Ciò che possiamo licenziare

mercoledì 29 ottobre 2014

Quale Italia: trattativa Stato-mafia, Bonanni, Violante e Gravante.

Ogni giorno porta il suo carico di notizie, molte pessime, qualcuna solo cattiva, altre drammaticamente risibili e un paio anche di buone. Però perché non manchi nulla il pessimo il cattivo ed il risibile sono allegramente mischiati. Del buono poi si dirà.

Trattativa Stato- mafia.
Il Presidente Naapolitano della trattativa Stato-mafia non sa nulla. E ancor meno di “indicibili accordi”. Ha però avuto la sensazione che qualcosa non funzionasse. Mano male.  Dice lo staff del Quirinale che il Presidente  «Ha risposto a tutto.» Dicono gli avvocati: «Non proprio a tutto.» Fra un po’, chissà quando, sarà disponibile la registrazione dell’intera udienza. Giusto il tempo di sbobinare, perché tutto sia alla luce del sole. E  allora ci si chiede perché  la stampa non sia stata fatta entrare, perché cellulari e tablet non siano stati ammessi e soprattutto perché non ci sia stata la diretta televisiva.  Comunque si sentirà dalla registrazione se qualcuno abbia chiesto al Presidente se mai gli fosse venuta la curiosità di farsi dire da D’Ambrosio cosa intendesse quando scrisse di «indicibili accordi.»  e di essersi sentito  «ingenuo e utile scriba.» Che se l’avesse chiesto, nel mese intercorso tra il ricevimento della missiva e l'infarto di D'Ambrosio, ora magari se ne saprebbe di più sugli amici della mafia all’interno dello Stato. Ma tant’è.

Il sindacalista Raffaele Bonanni va in pensione
Quando qualche settimana fa il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni, pizzetto da Athos, ha lasciato il posto. qualcuno avrà pensato che era bello vedere messo in pratica il detto «largo ai giovani». Ingenuo. Bonanni non lasciava, si metteva più semplicemente a riposo, dopo una vita passata a difendere i diritti dei lavoratori, delle donne, dei giovani e dei pensionati. E della schiera dei pensionati si prestava a far parte. Adesso è un pensionato da 8.600 eurini lordi al mese che diventano 5,400 eurini netti, sempre al mese.  Per raggiungere questo livello di pensione negli ultimi anni si è fatto sistemare, dalla sua organizzazione, lo stipendio, che nel breve volgere di quattro o cinque anni  è passato da  80.000€ a oltre 300.000€. Sempre eurini lordi, ovviamente. Che è come dire un aumento del 400 per cento. Mica bruscoli. Probabilmente il consiglio gli deve essere arrivato dallo zio. Quello che avrebbe potuto far meglio dell’ormai dimenticato Mario Monti.

Dopo venti votazioni Luciano Violante capisce e si ritira.
Certo lo zio di Bonanni non si deve essere mai interessato alla questione Violante. E di questo c’è certezza, lui mai avrebbe scritto una lettera. Mentre invece l’ha fatto Luciano Violante che per qualche mese è stato candidato del Pd alla Corte costituzionale e con impavido coraggio ha subito ben venti votazioni, tutte negative Oggi finalmente ha capito che non lo vogliono e si ritira. Ma lo fa in modo tignosetto scrivendo una lettera dove pretende di fare la morale.  Da che pulpito. Già perché a scrivere la nobile lettera (il testo integrale è in fondo) è quel Violante che, con poca eleganza ha rinfacciato a Berlusconi tutti i favori ricevuti dalla politica di cui il suo partito è parte integrante e fondamentale.. Un favore è un favore e non va rinfacciato.  Quindi quel Violante che è stato per ben trenta anni in parlamento, anche come capogruppo del suo partito e poi presidente della Camera e a questo proposito si è battuto per mantenere i privilegi degli ex presidenti che non sono pochi e  soprattutto costano. Soldi buttati. Deinde ha fatto parte anche di varie commissioni di saggi. Altri soldi buttati. Lo zio di Bonanni probabilmente si sarebbe ritirato dopo le prime avvisaglie e mai si sarebbe messo a scrivere lettere. Che il buon senso se non lo si ha non ce lo si può dare. E lo zio di Bonanni ne ha.

