questo non è un business. A Cupertino al momento dell’accordo si saranno fregati le mani contando di aver risparmiato 562 milioni di euro. Butta via. Con in più un dettaglio, magari trascurabile, ma chissà?, che dai 318 milioni Incassati dallo Stato italico dovranno essere detratte tutte le spese sostenute. Questo sì che è un business. Ora leggendo di Apple non saranno stati pochi i contribuenti che avranno pensato che se lo Stato è così tarlucco da accontentarsi del 36% dell’importo evaso allora converrà evadere anche a loro. Errore. Grave errore. Perché se l’evasione è piccola o addirittura ininfluente il Moloch dell’Agenzia delle Entrate si scatena e dà il meglio di sé. 

Ne sa qualcosa il signor Graziano Damiani di Tavullia, lo stesso paese di Valentino Rossi, guarda il caso, che per aver mal compilato un bollettino postale è stato accusato di aver evaso centesimi uno. Diconsi centesimi uno. Su di lui si è abbattuta implacabile la scure della giustizia fiscale: dopo tre anni dal fattaccio è arrivata una raccomandata di 17 pagine che ha illustrato nei dettagli il grave illecito e la richiesta del rimborso del centesimo evaso più altri nove di interessi maturati e in aggiunta la sanzione di 18,99€. In altre parole mille-e-novento-volte la posta. Fate il conto di quel che avrebbe voluto dire per Apple moltiplicare 880 milioni per mille-e-novecento-volte. Ma poiché anche su questa terra esiste un surrogato di giustizia l’Agenzia delle Entrate si è accontentata di ricevere, previo pagamento immediato, solo 6,33€. Come dire seicentotrenta volte l’evasione. Un bello sconto non c’è che dire. Che se la stessa logica, incluso lo sconto, fosse stata applicata a Apple questa avrebbe dovuto pagare 557.040.000.000€. Cioè a dire 880milioni evasi per seicentotrentatre volte. Mica male vero. Altro che abolizione della tassa sulla prima casa, in quel conto ci sarebbero rientrati anche gli esodati e l’abolizione della legge Fornero e magari pure un aumento delle pensioni minime e il riacquisto delle auto blu e il ripristino del ristorante a prezzi popolari del Parlamento. Ma questo è un sognare ad occhi aperti. 

Magari ci si sarebbe accontentati, appurata la mala fede, di ricevere l’evaso più gli interessi e la sanzione. Come succede ai normali cittadini di questo (aggiungete l’aggettivo che più vi pare pertinente) Paese. Diceva Pietro Nenni che lo Stato italiano è forte coi deboli e debole coi forti. E anche questo è il caso.

lunedì 28 dicembre 2015

La Treccani spalanca le pagine al trasgressore Vasco Rossi.

Quando la trasgressione viene celebrata dall’istituzione non si sa mai se esserne contenti o disperati. Vasco Rossi non è il primo canzonettiere ad entrare nella Treccani. A sintetizzare: Blasco è il rocker-anarco-maschilista. Trasgressivo anche nella beneficenza.

Non è una novità che la Treccani riporti una manciata di righe su alcuni protagonisti della musica leggera. C’è Gino Paoli, non per l’accusa di evasione fiscale, ma perché viene annoverato tra i capostipiti della scuola genovese, c’è Luigi Tenco, storia tragica la sua che però non viene citata. E un suicidio un po’ di audience la fa sempre. Ha trovato spazio anche Jovanotti, che a ben pensarci c’era da aspettarselo, essendo tra gli ex giovani il più democristiano che ci sia: una sorta al maschile di Nilla Pizzi, ovviamente c’è anche lei, degli anni ’90.. Si legge pure di Franco Battiato. Nella stessa enciclopedia si trovano anche un bel po’ di anarchici da Errico Malatesta a Kropotkin a Bakunin a Gaetano Bresci per dire dei più noti. Di conclamati maschilisti invece non ce n’è. O meglio non ce n’era. Da qualche giorno nella più famosa ed autorevole enciclopedia italiana ha il suo spazio Vasco Rossi. 

Blasco, cioè Vasco cioè Vasco Rossi, è un concentrato delle tre caratteristiche. È un cantautore, molto rock ma anche un po’  rithm&blues , è un anarchico, nella sostanza delle parole e sempre stando sulle parole delle canzoni, è anche uno che del suo maschismo non fa mistero. Il che nel periodo del politicamente corretto va ben oltre la trasgressione. A voler sintetizzare si potrebbe dire che Vasco sia: rocker-anarco-maschilista. E, giusto per calcare la mano, a dare per inteso che magari qualcuno non capisca il senso ampio della definizione di anarchico si aggiunge a corollario che è pure un trasgressivo ed un dissacratore. Soprattutto del becero politicamente corretto. A dar retta ai suoi testi due a campione: «Dammi una mano señorita e mettila qua vedrai che qualcosa succederà» oppure «se non capisci ancora cosa voglio da te è inutile che te lo ricordi … non ho tempo lo sai non ho tempo oramai per fare tutti quei discorsi.» viene facile pensarlo come un maschilista incallito. Anzi duro e puro. Poi però a guardare i video dei suoi concerti si vede che a cantare son tutti: ragazzi e ragazze e di tutte le età. Quelli della sua, che è del 1952, e i loro figli. Con Vasco anche il femminismo duro e puro, almeno un po’, traballa. O quanto meno chiude un occhio. Magari pensando che scende dagli Appennini terra ghiaccia d’inverno e secca d’estate che fa assomigliare gli uomini più ai lupi randagi e affamati piuttosto che ai pallidi e tormentati esistenzialisti della città. Ma chiudere Vasco nell’angusto cerchio del machoromanticismo gli si fa torto. 

Con la stessa aggressività si mette a menar colpi, sempre con le parole delle sue canzoni anche ad altri totem della retorica 2.0. «E non mi dire che sei puro come un giglio, che sei un padre perché hai un figlio, credi che basti avere un  figlio per essere un uomo e non un coniglio.» O anche a proposito della solidarietà a buon mercato: «conta sì il denaro altro che no, me ne accorgo soprattutto quando non ne ho … egoista certo e perché no, quando ho il mal di stomaco con chi potrei condividerlo … quando ho il mal di stomaco ce l’ho io mica te … cosa succede? Non succede nulla, c’è confusione sì ma in fondo è sempre quella» Magari anche, giusto per fare un riferimento alla fauna politica: «Mi ricordo chi voleva al potere la fantasia erano giorni di sogni, sai eran vere anche le utopie. Non ricordo se chi c’era aveva queste facce qui, non mi dire che è proprio così, non mi dire che son questi qui.» Perché: «C’è qualcosa che non va in questo cielo … quanta gente comunque ci sarà che si accontenterà … c’è chi dice no, io non ci sono.» E poi «Se siete ipocriti, avidi,  non siete mai colpevoli e avete nuovi stomaci sorridete, gli spari sopra sono per voi … ma se si girano gli eserciti e spariscono gli eroi e la guerra poi adesso cominciamo a farla noi non sorridete, gli spari sopra sono per voi.» E a chi non piacerebbe: «trovare un senso a questa vita anche se questa vita un senso non ce l’ha … voglio trovare un senso a questa condizione anche se questa condizione un senso non ce l’ha. Domani arriverà lo stesso. Domani è un altro giorno arriverà.» Per finire con la religione: «Metteteci dio sul banco degli imputati e giudicate anche lui,con noi e difendetelo voi, voi, buoni cristiani … portatemi dio lo voglio vedere, gli devo parlare, gli voglio raccontare di una vita che ho vissuto e non ho capito a cosa è servito.» 

E, giusto per rimanere in tema, si ricorda di quando rifiutò di partecipare al solito frusto concerto di beneficenza che serve più a far da passerella per le star piuttosto che a far del vero bene. Di solito alla fine tra costi vivi e rimborsi spese rimangono due soldi e tanti articoli di giornale e citazioni dei partecipanti. Vasco in quella occasione disse:« No. Non parteciperò a nessun concerto di beneficenza. Non amo quel modo di farla, poco costoso e poco faticoso. Certo rispetto chi la fa così, ci crede ed è sincero. Ma io penso che la beneficenza si debba fare tirando fuori i soldi dal proprio portafoglio, senza troppo spettacolo e pubblicità.» Complimenti Blasco, anche se la Treccani non ti ricorderà per questa frase: sono i rischi dell’omologazione. Molti invece tì ricorderanno proprio per questa.

sabato 19 dicembre 2015

Il cardinal Bertone Tarcisio donerà 150.000 euro. A rate.

In linea con «quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe» il cardinal Bertone ha concesso alla presidente dell’Ospedale Bambin Gesù di comunicare che donerà 150.000€. Ma lo farà a rate. Dona 150.000 avendone incassato, a sua insaputa, 200.000. A occhio e croce ci vorranno sette anni e mezzo per terminare la donazione. A Bertone gli auguri di lunga vita da parte di tutti gli atei, anticlericali e mangiapreti d’Italia.


Il cardisal Bertone Tarcisio, donerà all’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma il fantastico importo di 150.000€. E poiché nell’era della comunicazione più sfrenata non è più di moda il motto  «non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra» (Matteo 6, 1-4) la notizia è stata propalata con suono di grancassa e trombe dalla presidente dell’Ospedale, Mariella Enoc. Il perché di tanta generosità l’ha raccontato vatileaks: per la ristrutturazione dell’appartamento del cardinal Bertone è stata spesa una montagna di soldi. Per essere meno generici e più puntuali si citano notizie di stampa: 300 mila euro avrebbe speso il cardinale di tasca sua (1), sudati risparmi, e di 200 mila sarebbe stato l’obolo, chissà quanto consenziente e cosciente, versato dall’Ospedale pediatrico Bambin Gesù (2). Ovviamente, come nella migliore tradizione quest’ultimo importo sarebbe stato erogato a completa insaputa del beneficiario. Il mondo non è affatto strano come pensano taluni illusi  proprio perché si ripete continuamente. La storia del «a mia insaputa» ricorre nella cronologia delle disgrazie del Belpaese e degli Stati in esso geograficamente inglobati. 

Comunque, com’è come non è, il cardinale pur non ammettendo alcun dolo e meno che mai colpa, s’è reso conto che tutta questa vicenda ha danneggiato l’immagine dell’Ospedale pediatrico e quindi ha deciso di porvi un qualche rimedio. Questo è quanto Bertone fa dire alla Enoc. Che poi il rimedio arrivi con qualche anno di ritardo è solo responsabilità dell’essere il cardinal Bertone un teologo e come tale abituato a spezzare il capello almeno «settanta volte sette.» Ma alla fine ce l’ha fatta. L’elargizione non avverrà hic et nunc ma a rate. Essere stato arcivescovo di Genova ha lasciato qualche traccia. Però a riguardare le cifre in ballo: l’arcivescovo ha ricevuto (sempre a sua insaputa) 200mila euro e ne dona, a distanza di anni, 150mila fa venire il dubbio che qualcosa non quadri. Mancano all’appello 50.000 euro, che coi tempi che corrono non son proprio bruscoli. Così come quel «a rate» fa tenerezza poiché va ad equiparare il cardinale emerito ad una coppia di sposini che pagano a rate il divano o il lampadario. Solo a un cardinale può venire in mente di donare a rate. Il più è crederci. Infatti ad una persona normale può solo capitare di decidere di donare piccole somme ma tutte intere e subito. E poi, di solito, le rate stanno a significare il ripianamento di un debito. Altro il buon senso non suggerisce. 

Adesso comunque si tratterà di capire l’entità della rata. Se la pensione di un sì tanto porporato si aggira, come pare, intorno ai 5.000€ netti al mese e si ipotizza che per le piccole spese tra cui il mantenimento di tre suore (che ci fanno tre suore a casa sua?) ed una segretaria (una casa questa non ce l’ha?)  che stazionano in quelle stanze h24, più la luce, il gas ed il telefono, e magari Tasi e Tari se ne vadano 3.000 euro al mese ne restano solo 2.000 a disposizione della donazione. Il che tradotto nella crudezza dell’aritmetica risulta che la donazione vedrà la sua fine solo fra settantacinque mesi ovvero fra sei anni e mezzo. E in questo lasso di tempo senz’altro la mano destra saprà quello che sta facendo la sinistra. Allora non c’è che da confidare sullo stato di salute, che ci si augura forte e vigorosa, del Bertone Tarcisio che lo scorso 2 dicembre ha girato la boa degli 81 anni. E dunque nell’interesse dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù si immagina che tutti, compresi atei, mangiapreti e anticlericali incalliti, vorranno augurare al cardinale Bertone di spegnere ancora un bel po’ di candeline. Almeno sette. 
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(     2) http://www.ilpost.it/2015/11/05/si-parla-ancora-della-casa-di-bertone/

domenica 13 dicembre 2015

Caso Cucchi: e adesso le scuse di Giovanardi. E degli altri come lui

Per sei anni Carlo Giovanardi ha esternato sul caso Cucchi. Mai un dubbio od un ripensamento. Neppure una minima attenzione all’evidenza. Ora dovrà rivedere molte delle sue affermazioni. E soprattutto chiedere scusa, abbassare gli occhi e vergognarsi e con lui molti altri.

Il senatore Carlo Giovanardi è nato a Modena il 15 gennaio 1950 e quindi fra poco più di un mese compirà 66 anni. Chi vuole può fargli gli auguri, magari con la formula 1.000 di questi giorni. Che senz’altro questi giorni se li ricorderà per un bel pezzo. Di Carlo Giovanardi si può dire che stazioni con alterne fortune in Parlamento da ben 24 anni. Nel suo personale medagliere stanno cinque legislature alla Camera e due al Senato. Urca! È stato presidente della Giunta per le autorizzazioni, ministro (senza portafoglio) per i rapporti con il Parlamento nonché vicepresidente della Camera e poi sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Di quest’ultimo ruolo pochi conoscevano l’esistenza ed ancora meno l’utilità. Eppure Carlo Giovanardi l’ha ricoperto con coscienza e ardore. Il suo attivismo è stato particolarmente vivace nel cambio di casacca: nasce Dc poi diventa Ccd quindi Udc ovviamente Pdl e per conseguenza Forza Italia e quindi Ncd. Adesso è in momento di pausa, come succede a tutti i gladiatori. Di lui si ricordano le posizioni di retroguardia per non dire retrive su qualsiasi tema di valenza civile come eutanasia, omosessualità, adozioni da parte di coppie gay, droga, antiproibizionismo, unioni civili, sfruttamento degli animali. Poi, ovviamente, non potevano mancare i casi Aldrovandi e Cucchi. Insomma un’opinione su tutto e pure di più. Sulla sensatezza delle sue posizioni massima libertà di giudizio: a quelli de Il Giornale e de Il Foglio sono sempre piaciute e le hanno sostenute con vigore.  Giuliano Ferrara parlò con una certa ironia e sprezzo di Giornalismo Collettivo. Ad altri quelle opinioni parvero, per restare nel politicamente corretto, quantomeno azzardate per non dire delle colossali sciocchezze che erano tali poiché negavano l’evidenza.