E poi c’è Giuseppe Gravante
Probabilmente pochi, prima di questa mattina, conoscevano Giuseppe Gravante, imprenditore ramo latte e mozzarelle. Il signore in questione è titolare dell’azienda Terre molisane. Azienda portata a modello di eccellenza: riceveva pure un contributo pubblico  di 70€ per ogni animale e,pare, ci portassero pure le scuole in visita. Insomma perfetto. Poi accade che un dipendente “pentito” decida di vuotare il sacco e allora salta fuori che l’azienda modello riciclava il latte scaduto con quello fresco e lo vendeva,, che gli animali erano tenuti da schifo e che ogni giorno sversava 6,5 quintali di rifiuti tossici e di carcasse d'animali nel Volturno. Bei tempi quando il nome del fiume era accostato a Garibaldi, ma la storia raramente si ripete.  Salvo che per le schifezze che quelle ci hanno l’abbonamento alle ripetizioni. Come si potrà leggere nei quotidiani di domani.
Per le notizie buone toccherà ripassare.
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Lettera integrale di Luciano Violante al parlamento

Signore e Signori del Parlamento, le Camere avrebbero dovuto eleggere due giudici della Corte Costituzionale nel giugno scorso. A distanza di quattro mesi da quella data, nulla è cambiato. In silenzio, per molte settimane ho assistito alla rotazione delle altrui candidature, ho letto polemiche gratuite e ho subito attacchi infondati. In trent’anni di impegno parlamentare ho imparato che un’elezione, di qualsiasi tipo, non è un concorso per merito; conosco le condizioni in cui si svolge la lotta politica. Tuttavia le attuali condizioni del Paese non consentono di considerare questi fenomeni nel novero dei normali accadimenti. Il protrarsi della indecisione, che mi auguravo superabile, sta producendo un grave discredito delle istituzioni parlamentari accentuato dal manifestarsi in Aula, nel corso delle ultime votazioni, di comportamenti, limitati ma gravi, di dileggio del Parlamento. Improvvisi, recenti appelli non sembra abbiano contribuito alla chiarezza. 
È necessario fermare una deriva che offende l’autorevolezza delle istituzioni e la dignità delle persone.
Ritengo perciò che rientri nei miei doveri ringraziare non formalmente gli oltre cinquecento parlamentari che mi hanno sinora votato e invitare tutto il Parlamento a scegliere altra personalità ritenuta più idonea ad ottenere il consenso necessario. Su ogni altra considerazione prevale per me la necessità che le Camere siano messe in condizione di decidere. Tuttavia ritengo che in questa limitata vicenda si siano manifestati problemi di portata generale, sui quali ciascuno di noi, nell’esercizio delle proprie responsabilità di cittadino consapevole, potrebbe soffermarsi. 
La vita politica italiana attraversa una difficoltà di decisione che non deriva tanto dalla inadeguatezza delle regole quanto dalla idea, non maggioritaria, ma diffusa, che l’attività politica debba ridursi a uno scontro privo di confini e di principi morali. Nessun Paese può tollerare per troppo tempo una vita parlamentare frenata da ribellismi e forzature; una democrazia incapace di decidere attraverso il rispetto delle reciproche posizioni è una pura rappresentazione teatrale. 
Sono in discussione i comportamenti non le norme; potremmo cambiare tutte le regole costituzionali e parlamentari, ma si tratterebbe di una illusione regolatoria perché le leggi sono inefficaci senza i «buoni costumi», che impongono comportamenti misurati e lungimiranti soprattutto quando sono in questione le nomine in organi di garanzia.
In queste circostanze concorrere a decisioni rapide e responsabili diventa un dovere, per la considerazione dovuta tanto al Parlamento quanto alla Corte costituzionale. 
Il nostro Paese ha dimostrato in tante vicende lontane e vicine di possedere la forza per ripartire. Queste energie sono presenti in misura vasta anche nelle Camere. Se non esistessero saremmo miseramente crollati da tempo. Permettetemi di sperare, al di là della questione che mi ha personalmente coinvolto, che le classi dirigenti, di cui voi siete parte rilevante, consapevoli che l’essere tali costituisce non un privilegio ma una responsabilità, diano anima a queste energie, rendendosi interpreti dell’interesse generale e restituendo così alla politica l’autorevolezza che le spetta i una democrazia funzionante. A partire dalla rapida elezione dei due nuovi componenti della Corte costituzionale. 
Con sincero rispetto e con un vivo augurio per il vostro lavoro. 

martedì 28 ottobre 2014

Udienza al Quirinale e arresti per mafia a Milano: casualità ad orologeria.