Stefano Cucchi fu arrestato il 15 ottobre del 2009 e morì dopo sette giorni: il 22 dello stesso mese. Le fotografie del suo cadavere mostravano il volto tumefatto come può avere solo chi è stato sottoposto ad un duro pestaggio. Visitato all’ospedale Fatebenefratelli di Roma vennero messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso (fattura della mascella), all'addome con emorragia alla vescica e al torace (incluse due fratture alla colonna vertebrale). In altre parole scoppiava di salute. Ciò nonostante la morte fece capolino e però nessuno si fece alcuna domanda, come invece magari, vista la situazione oggettiva, qualcosa ci si poteva pure chiedere. Ma il Giovanardi che è uomo d’azione, sul pensiero meglio sorvolare, dopo neanche quindici giorni (9 novembre 2009) se ne uscì con la vera verità: «Stefano Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto, e la verità verrà fuori, soprattutto perché pesava 42 chili. La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente... sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così». A fare queste affermazioni c’era da vergognarsi anche se fosse stata la verità. Ma Giovanardi non ha mai conosciuto vergogna e quindi dopo solo tre giorni (12 novembre 2009) ha ribadito che non c’era:« relazione fra le lesioni e la morte.»  Data l’autorevolezza del personaggio non si poteva che prendere l’affermazione come oro colato. Ovviamente. E poiché come a teatro quando una recita ha successo non si fa che reiterarla eccolo ritornare sul tema grazie a Stefano Zurlo che lo dipinge come il cavaliere senza macchia né paura che aveva visto giusto fin dall’inizio. Nel pezzo pubblicato da Il Giornale del 10 aprile del 2013 il Giovanardi afferma:«Cucchi non può essere impugnato, così come s'impugna una bandiera, per sventolare la cattiva coscienza degli apparati di potere. Mi spiace dirlo, ma non è andata come ci hanno fatto credere. Io sono stato linciato per aver detto la verità» E verità per verità parlando a Radio Città Futura di droga, come ti sbagli, ritorna sull’argomento: «Stefano Cucchi era un grosso spacciatore, non solo un consumatore, basta vedere cosa hanno trovato nella perquisizione a casa». Succedeva pochi mesi fa, il 13 febbraio 2015.

Ora che le indagini, portate innanzi anche sotto la pressione dell’opinione pubblica, quel Giornalismo Collettivo irriso da Giuliano Ferrara e dall’eroica (senza retorica) battaglia di Ilaria Cucchi, hanno fatto emergere le responsabilità di tre carabinieri cosa vorrà esternare il senatore Carlo Giovanardi? Che lo faccia con la sua solita irruenza, questa volta sarà tollerata, magari anche riflettendo sui fatti. Adesso, dopo oltre sei anni di corbellerie potrà cominciare con lo scusarsi con la famiglia Cucchi e da ex carabiniere censurare con decisione i picchiatori e tutti quegli altri che vergognosamente hanno cercato di coprire quell’infamità. Se ne sarà capace.

domenica 6 dicembre 2015

Bullismo a Lecce: sei scandali.

Sequestrano ed umiliano un disabile psichico. Dei tre delinquenti da strapazzo già si conoscevano le gesta. Il filmato gira per whatsapp ma tocca molti indirizzi prima di raggiungere quello giusto. La regola sordi, ciechi e muti è sempre di moda. Sei considerazioni scandalose.

Il fatto è ormai noto, ne hanno parlato i quotidiani ei telegiornali: tre cialtronazzi di mezza tacca hanno angariato per mesi un ragazzo disabile psichico. 
Il fatto è infame: in tre contro uno sono capaci tutti di fare i gradassi soprattutto se quell’uno oltre che ad essere più piccolo è anche in condizioni di inferiorità. E il fatto è anche scandaloso in tutte le sue (mancate) derivazioni.

Primo scandalo: i tre delinquenti da strapazzo (di due si conosce il nome: Riccardo Cassone ed Edoardo Tauro, è bene che i nomi di questi circolino nella rete e non solo) non erano propriamente degli sconosciuti. A quanto dicono le cronache capeggiavano una banda di minus habens ben nota nel quartiere (o nel paese) per atti vandalici e altre questioncelle di microcriminalità. Tutti sordi, ciechi e muti.

Secondo scandalo: pur conoscendo i tre nessuno ha mai sollevato il problema. Se si fosse intervenuti subito, non necessariamente con misure di polizia, ma magari con i servizi sociali o comunità di recupero, si sarebbe potuto ottenere un qualche risultato positivo. Almeno in potenza. Ma nessuno ha fatto alcunché. Tutti sordi, ciechi e muti.

Terzo scandalo: a quanto si legge, questa tortura è cominciata nei primi mesi del 2014, quindi quasi due anni fa, ma non se ne è accorto alcuno. Eppure quel trio (o ferse erano quattro) si presentava tutti i giorni a scuola neanche fossero gli zii del ragazzo. Vedere tre delinquenti, pure un po’ fessi, presentarsi a scuola già di suo dovrebbe creare una qualche curiosità se poi prendono sottobraccio un disabile psichico più che curiosità dovrebbe generare sospetto. Tuttavia nessuno, né i compagni di classe, né gli altri studenti né gli insegnanti e neanche i bidelli che solito fanno i cerberi sulla porta della scuola s’è accorto di nulla. Tutti sordi, ciechi e muti.

Quarto scandalo: il gruppetto è così fesso (verrebbe voglia di usare l’espressione dell’ex viceministro Michel Martone, ma qui si è per il bon ton) che si fa riprendere mentre è all’opera e poi fa girare il tutto su whatsupp. Per questo sono dei minus habens. Molti o forse moltissimi vedono, si spera che almeno qualcuno provi disgusto,   ma non c’è alcuno che dica niente. Tutti sordi ciechi e muti. 

Quinto scandalo: quando finalmente, dopo chissà quale giro, l’immondo filmetto, ammesso che sia uno solo, arriva sul telefono cellulare giusto parte la denuncia e i tre vengono subito arrestati. Alleluja. Però, però… I tre sono accusati di sequestro di persona, violenza privata ed atti di bullismo con l’aggravante dell’essere stati commessi su persona con disabilità psichica. Due finiscono agli arresti domiciliari. Arresti domiciliari. Mentre il minorenne è denunciato a piede libero. Giustizia benevola.

Sesto scandalo: si scatenerà lo sdegno popolare, quello che fino ad ora nulla ha fatto. Poi il processo a chissà quando, ci sono cose più importanti da giudicare e i giudici sono sempre meno visto che si chiudono i tribunali di provincia e il fatto passerà probabilmente nel dimenticatoio. Magari ci sarà una condanna che servirà solo ad aumentare il disagio. I due maggiorenni se condannati finiranno nel reparto dei protetti, che non è un bello stare, mentre il minorenne, forse, farà un giro presso qualche carcere per minori. Ma il problema  resterà tondo tondo.

Allora per evitare lo scandalo che si fa? Magari un bel processo con rito immediato, magari  una bella condanna, che qui pensare alla presunzione d’innocenza significa aere fantasia da vendere, e magari un bell’assegnazione ai lavori socialmente utili. Magari come inservienti in una struttura per disabili. E poiché i pesci per vivere hanno bisogno dell’acqua, anche una bella verifica delle rispettive situazioni famigliari. Perché se il figliuolo combina guai meglio dare un’occhiata alle capacità genitoriali. Ci sarebbe da guardare bene anche all’interno della scuola ma troppa carne al fuoco può bruciare e quindi per la lunga marcia si parta ben con il primo passo. Che poi, si spera , che con l’esempio la situazione migliori e i sordi,ciechi e muti si trasformino in vedenti, udenti e parlanti.


venerdì 4 dicembre 2015

Al bar con la carta di credito e in gioielleria con il contante

Le bizzarre scelte di un governo che sembra presieduto dalla reincarnazione venuta male di Groucho Marx. Contante fino a tremila euro e pagamenti sotto l’euro con la carta di credito. Dal favorire oggettivamente nero ed evasione fiscale al controllo su cornetti e cappuccini. Le motivazioni di Boccadutri.


Dopo la bella pensata di innalzare la possibilità di spesa con i contanti da mille a tremila euro il governo ne ha partorita una seconda: poter saldare con la carta di credito anche quelle sotto l’euro.  Come dire che da domani dopo aver gustato il caffè al bar anziché affannarsi nella ricerca delle monete si potrà far cadere con nonchalance  nelle mani della cassiera la propria carta di credito. E questa non potrà rifiutare il pagamento anche se svantaggioso. Che tra i due ponzamenti si possa intravvedere una qualche contraddizione sarebbe logico solo se si vivesse fuori da Belpaese. In caso contrario questa è solo la normalità.  

Se la prima idea, quella dei contanti, era stata presa con l’intento di stimolare la ripresa e la crescita questa seconda «È una questione di libertà» Come non averci pensato immediatamente. Ma ancora di più, si vuole che «i cittadini siano liberi di scegliere come pagare in qualunque situazione.» Quindi un atto decisamente rivoluzionario. Bolscevico se non addirittura giacobino. Luigi Capeto, in arte Luigi XVI avesse fatto questa proposta alla riunione della Pallacorda senz’altro avrebbe salvato il collo suo, quello di Maria Antonietta e di qualche migliaio di nobili, ma tra i suoi consiglieri non c’era neanche un antenato di ventesimo grado di Sergio Boccadutri. Ci fosse stato la storia dell’Europa avrebbe preso tutta un’altra piega. Ah, già, non s’è detto che il virgolettato di qualche riga sopra è puro pensiero boccadutriano. Mica bruscoli. 

Per quei pochi che non riescono a focalizzare la figura di Sergio Boccadutri basteranno alcune pennellate per inquadrarlo. Innanzi tutto è un adamantino paladino della libertà. Che per lui significa anche, se non soprattutto, muoversi in libertà. Come per esempio, passare da Sel al Pd al seguito di Gennaro Migliore, che di Sel era il capogruppo alla Camera. Quando gli si chiede che professione eserciti risponde “dirigente di partito” però, ora che è nel Pd, al generico titolo di dirigente può aggiungere quello di Responsabile dell’Innovazione. Il senso di libertà è evidente. E non c’è libertà nella legge da lui propugnata di dar corso ai rimborsi elettorali ai partiti? Certo che sì: la libertà dell’incasso. Che per lui ex tesoriere di Rifondazione Comunista e poi di Sel deve aver rappresentato un brivido blu. Alla faccia dei cittadini che in libertà, poveretti loro, hanno in mente ben altra destinazione per quei denari. D’altra parte come non considerare innovativo e sullo stesso piano dare soldi pubblici ai partiti e andare al bar con la carta di credito? Chissà se Steve Jobs ci aveva mai pensato? E si spera solo che la notizia non arrivi alle orecchie di Zuckerberg. Il povero Mark potrebbe cadere in depressione e richiedere indietro quel 99% delle sue sostanze dato in beneficienza. Ma d’altra parte la libertà non ha prezzo.  

La meravigliosa carica di libertà e di innovazione racchiusa in quel piccolo rettangolino di plastica ha nel Boccadutri il suo esegeta più puro. Forse non c’è lui dietro l’idea di permettere il saldo di conti fino a tremila euro con le volgarissime banconote., ma non pare si sia opposto con la stessa veemenza.  Una volta, ma era in Sel voleva abolire le banconote da 500€. D’altra parte anche pagare fino a tremila euro con i contanti è scelta di libertà, oltretutto fatta a fin di bene, ovviamente. Chi non vuol sostenere la crescita e la ripresa economica? Tuttavia questa seconda opzione nasconde palpabili tratti di alienazione sociale. L’acquirente non si libererà mai dalla schiavitù del denaro contante. Che soddisfazione c’è nell’andare in gioielleria con tremila euro nel portafoglio? E dove la si mette l’allienazione che si prova nel conteggio delle miserabili e sudice banconote? No, assolutamente meglio pagare il bar con la moneta di plastica. Qualche malpensante dirà che in questo modo si saprà quando il signor Stracazzetti Alfredo (che in omaggio alla non retorica non viene qui definito metalmeccanico o ceto medio e tantomeno piccolo artigiano) e  pure quante volte si sia preso una pausa e quali quantità di cornetti e cappuccini abbia ingollato. E dal caffè pagato con carta di credito al redditometro e all’accanimento dell’Agenzia delle Entrate il passo può essere breve.  Ma qui si vede tutta la piccolezza dell’animo umano e al contempo la sua grandezza. Il signor Stracazzetti risponderà che quello non è un controllo ma un esaltante esempio di trasparenza. Non come il signor Vaffanculetti (anche lui di nome fa Alfredo) che sarà costretto a nascondere i suoi acquisti anziché vantarsene con gli amici al bar. E dovrà camminare rasente i muri per entrare non visto nelle gioiellerie e sarà sempre alla disperata ricerca di alibi farlocchi per cercare di spiegare quelle assenze non giustificate dalla carta di credito. Con quella mefitica alea di aver favorito il nero, l’evasione fiscale e pure l’elusione. Il discredito sociale ed il pubblico ludibrio potrebbero portarlo alla disperazione. Niente paura, non succederà. 

L’italico popolo è forte abbastanza e cinico il giusto, per poter digerire anche le strampalate iniziative di questo governo che sembra presieduto da una reincarnazione, venuta male, di Groucho Marx e che nelle figure di contorno annovera aspiranti spalle da avanspettacolo. 

giovedì 3 dicembre 2015

Pier Carlo Padoan è come Giulio Tremonti

Apparentemente diversi sono la fotocopia l’uno dell’altro. Appartengono alla categoria di quelli che sono bravissimi a dirti domani perché non si è avverato oggi quello che avevano previsto ieri. Le scuse di Tremonti erano l’11 settembre e la globalizzazione per Padoan il terrorismo di Daesh e le stragi di Parigi. Quanto a tagliare i costi inutili sono uguali: il nulla del nulla.


Durante la prima Repubblica era un vezzo dire che la situazione italica era instabile perché si cambiava governo  praticamente ogni anno. Era un grave errore. Il Belpaese dal dopoguerra alla scomparsa dei partiti tradizionali ha avuto ininterrottamente un solo, stabile, stabilissimo, governo. È stato unicamente per non perdere la nomea di creativi pasticcioni ed arruffoni che si ruotava spesso il Primo Ministro, anche perché tutti tenevano famiglia e qualcuno anche di più. Per cui in alcuni casi, essendo il turno di uno che già c’era stato, si è provveduto addirittura a numerarli come i re con lo stesso nome. Ma a parte questa umana debolezza per il resto tutto procedeva come sempre: il governo in carica assomigliava a quello precedente ed era la fotocopia di quello successivo. 

La seconda repubblica non ha voluto essere da meno, d’altra parte come cambiare natura? Impossibile, sarebbe come chiedere ad un bradipo di cimentarsi nei cento metri. E quindi avanti con le stesse somiglianti politiche facendo finta che tutto cambi,  ma non è vero. Ovviamente a simile prassi non sfuggono neppure i singoli ministri e in special modo quelli dell’economia. Anche qui bisogna che tutto cambi, ma anche no. E Pier Carlo Padoan assomiglia drammaticamente al suo predecessore più famoso Giulio Tremonti. Al di là dell’appartenere entrambi alla dannata categoria che, con puntualità scientifica,  saprà spiegare domani  quanto non si avverato oggi delle loro previsioni di ieri.  Entrambi sono portatori di occhiali che probabilmente usano più per estetica che per vederci meglio. Altro in comune non sembrano avere. E invece no. Sono uguali nello spirito più ancora che nel fisico. 