Nello stesso giorno i carabinieri arrestano 13 ‘ndranghetisti e il Presidente della Repubblica viene interrogato nell’ambito del processo “Stato mafia”. I carabinieri danno massimo risalto mediatico alla loro azione. Il Quirinale pretende il massimo della segretezza.  I segreti non si possono tenere come sanno gli americani e la cancelliera Merkel

Sarà un caso o forse anche no, ma a poche ore di distanza dall’inizio della più segreta udienza della storia della Repubblica i carabinieri del Ros hanno fatto un altro colpaccio. Chissà quanto saranno contenti a Roma.  Per essere meno criptici si passa ai fatti: nelle recenti ore, su indicazione della procura antimafia di Milano  sono state arrestate 13 persone accusate di appartenere a cosche di ‘ndrangheta.  A quanto si dice sembra che sia coinvolto anche un politico, come ti sbagli. I reati sono, quasi per ovvietà quelli di sempre, connessi ad appalti e subappalti e nel caso specifico quelli di Expo 2015. Le province interessate sono Milano, Como, Monza-Brianza e, neanche a dirlo, Vibo Valentia e Reggio Calabria. Ne hanno data notizia i carabinieri stessi che a quanto pare non pensano che parlare pubblicamente di mafia o ‘ndrangheta, che a parte piccoli interessi di bottega è lo stesso, sia cosa disdicevole. Anzi. 

L’operazione è avvenuta a poche ore di distanza dall’inizio dell’udienza sull’affaire “Stato mafia” . Anche se sempre di mafia, in senso lato, si tratta, i due fatti sono distanti in quanto responsabilità, codice penale e fattispecie degli attori. Tuttavia qualcuno, magari malizioso, ci potrà vedere un qualche collegamento, almeno nella forma. Da un lato un comunicato stampa che rende edotto il globo terraqueo dell’azione dello Stato italiano contro il crimine organizzato e dall’altro la segretezza che più segretezza non si può. Nell’udienza che si tiene al Quirinale non sono ammessi gli imputati, che magari con un ricorso potranno invalidare l’intero processo (non sarà mica questo il subdolo obbiettivo?) e non è ammessa la stampa che, a parte Il Fatto Quotidiano, poco se ne lamenta. Non ci saranno neppure riprese e per essere certi di questo dovranno essere consegnati all’ingresso cellulari, tablet e altre diavolerie tecnologiche. Come a dire che nessuno potrà avere prova documentale in video e audio di quel che lì accade. Evidentemente al Quirinale c’è chi crede alle favole e che i bimbi nascano sotto i cavoli. È di qualche mese fa il caso di come gli americani spiassero la cancelliera Merkel e tutti gli altri primi ministri. Pensare quindi che di viver nel segreto è pia illusione.  Altro sarà capire quando e come  e a vantaggio di chi quella documentazione vedrà la luce.

Un filo rosso lega nella sostanza i due fatti, gli arresti effettuati dai carabinieri e l’udienza al Quirinale: l’obiettivo di sconfiggere la mafia e fare emergere i suoi manutengoli all’interno delle istituzioni. Poiché sull’esistenza di questi legami, anche a voler essere dubitativi, qualche sentore lo si ha e  la lettera (di seguito riportata per intero) di Loris D’Ambrosio  a Giorgio Napolitano in diversi passaggi lascia ampi margini di perplessità.  