Tremonti negli ultimi anni della prima decade di questo millennio sosteneva che la crisi non c’era ed era tutta un’invenzione dei comunisti disfattisti, adesso Padoan ci dice che la crisi è finita e che non c’è nulla da temere. Gli errori di entrambi sono evidenti. Tremonti per giustificare la crisi che non vedeva, neanche con gli occhiali, diceva che era tutta colpa dell’11 settembre o alternativamente della globalizzazione. Che entrambi i fatti si fossero concretati un decennio prima gli sfuggiva. Così come succede al Padoan: se nel terzo trimestre i consumi sono calati da la colpa è del terrorismo islamico e delle stragi di Parigi che però sono accadute nel quarto trimestre. Per dirla come uno che fa finta di intendersene. Insomma la colpa non è della propria miopia, ma sempre di qualcosa d’altro. Tutti e due, pur se in tempi diversi, hanno tuonato contro gli sprechi della spesa pubblica: Tremonti tuonava e basta mentre Padoan fa parte del governo che ha bruciato almeno un paio di esperti che avevano presentato report di migliaia di pagine sulla riduzione della spesa, ma il cui unico risultato, visto lo spreco di carta, è stato un ulteriore indebolimento della foresta amazzonica. Uno aveva in mente la finanza creativa che si risolveva nelle cartolarizzazioni l’altro invece vuol fare cassa vendendo quello che funziona invece di quello che non è capace di gestire. Il che praticamente è la stessa cosa. Entrambi dicono di rifarsi a esperienze imprenditoriali ma non si sono domandati perché Marchionne, quando ha avuto bisogno di denaro, abbia venduto i carrelli elevatori OM invece della Ferrari. E comunque quando ha venduto un pezzetto di Ferrari l’ha piazzato in borsa a scanso di equivoci. Ma forse era troppo complicato da capire come nel caso della revisione della spesa. 

Sia Tremonti che Padoan si sono trovati d’accordo nel dire che più contante circola meglio è. Il primo non voleva limiti il secondo l’ha innalzato da 1000€ a 3000€ ed entrambi hanno sostenuto con cipiglio severo e scientifico che le loro rispettive posizioni non influivano né sul nero né sulla evasione fiscale. Anime candide. A Padoan peraltro sfugge che l’importo da lui posto come limite massimo è il doppio dello stipendio mensile di un italiano medio. Come dire che un impiegato se ne vada in giro con in tasca due mensilità, magari in banconote di piccolo taglio. Da ridere.  Ma da sbellicarsi è che ieri si è approvato un provvedimento che obbliga i baristi ad accettare il pagamento di un caffè con la carta di credito. Che ci sia una discrepanza, ancorché minima, tra i due pensieri può balzare all’occhio di uno sprovveduto ma non a quello di un ministro. Troppo impegnato a guardare altrove.  E per finire la chicca: Tremondi con l'autorevolezza che gli deriva da chissà chi ha sostenuto che 
«Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi» non è solo una brillante e ossimorica formula teorica ma un un modo d’essere ed un dato di fatto imprescindibile che nel Belpaese si concretizza pressoché quotidianamente. Specialmente quando si tratta di ministri dell'economia. E poi ci si domanda perché gli altri non capiscano le italiche capriole.  Ci vorrebbe un genio ma anche in Europa ce ne sono pochi. In genere lì si trova gente normale.

mercoledì 2 dicembre 2015

A Concita De Gregorio non piace la Svizzera. E poco anche Bolzano.

Sulla proposta di un oscuro senatore del Pd di mettere le targhe alle biciclette la giornalista ironizza sugli abitanti di Bolzano che fanno tanta simpatia e dice di non voler essere paragonata per usi e costumi alla Svizzera. Magari a qualcuno piacerebbe condividere qualche plus (mica tutti) della Confederazione. Le alzatacce procurano brutti scherzi.

Concita De Gregorio, editorialista di La Repubblica, 52 anni, quattro figli e attuale conduttrice di PrimaPagina* su Rai radio 3, non vorrebbe essere paragonata «per usi e costumi alla Svizzera.» 
In altre parole la Svizzera non le piace. Ad altri non piace il Liechtenstein  e si è sentito anche di qualcuno a cui non piace la Kamchatka e a un paio è antipatica l’isola di Pitcairn. Di per sé non è una gran notizia e probabilmente i quattro elvetici che seguono la trasmissione se ne faranno una ragione e continueranno a vivere placidamente. Il fatto che colpisce è da cosa ha tratto spunto questo inopinata esternazione. E i corollari che a questa fanno da contorno. Il tutto nasce dalla proposta di tal Marco Filippi, oscuro anzi oscurissimo senatore del Pd, uno dei tanti nominati dalla segreteria di partito e spedito a posare le onorate terga sugli scranni del Senato. È a tal punto ignoto il suddetto senatore che wikipedia su di lui riporta solo due, due di numero, righette striminzite. Nella prima si dice che è nato a Livorno il 5 agosto del 1963, e di questo non si può fare alcuna colpa né all’anno né alla città. E si aggiunge che è un politico (parola da usare con cautela direbbe Aristotele) italiano. La seconda in compenso recita: “Nel novembre 2015, con un emendamento a un ddl delega, ha proposto di eventualmente tassare le biciclette” Non ci fosse stato questo exploit autunnale la riga con i dati demografici, parziali, sarebbe rimasta sola. Comunque, al di là e al di qua di questo il nulla. Come giusto che sia. Ora la proposta del senatore toscano vuol mettere le targhe e far pagare il bollo alle biciclette. Orrore. Stupore. Scandalo. Che proprio un figlio di Toscana, terra di nobili e campionissimi ciclisti come Ginaccio Bartali, Gastone Nencini, Fiorenzo Magni, Franco Ballerini e financo Mario Cipollini, pensi di tassare le biciclette ha quasi del surreale, soprattutto mentre si discute (ma è per finta) sul come arginare le nefande conseguenze dell’inquinamento procurato dalle automobili. In quanto a tempismo il senatore Filippi potrebbe correre nelle gare a cronometro. E quindi giù proteste e telefonate indignate. Fin qui l’atteggiamento della Concita De Gregorio è lievemente ironico e sostanzialmente neutro.  Ma poi accade il fattaccio.
Questo si presenta sotto le spoglie di un sms che la giornalista presenta così: « Mi scrive un sms Stroble da Bolzano che dice che in Svizzera e in altri Paesi europei le biciclette devono avere la targa questo per via di incidenti. Io non so … ora poi, con tutto il rispetto dei nostri amici di Bolzano che mi fanno molta simpatia ma Bolzano non è Roma, è una città che amo tantissimo non è Roma non è Milano non è Napoli. A Bolzano gli incidenti stradali in bicicletta sono più rari eppure non so se vorrei essere paragonata per usi e costumi alla Svizzera. Vediamo. Un’altra telefonata.» A parte l’evidente incongruenza tra i rari incidenti bolzanini in raffronto a quelli, supposti più numerosi, di Milano, Roma e Napoli che proprio per questo varrebbe la pena di richiedere una qualche regolamentazione, c’è l’irridente commento «agli amici di Bolzano che fanno molta simpatia» e infine l’affondo sugli usi e costumi della Svizzera. Saranno i vicini svizzeri un po’ noiosi, forse, un po’ seduti, forse, poco creativi, forse, e magari un po’ freddini, forse, ma se si va a vedere una partita di hockey dalle loro parti si cambia idea. In compenso la loro economia gode buona salute, se hanno un problema lo risolvono con un referendum (e senza questioni di quorum e conseguente invito ad andare al lago da parte dei politici. Loro il mare non ce l’hanno). E poi tutti pagano le tasse che sono basse e a confronto di quelle italiche una vera inezia, gli evasori o elusori fiscali finiscono dritti dritti in galera e soprattutto ci restano, hanno le strade pulite e tombini non intasati dalle foglie neanche d’autunno, fanno la raccolta differenziata e molti si autoproducono il compost con cui fertilizzano il giardino davanti a casa e l’orto dietro. Si potrebbe parlare anche dei treni locali che sono puliti e funzionano anche di notte, ma perché infierire.  In più hanno vinto la Coppa America e primeggiano nel tennis e nello sci e anche con il calcio non sono messi male. E sui plus dei quattro cantoni si potrebbe pure andare avanti. Ora perché non si dovrebbe essere contenti di essere paragonati per usi e costumi alla Svizzera?  E prima di tirar fuori la questione della antica xenofobia si pensi a quel che si fece a Torino con gli italianissimi fratelli calabresi e campani e siciliani.
Magari, qualche volta, le alzatacce per commentare i giornali del mattino impediscono a tutte le sinapsi di essere attive e non ci si accerta che ci sia collegamento tra cervello e bocca. Capita. E questa è stata una volta di più.
*Puntata del 1 dicembre 2015

martedì 17 novembre 2015

Neanche la guerra è più una cosa seria.