Adesso magari si tirerà fuori il trito e ritrito refrain dei fatti di giustizia che vengono alla luce al momento giusto e nel modo giusto. Sarà, forse che sì o forse che no. Però i due fatti nella forma stridono drammaticamente e averne consapevolezza è meglio che vivere con la testa nel sacco o come un ciuccio in mezzo ai suoni. E poi come dice quella massima: male non fare paura non avere.. E a metter ostacoli alla conoscenza fa crescere dubbi, venire sospetti e poi non suona bene.
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Testo integrale della lettera di Loris D’Ambrosio a Giorgio Napolitano.


"I fatti di questi giorni mi hanno profondamente amareggiato personalmente, ma, in via principale, per la consapevolezza che la loro malevola interpretazione sta cercando di spostare sulla Sua figura e sul Suo altissimo ruolo istituzionale condotte che soltanto a me sono invece riferibili".

"Come il procuratore di Palermo ha già dichiarato e come sanno anche tutte le autorità giudiziarie a qualsiasi titolo coinvolte nella gestione e nel coordinamento dei vari procedimenti sulle stragi di mafia del 1992 e 1993, non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello Stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze".

"Con quelle autorità giudiziarie, mi sono comportato con lo stesso rispetto che, sia in questi anni sia dall'inizio della mia attività professionale, ha ispirato i miei comportamenti con chi è chiamato a esercitare in autonomia e indipendenza le funzioni di magistrato, Qualunque mio collega puo esserne testimone".

"Quel che, con espresso riguardo ai procedimenti sulle stragi, ho invece sempre ritenuto e poi stigmatizzato in qualunque colloquio è che le criticità e i contrasti sullo svolgimento di quei procedimenti non giovano al buon andamento di indagini che imporrebbero, per la loro complessità, delicatezza e portata, strategie unitarie, convergenti e condivise oltre che il ripudio di metodi investigativi non rigorosi o almeno, non sufficientemente rigorosi nella ricerca delle prove e nella loro verifica di affidabilita; oltre che, ancora, l'abiura di approcci disinvolti non di rado più attenti agli effetti mediatici che alla finalità di giustizia".

"Il procuratore generale della Cassazione, il procuratore nazionale antimafia, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Commissione parlamentare antimafia sanno bene che le criticità e i contrasti esistono e sono gravi, ma che a essi non si riesce a porre effettivo rimedio. Mi ha turbato leggere nei resoconti di un'audizione all'Antimafia, le dichiarazioni di chi ammette che della c.d. trattativa Stato-mafia uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso confliggenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile come se, fosse la stessa cosa trattare lo stesso soggetto da imputato o da testimone o parte offesa da fonte attendibile o da pericoloso e interessato depistatore".

"A tutto ciò consegue però un effetto perverso. Quello che anche interventi volti a stimolare adeguati coordinamenti finalizzati a raggiungere o consentire univoche verità processuali vengano poi letti come modi obliquamente diretti a favorire l'una o l'altra interpretazione di fatti o situazioni indiziarie o solo sospette su episodi gravissimi della nostra Storia. E, in genere -perchè mediaticamente più conveniente- come un modo per impedire che escano 'dai cassetti' procedimenti che toccano o lambiscono apparati o rappresentanti istituzionali".

"E' cosi accaduto che qualche politico o qualche giornalista sia arrivato ad accostare o inserire chi, come me, non accetta schemi o teoremi prestabiliti all'interno di quella zona grigia che fa di tutto per impedire che si raggiungano le verità scomode del 'terzo livello' o, per dirla con altre parole, è partecipe di un 'patto col diavolo', non sta dalla parte degli italiani onesti ed è disponibile a fare di tutto per ostacolare un pugno di 'pubblici ministeri solitari che cercano la verita' sul più turpe affare di Stato della seconda Repubblica: le trattative fra uomini delle istituzioni e uomini della mafia".

"Tutto ciò è inaccettabilmente calunnioso, Ma non mi è difficile immaginare che i prossimi tempi vedranno spuntare accuse ancora più aspre che cercheranno di 'colpire me' per 'colpire Lei.Non conosco il contenuto delle conversazioni intercettate, ma quel tanto che finora è stato fatto emergere serve a far capire che d'ora in avanti ogni più innocente espressione sarà interpretata con cattiveria e inquietante malvagità. Ne saro ancor più amareggiato e sgomento anche perchè, come ho detto anche quando sono stato sentito a Palermo come persona informata sui fatti del 1992 e 1993, sono il primo a desiderare che sia fatta luce giudiziaria e storica sulle stragi; perchè quei tempi li vissi accanto a Giovanni Falcone poi dedicandomi, assieme a pochi altri, senza sosta a comporre quel sottosistema normativo antimafia che ha minato la forza di Cosa Nostra e di organizzazioni similari".

"Lei sa che di ciò ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989- 1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi- di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi".

"Non Le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all'Antimafla di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare anche io a fare indagini, come mi accadde oltre 30 anni fa dopo la morte di Mario Amato, ucciso dal terroristi.Ecco, che tutti questi sentimenti
siano ignorati per compromettere la mia credibilità e, quel che è peggio, per utilizzare tale compromissione per "volgerla" contro di Lei, non è per me sopportabile. Sono certo che, per come mi ha conosciuto in questi anni e nel dieci anni precedenti, Lei comprende ll mio stato d'animo.
A Lei rimetto perciò, il prestigioso incarico di cui ha voluto onorarmi, dimostrandomi affetto e stima. Con devozione e deferenza, suo Loris D'Ambrosio".

lunedì 27 ottobre 2014

Scontro Bindi-Serracchiani: il senso del paradossale.

Con poche battute l’ex presidente del Pd (ex Dc) e l’autorevole esponente della segreteria Pd (ex Pci) hanno dato senso al paradosso. Con alcuni corollari.

Viene difficile definire con  un aggettivo il siparietto consumato dalla Bindi e dalla Serracchiani davanti alle telecamere ed ai microfoni di SkyTg24. Forse “paradossale” è quello giusto. 

Paradossale vedere, l’ex presidente del Pd battagliare, in diretta e con parole grosse, con uno dei membri più autorevoli della attuale segreteria del suo stesso partito. Paradossale che la Bindi, ex democristiana di lungo corso, esalti la piazza, pare un milione e duecentomila manifestanti, mentre la Serracchiani ex comunista, ex Pds, sostenga si stia meglio in compagnia di pochi, un migliaio all’incirca, dentro una vecchia stazione ferroviaria costruita nella prima metà dell’ottocento.  Paradossale che la prima sia un po’ âgée mentre la seconda, nel gerontocratico panorama italico, sia quasi una ragazzina.  Paradossale che la prima, sempre da antica ex democristiana,  si commuova per le bandiere rosse mentre la seconda, sempre da ex comunista,  palpiti per la finanza alla Serra e l’imprenditoria alla Farinetti. Per intenderci il primo è quello che considera lo sciopero un costo (forse non gliene è chiaro il concetto e la funzione) e che prenderà la tessera del Pd ma ovviamente a Londra dove probabilmente c'è un circolo a Lombard Street. Mentre  Oscar Farinetti è quello che dice che negli affari l’onestà da sola non basta e ci vuole anche la furbizia. E magari in quota maggioritaria. 

Paradossale che la Bindi definisca «contromanifestazione» quella organizzata dal segretario del suo partito, eletto a stragrande maggioranza. Paradossale che la Serracchiani non colga che quelli in piazza potrebbero essere voti persi. E magari moltiplicati per due. Paradossale poi che la Serracchiani non ribatta e se ne vada.  Che di solito è quello che fa Giuliano Ferrara.  Paradossale che in piazza ci siano gli epigoni (ed esegeti sotto mentite spoglie) di quelli che il Pd l’hanno distrutto rendendolo un partito di perdenti e che, quando hanno avuto la possibilità di governare, hanno fatto harakiri. Paradossale che la nuova dirigenza sia criticata perché sta facendo quello che avrebbe voluto fare quella vecchia e non ci è riuscita. Paradossale che la vecchia dirigenza non si renda conto che è stato grazie alla inanità dei sui esponenti che questi nuovi enfant terrible sono venuti alla ribalta e ora possono zampettare sul palcoscenico della politica e delle istituzioni. Paradossale che l’attuale sinistra del Pd sia fatta da molti che nel partito sono sempre stati a destra. 