La guerra non va lasciata nelle mani dei militari ma neanche in quelle di politici. A leggere le dichiarazioni di Bersani, Gasparri, Salvini e Maroni i cittadini dovrebbero mettersele nei capelli. Gasparri è la reincarnazione di Groucho Marx? Daesh (Isis) vende petrolio sottocosto ai Paesi dell’occidente e con i ricavi compra, sempre dagli stessi le armi con cui fa stragi.

Diceva George Clemanceau che la guerra è questione troppo seria per lasciarla nelle mani dei militari, vivesse ai giorni nostri aggiungerebbe che neanche le mani dei politici sembrano essere quelle giuste. E questo :per tutti i politici esteri e nostrani. Sui nostrani poi si toccano vette di ridicolo difficilmente immaginabili.

Tra i tanti fiori sbocciati in questa tragica situazione due hanno colpito in particolare: i tweet di Pierluigi Bersani  e di Maurizio Gasparri che, chissà quanto casualmente si trovano su sponde opposte. Bersani ha twittato: «oggi è il giorno della solidarietà alle vittime e a tutto il popolo francese.  Da domani bisognerà ragionare …» Affermazione aspirante ad essere pregna di chissà quali significati con quei puntini di sospensione, ma che in realtà fa venire il dubbio che solidarietà e ragionamento non possano stare insieme e che queste viaggino su due piste ben distinte e con traguardi diversi. Per poi finire alla domanda fatidica: già, perché pensarci da domani e non ci si è cominciato a pensare prima? Molto, ma molto più ardua l’esegesi del tweet gasparriano che recita così: «Far alzare in volo aerei italiani, americani, russi francesi, tedeschi ect., e radere al suolo #Isis entro 24 ore» Che fa dire: ma non poteva dirlo prima e soprattutto suggerirlo alle teste d’uovo del Pentagono che evidentemente non ci hanno pensato? Poi ci sono due questioni di bon ton: la prima e che non è stata nominata la Raf, e qui gli alleati britannici potrebbero aversela a male che il Gasparri non li abbia citati in suo tweet, mentre la seconda riguarda quell’ ect., a chi avrà mai  voluto riferirsi l’esimio stratega? E poi con quell’ ect intendeva coprire una potenza segreta, sì ma quale?, o aveva senso dispregiativo? Che in questo secondo caso i britannici di cui sopra avrebbero vieppiù d’adombrarsi. Emblematico poi il lasso di tempo concesso: 24 ore E se ce la facessero in meno? Neanche Groucho Marx sarebbe riuscito a coniarne di queste dimensioni.

Per carità di patria si tralascia ogni commento sulle esternazioni di Salvini e di Maroni che ha dichiarato: «ci vuole un’altra Lepanto» Mirabile idea di qualche intellettuale del suo ufficio stampa poiché si ha qualche dubbio che il governatore della Lombardia sappia esattamente a cosa sta facendo riferimento. Così come non si commenta il vergognoso titolo di Libero che sta a dimostrare come il toccare il fondo, anche della vergogna, sia impossibile.

Comunque, nella rete si è sparsa la voce che il Gasparri sia la reincarnazione di Groucho Marx ma questi, che se ne sta comodamente sdraiato in un’amaca nell’aldilà, ha immediatamente dichiarato: «Grazie, ho avuto una reincarnazione meravigliosa. Ma non era questa.» Se, dunque, tali sono le mani in cui si dovrebbe lasciare la questione guerra i poveri cittadini, per parte loro, dovrebbero mettersele nei capelli, per lo meno. Ma è lasciata ampia libertà per ulteriori posizionamenti.

Tra tutte le guerre che l’umanità nella sua millenaria storia ha covato in seno questa sembra la più bizzarra. È detta guerra di religione tra cristianesimo e islam ma le legnate più sonore se le suonano tra sunniti e sciiti che sono entrambi islamici. Peraltro è storia che i cristiani conoscono già avendola praticata diverse volte e con particolare risultato durante la notte di san Bartolomeo, guarda caso in Francia e segnatamente a Parigi. I migliori alleati islamici dell’Occidente sono proprio quelli che con più dovizia di mezzi finanziano i tagliagole di Daesh. Ma allora che alleati sono? Le armi agli uomini di Abu Bakr al Baghdadi vengono dai Paesi dell’occidente e dalla Russia. Che basterebbe non dargliele più e questi sarebbero alle corde, Così come i terribili islamici vendono proprio ai loro nemici petrolio sotto costo e droga e reperti archeologici. E i proventi di quel business tornano in occidente per l’acquisto i armi. Come dire uno scambio alla pari. E il circolo si ripete. C’è proprio da non capirci alcunché.

E poi c’è l’unico fatto serio: il terribile dramma degli uomini, delle donne e dei bambini che vengono ignobilmente sacrificati nei conflitti e negli atti terroristici di tutto il mondo. Per loro vale solo la “solidarietà”. Parola che viene profusa a piene mani, ma di cui non si vedono chiaramente né i confini né la concretezza. A chi la dice costa nulla, in fondo è classica, fa chic e non impegna.


giovedì 5 novembre 2015

Farse vaticane: ora i monsignori non ridono più.

I documenti vaticani raccontano storie che paiono uscite dai film di Risi-Monicelli-Comencini-Scola. Ma forse i quattro registi si sono ispirati ai fatti di Oltretevere. I cattolici italiani e gli altri nel mondo si meritano di meglio. I giornalisti che hanno scritto libri su queste vicende sono accusati di averlo fatto per denaro, ma chi da millenni arraffa le monetine delle elemosine non può capire.

Il fatto eclatante rispetto a una decina di giorni fa  è che i monsignori Vallini, Galantino, Becciu e Bertone, giusto per dire i primi che vengono alla mente commentano meno i fatti di Roma. Era bello, si fa per dire, sentire i commenti dei porporati farsi beffe delle sciagure dell’ex sindaco Ignazio Marino e definire quei tragici giorni come «farse romane» e aggiungere che Roma «si merita di meglio». Adesso ridono un po’ meno anche perché pare proprio che quel che salta fuori dalle carte esportate dalla Città del Vaticano li stizzisca. Eppure no, dovrebbero ridere a crepapelle.