Paradossale che nel gruppo del nuovo che avanza entrino contemporaneamente un ex Sel e un ex Scelta Civica. Non è paradossale che Andrea Romano già ex dalemiano e poi ex montezemoliano voglia mettere le premesse per diventare, con il tempo, anche un ex renziano. Paradossale che Renato Brunetta dopo aver proposto di dare a Renzi la tessera di Forza Italia abbia dichiarato che lui sarebbe andato in piazza e non alla Leopolda. Che Brunetta giochi con i paradossi non è paradossale, è un economista. Così come non è paradossale questa situazione paradossale.

venerdì 24 ottobre 2014

Le dichiarazioni della settimana: Renzi, Napolitano, Berlusconi. Carine

Il bello del vivere nel Belpaese è che non ci si annoia mai. E soprattutto viene difficile perdere il buon umore. Quand’anche le cose vanno da schifo basta aprire un giornale dare un’occhiata alle dichiarazioni dei big della politica e magari anche dell’economia e subito torna il buon umore.

La dichiarazione di Renzi:«È finito il tempo delle lettere segrete.»
Sempre di buon umore, divertito e divertente, è il Presidente del Consiglio e nulla sembra smuoverlo da questo suo stato dell’animo. Neanche la lettera, tutta ringraziamenti e legnate, che gli ha inviato il gelido Jyrki Katainen in risposta alla sua bozza di legge di Stabilità. Per far contenti gli italiani Renzi ha pensato bene di renderla nota all’orbe terraqueo. Il Presidente della Commissione europea Barroso se ne è avuto a male e un po’ rudemente da detto che queste cose non si fanno e ha invocato la legge sulla privacy. Il nostro ha risposto che: «È finito il tempo delle lettere segrete, pubblicheremo tutti i dati di questi Palazzi, ci sarà da divertirsi ….» Già ci sarà da divertirsi. Magari gli italici avrebbero voluto divertirsi anche leggendo quello che c’è scritto nel famoso patto del Nazareno. Senz’altro si scompiscerebbero. Come si scompiscerebbero in Parlamento e in Vaticano e in Confindustria. E magari si scompiscerebbe pure la magistratura. Nessuno si scandalizzerebbe per la forma se, come ebbe a dire il bronzeo Toti, sono quattro o cinque punti scritti a mano sulla carta del pane. Nel Belpaese si è abituati a ben altro.

La dichiarazione di Napolitano: «Insofferenza per i vecchi assetti di potere.»
Poiché un titolo onorifico fa sempre chic ed è pure ben ambito continua a girare per il Paese anche quello di Cavaliere del Lavoro. Oddio, visti alcuni precedenti non ce ne sarebbe da far gran vanto ma la memoria è corta anzi cortissima mentre la vanità è ampia anzi amplissima. E poi un titolo è come un sigaro: non lo si nega a nessuno. Quindi a Roma, al Quirinale, nuova infornata di Cav. e il capo dello Stato Giorgio Napolitano parlando ai neo Cavalieri del Lavoro ha lanciato un nuovo e sentito, oltre che vibrante,  monito da cui, per comodità,  si estrae solo questa perla di rara saggezza: «Si sta diffondendo un clima di insofferenza per il trascinarsi di vecchi assetti strutturali e di potere.» Si intuisce che sotto i paludati abiti e le felpate frasi batte ancora il cuore del vecchio rivoluzionario di professione. Così Lenin chiamava i funzionari del partito comunista. Certo Napolitano non poteva essere più esplicito. Magari si poteva marcare un po’ di più che il clima di insofferenza non si sta diffondendo adesso ma ha ormai permeato ben bene tutta la società e anche da un bel pezzo e che non di insofferenza si tratta ma di un sentimento assai più ruspante e che mette in agitazione, sopra e sotto la cintola, non pochi organi degli italiani. Soprattutto da chi quei «vecchi assetti strutturali e di potere» li ha visti nascere e corroborarsi anno dopo anno da quando nel 1953 si assise per la prima volta in uno scranno della Camera.