A dar credito a quel che si legge sui giornali e sui due recenti libri pare di assistere al concentrato di quaranta anni di commedia all’italiana. Laddove non si capisce se sono stati i porporati vaticani a copiare Risi- Monicelli-Comencini-Scola o questi a prender spunti da quel che vedevano succedere Oltretevere. Quel che è certo è che tornano alla mente le esilaranti esibizioni di Sordi, Gassman, Manfredi e Tognazzi. Quasi impossibile che a scorrere la notizia degli oboli sottratti al Bambin Gesù non sia apparsa la figura di Gassman che ne “I mostri” sottrae il povero cieco dal medico che potrebbe curarlo. E come non rivedere nelle cronache vaticane Alberto Sordi nei panni dell’esportatore di capitali de “La serata più bella della mia vita”, ma anche nei personaggi dell’ “Armata Brancaleone” o di “Brancaleone alle crociate”. E anche in quelli di “Brutti sporchi e cattivi” non si riconoscono molti protagonisti dei sacri palazzi? Certo i monsignori, non sono sporchi, nel senso dell’igiene s’intende, anzi danno l’idea di essere ben annaffiati da costose acque di colonia e anche i vestiti han l’aria di essere ben tagliati ma quanto a esser brutti e cattivi potrebbero tenere lezioni a livello di master. S’immagina che a pochi sia sfuggita la sicumera dei molti porporati che sotto paludate parole ripetono in buona sostanza il motto del marchese del Grillo: «Io so io e voi non siete un c….» Che fa il paio, sempre con l’Albertone, del discografico finito ne “L’ingorgo”. Tutti film con i quali due o tre generazioni di italiani hanno riso fino alle lacrime. E perché ora i monsignori non ridono più? E dire che ne avrebbero motivo visto che ad ogni episodio del quartetto Risi-Monicelli-Scola-Comencini loro si possono vantare di conoscere di persona il protagonista.

Il fatto è che sulle magagne di casa propria la voglia di scherzare passa e allora si tende a minimizzare come han fatto sia padre Lombardi sia monsignor Parolin: «Notizie vecchie, fatti già superati dalle riforme …» Con ciò dando credito all’adagio che «S’è pegio il tacon del buso»  Qui un esperto di comunicazione, non la paccottiglia che si aggira per i salotti televisivi, direbbe che saper minimizzare è un’arte e i due in questione non ne sembrano propriamente padroni.. Perché a dire che son fatti vecchi e già  noti e superati si è esposti alla controreplica: «E perché la Chiesa non ha fatto nulla? O se ha fatto perché non ha denunciato il colpevole punendolo?» Già, perché?

Non sarà mica per quella sottile passione per l’omertà che con la voglia di voler apparire sempre come il meglio ha fatto lavare i panni sporchi in famiglia per decenni? Che poi solo a sfogliare il Decameron già si vedono vizi e stravizzi di quella corte che a dispetto del cielo si vuole (e si suole) definire santa. Vizi e stravizzi che infine son sempre quelli. I moderni epigoni dei Borgia peccano anche di fantasia: ripetono senza originalità. O non sarà forse per quella voglia di solidarietà che si traduce nel: «Una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso.»? E poi a dirla tutta Lucio Angel  Vallejo Balda e Francesca Chaouqui saranno, forse, colpevoli di trafugamento di documenti che però è un nulla rispetto a quello che i documenti raccontano. Al solito si fa il tiro al piccione mentre le prede grosse se ne stanno acquattate e ben pasciute. E chi le tocca.


Storia a sé meritano i giornalisti delle italiche gazzette che si impegnano, con puntigliosa volontà, a trovare nobili motivazioni a tutto in ciò distinguendosi da L’Osservatore Romano e da L’Avvenire che sul caso Marino fecero sberleffi. E questo denota nobiltà d’animo che se è condizione necessaria non è di per sé sufficiente nel trattare le notizie. Qualche volta dire che il re è nudo fa bene a tutti. Anche al re. Il che pur tuttavia non li salva da attacchi di bassa lega: «fan tutto per denaro.» si dice di là dal Tevere. Dimenticando che un giornalista campa di notizie, articoli e qualche volta di libri. Ma chi da  millenni arraffa le monetine delle elemosine questo non lo può capire.

domenica 1 novembre 2015

Il Vaticano e il caso Ignazio Marino

L’Osservatore Romano commenta con sarcasmo i recenti fatti di Roma ma non ha usato la stessa misura per quanto successo Oltretevere durante il Sinodo. Anche in quella settimana non sono mancate le farse. La solita storia dei due pesi e due misure. Ci si mette anche il cardinal Bagnasco.

Scrive l’evangelista Matteo (guarda il caso nel gioco dei nomi) a 7, 3-5 che venne raccontata una parabola su una pagliuzza e una trave. Sono passati un paio di migliaia d’anni da che la parabola fu riportata e quindi ci sta che qualcuno se ne sia dimenticato. Ci sta un po’ meno che non se la rammentino quelli che si dicono assidui lettori, nonché esegeti, del libro su cui questa è riportata. Ma, al solito, né la sincerità, vedi parabola, ne lo spezzo del ridicolo la fanno da monopolisti in questo mondo.Ne hanno data ampia prova sia l’Osservatore Romano, che avrà poi da osservare di così originale fuori dai confini dello Stato vaticano che già non sia accaduto al suo interno, sia il cardinal Bagnasco. Ma come s’è detto lo spezzo del ridicolo non la fa da monopolista in questo mondo e segnatamente nella povera Italia. Vaticano incluso.

L’Osservatore Romano ha scrittoSta assumendo i contorni di una farsa la vicenda legata alle dimissioni del sindaco di Roma, Ignazio Marino. Al di là di ogni altra valutazione resta il danno, anche di immagine, arrecato a una città abituata nella sua storia a vederne di tutti i colori, ma raramente esposta a simili vicende.» Gli ha fatto eco, come sbagliarsi, il capo della CEI, cardinal Bagnasco che spera «in una soluzione adeguata perché il Giubileo è alle porte.»

Certo analoghe parole e toni avrebbero potuto essere usati anche per commentare i fatti della settimana del Sinodo. Per esempio quando s’è sparsa la voce delle lettera firmata dai 13 cardinali o l’outing tutto mediatico del teologo ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede,. Che assomigliava più allo spot per il lancio di un nuovo libro che ad una cosa seria. Per non dire di quella simpatica chicca sul preteso tumore di Papa Francesco. Tutti sketch scritti e messi  in scena nella Città del Vaticano. L’ultimo poi è stato particolarmente esilarante: scomodare un tumore benigno, chissà perché poi benigno?, al cervello per dire che il vescovo di Roma sta andando fuori di cotenna. Queste son farse queste da fare inviadia a Groucho Marx. Che poi tutto il pacchetto possa essere di buon viatico per il Giubileo alle porte è tutto da vedere. E magari non tutti i giaculanti fedeli hanno apprezzato i lavori del parlamentino ecclesiastico che alla fine ha visto la mozione vincente prevalere per un solo voto.  Il che fa ben intendere come correnti, sottocorrenti e camarille vivano alla grande all’ombra del cupolone e quanto a mollarsi sganassoni i cardinali non siano secondi a nessuno. Con buona pace dello spirito santo che di solito si dice aleggi su quelle berrette porporate.  Altro che le minuzie che succedono nel Parlamento nazionale.


Ovviamente nulla in contrario a che la stampa estera giudichi le vicende italiche ma se lo facesse con un certo gusto la cosa non guasterebbe, Ciò che invece stupisce, ma poi neanche tanto, è che la stampa nostrana non abbia rilevato la palese scortesia e non se ne sia adombrata come qualche volta, rara, ha fatto con giornali tedeschi e inglesi. Non sarà mica il timore di perdere indulgenze a bloccare le sapide penne italiche?

martedì 27 ottobre 2015

Lo vedi, là c’è Marino

La storia vista a ritroso. Fra cinquant’anni i nonni racconteranno ai nipoti la storia del sindaco Marino che inventò il giochino “dai e ritira”. Il gioco divenne popolarissimo e i bookmakers di Londra accettavano scommesse. A Marino fu eretta una statua.

«Lo vedi, là c’è Marino.» Diranno i nonni «La sagra c’è dell’uva» risponderanno i nipoti e si beccheranno uno scappellotto. «No – ripeteranno i nonni – Là c’è  Marino» e indicheranno la statua piazzata nel centro del Campidoglio. I nipoti estasiati guardando la statua e chiederanno ai nonni di raccontare la storia del sindaco Marino e i nonni li accontenteranno. Spiegheranno della venuta a Roma di un genovese che di professione faceva il trapiantatore di fegato e che, un po’ per sfizio e un po’ per follia, decise di mettersi in politica. La sua ultima follia, che neanche Mel Brooks avrebbe immaginato, fu di essere il sindaco di Roma. E aveva la voglia di risanare la vecchia caput mundi che da oltre duemila anni si barcamena tra palazzinari, briganti, trattorie, cialtronaggine e turismo. Come una bella fetta del Belpaese, d'altronde. Solo che gli altri, del Belpaese, non se ne fanno quasi accorgere.
Era un po’ ingenuo e un po’ furbastro, il sindaco Ignazio Marino, non aveva dimestichezza con le carte di credito e lasciava le auto dove gli capitava, però  e mise nel sacco, spesso senza volerlo, politici ben più scaltri. 

La statua, che in realtà è un gigantesco gruppo marmoreo, lo rappresenta in bicicletta arrancante in salita con uno zainetto sulle spalle mentre due gli stanno addosso. Uno lo tira per farlo cadere e l’altro non si capisce bene cosa faccia. Perché visto da destra sembra che lo spinga, visto da sinistra invece pare che dia man forte a quell’altro. I due sono chiamati genericamente i «due Mattei.» Chi siano stati, in effetti nessuno se lo ricorda più, E poi nel gruppo  c’è pure un altro che pare gli stia sgonfiando una gomma. Questo è detto «l’esposito» che ormai è diventata parola d’uso comune per dire di uno che con la scusa di darti una mano fa di tutto per affossarti.

Marino divenne sindaco su istigazione di alcuni uomini de panza del suo partito che pensavano di piazzare in quel posto un citrullo da manovrare a piacimento. Ma come spesso accade ai troppo furbi quando si mettono con gi ingenui il gioco della strumentalizzazione gli si ritorse contro. Anzi, in quell’epoca, gli si avvitò in mano e mentre quelli tentavano di strumentalizzare il genovese questi strumentalizzava loro e venne eletto con percentuali da sbornia. Poi come gli ingenui che non sanno quel che fanno cominciò a raddrizzare qualche quadro storto a mandare a lavare qualche tappeto sporco a spostare qualche ninnolo a mettere in piedi statue che stavano coricate e nel farlo scoprì che tutte quelle cose fuori posto non lo erano per caso ma stavano così a bell’apposta a coprire chi un buco, chi una macchia, chi a nascondere la polvere. E questa fu la goccia che fece tracimare l’acqua, si fa per dire, dal vaso

Apriti cielo a questo punto tutti si misero a guardare le buche nelle strade anziché quelle nei bilanci e a discutere sui ritardi dei bus anziché su quelli delle delibere e a dire della sporcizia sulle strade piuttosto che di quelle sugli appalti. Fu allora che venne in mente ad alcuni di fare il gioco delle dimissioni. Che poi è il motivo per cui fu eretta l’equestre statua a Marino. Il giochino consisteva in questo: trovare come far dimettere il sindaco Marino. Una specie di caccia al tesoro. Si partì da funerali, poi ci si spostò sui viaggi fino ad arrivare agli scontrini. E alla fine quasi ci riuscirono, nel senso che Marino dette le dimissioni. Ma c’era un ma. Anche Marino spizzicando tra le carte inventò un giochino che assomigliava al vecchio rimpiattino: dare le dimissioni e poi ritirarle a due giorni dalla scadenza loro esecuzione. Il gioco ebbe risonanza planetaria ed i bookmakers di Londra accettavano scommesse sul tempo tra la consegna delle dimissioni e la loro revoca. Ci fu chi divenne ricco con questo sistema. 

Marino governò la capitale per cinque anni e poi per altri cinque e ancora altri cinque. Nessuno si ricorderà più se con lui sindaco le strade furono asfaltate o la burocrazia fu più spedita o le gare d’appalto furono più pulite. Tutti ricordaranno il suo giochino e ci sarà chi avrà nostalgia di quei tempi e si commuoverà guardando i bambini giocare a a"dai e ritira". Le dimissioni del sindaco Marino".

domenica 18 ottobre 2015

La minoranza del Pd ci riprova.

Dopo le notizie sul contenuto della Legge di Stabilità la minoranza del Pd rialza la testa e minaccia. Saranno fatti o solo grida manzoniane? Parlano in cinque tre fanno la parte dei duri e due già tentennano. Se la negoziazione parte da un “ni” vien difficile pensare che otterranno risultati.

La minoranza del Pd non si è ancora ripresa dalla scoppola sulla questione del senato che già ci riprova con la legge di stabilità. Come dire che la perseveranza, virtù apprezzabilissima, supera l’intelligenza, che per essere tale deve esserci. Almeno in qualche forma.

Dopo aver minacciato sfracelli per il senato dei nominati, poi ingollato nascondendosi dietro un miserrimo cavillo, quelli della minoranza del Pd, per dimostrare di avere la schiena dritta, hanno mandato il tenero Gotor, Miguel Gotor, a difendere la vergognosa delibera che versa denaro nelle casse dei partiti. Che se avessero voluto dimostrare piaggeria chissà cosa avrebbero combinato. «Principio di garanzia democratica» ha tuonato nel suo intervento il Gotor che ricorda tanto il mitico Miguel el merendero. Dimentica, ma ci sta, che el merendero non ricordi, che la democrazia dei cittadini abbia stabilito nella misura del 82,60%, ben ventidue anni fa nel 1993, che i partiti non debbano essere finanziati dallo Stato. Il quesito era semplice ed altrettanto semplice fu la risposta. Ma con altrettanta semplicità i partiti, tutti, se ne impiparono.

Adesso il testimone del mal di pancia della minoranza passa dai senatori, che si riposeranno, ai deputati. E già cinque hanno preso la parola. Cinque veri campioni. Il primo è stato Bersani Pierluigi, lo sconfitto di un’elezione già vinta, ma si può pure fare di peggio, che ha raccontato: «non bisogna insultare l’intelligenza degli italiani». Sarà. Ma non sembra che questi se ne abbiano a male. Far la parte dei tonti ogni tanto conviene.

Poi ha parlato Cuperlo, l’ex scrivano di D’Alema (che pare voglia emigrare: auguri, Si spera biglietto di sola andata), per dire che questa Legge di Stabilità è «Poco ambiziosa. Poco innovativa. Serve maggior equità.» Che come petizione di principio non c’è male. Adesso quel che bisognerà vedere saranno i fatti che a parole quella minoranza sa tuonare come già Pascoli scrisse: «il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo e tacque e poi rimaneggiò rinfranto e poi vanì.» Le immagini dei poeti spesso diventano realtà nello sviluppo del futuro. Avesssero detto a Pascoli a chi sarebbe stata accostata la sua poesia forse non l’avrebbe scritta o magari avrebbe imposto dei distinguo.

Terzo a dire del suo malessere è stato il D’Attorre Alfredo, che tra i tre sembra il più agguerrito: minaccia. E le minacce della minoranza assomigliano alle grida di manzoniana memoria che più erano feroci e meno si dimostravano efficaci.  Lui dice che se si va avanti con quella legge è disposto ad andarsene. Gli fan da controcanto in due: Zoggia Davide che ha dispetto del nome già si sfila e Speranza Roberto che speranza dimostra di non averne più e infatti dichiara che:«dal partito non me ne vado neanche con le cannonate.» E già si dice disposto a votare una legge che non condivide. Che come strategia di negoziazione di peggio viene difficile trovare. Meglio di così cosa potrebbe desiderare Renzi? «Non per fedeltà, ma per lealtà e senso di responsabilità» che poi è la stessa cosa, è il refrain del fiorentino che oramai anche i sassi hanno imparato a memoria e tra questi ci sta pure la minoranza del Pd.

Comunque, per non fare i gufi: auguri. E si starà a vedere.