La dichiarazione di Berlusconi:«Dico sì a unioni gay e jus soli.»
Proprio vero che nulla è scolpito nella pietra ed una volta per tutte. Anche il più macista dei macisti, quello che ad ogni piè sospinto sottolineava il fatto di non essere gay si è convertito. Al formale tiepido buon senso, almeno. Gli omosessuali, uomini o donne che siano, sono persone come tutte le altre e come tutti debbono avere gli stessi semplici diritti. E quindi come se nulla fosse eccolo declamare: «La famiglia tradizionale è il cardine del nostro Paese ma lo sono di più l’amore e la dignità.» Sorbole! E poiché il domiciliato di Arcore ama stupire ed ormai era lanciato ecco la seconda perla: « Dare la cittadinanza ai figli degli immigrati è doveroso.» Mica male arrivare a simili conclusioni alla soglia degli ottant’anni. Chissà a quali vette di aperturismo rivoluzionario potrà arrivare quando sarà dalle parti dei cento anni.


Comunque su queste battute si sono divertiti tutti meno i soliti guastafeste: la cancelliera Merkel, ma i tedeschi non hanno un gran senso dell’umorismo, quelli che volevano diventare Cavalieri del Lavoro ed erano pure disposti a pagare (metaforicamente s’intende) ma non ce l’hanno fatta e poi Fitto, Gasparri e qualche altro scartellato di Forza Italia. L’unico che non la pensa come Berlusconi ma si è fregato le mani dalla contentezza è stato Salvini: i razzisti e gli omofobi rimangono parco suo.

giovedì 23 ottobre 2014

Chi contro Renzi?

Il premier vagheggia il partito della nazione che è come mettere in valigia il costume da bagno ed i moon boot. Una ricerca di CE&co indica nel cambiamento la domanda politica che viene dal Paese incrociandola con le categorie di destra e sinistra.  Le variabili critiche per gli aspiranti anti-Renzi: fiducia e simpatia. Al momento come concorrenti si sono palesati Passera e Della Valle. All'orizzonte c'è Di Maio  mentre Barca è scomparso.

La Storia dirà, avendone voglia e in un futuro chissà quanto lontano, se quello che Renzi sta vivendo in questi giorni sia l’apice del suo successo (e potere) o solo una tappa intermedia, e quindi si abbia spazio per un ulteriore allargamento. Certamente coloro che vivono il presente, giorno dopo giorno, apparizione tv dopo apparizione tv, cronoprogramma dopo cronoprogramma e promessa dopo promessa si stanno domandando se ci sia (o ci sarà) qualcuno che possa essere l’antagonista del vivace Presidente del consiglio. E soprattutto antagonista in cosa e in come.

Quel che è certo è che Renzi Matteo si sta espandendo come una macchia d’olio inglobando allo stato attuale, che qualcuno potrebbe pure uscirne per il rotto della cuffia, tutto e tutti. Brunetta Renato propone di dargli la tessera di Forza Italia mentre Gennaro Migliore (ironia dei nomi) lascia Sel per avvicinarsi, lento pede forse per non dare nell’occhio, a quella del Pd  Se si prendono per buoni i sillogismi (o anche il principio dei vasi comunicanti) succede che Brunetta, passando per il centro la tessera di Forza Italia la dà a Migliore. Ex pericoloso sinistro. Altro che dadaismo. 

Comunque Renzi che non si fa crescere l’erba sotto i piedi è già più oltre e sta pensando al partito della nazione. Che magari, nelle intenzioni è anche unico e dentro ci sta proprio di tutto come nelle valigie di quelli che per la vacanza non scelgono la destinazione ma l’offerta last minute. E quindi per non sbagliare infilano il costume da bagno dentro i moon boot . La logica è che, se tutti stanno ben appiattiti dentro, trovare l’alternativa al leader diventa difficile. E questo, sapendolo con certezza ma non avendone le prove, è di certo il retro pensiero del fiorentin fonasco. Quindi chi può insidiarlo ed essergli antagonista?

Una intrigante ricerca sviluppata in tre spet temporali, l’ultimo dei quali nel giugno 2014, su tre campioni indipendenti ciascuno di 800 casi, condotta da CE&Co, l’istituto di ricerca diretto da Carlo Erminero, indica come la domanda politica sia ragionevolmente univoca e saldamente ancorata al concetto di cambiamento. E che questa si polarizzi tra chi ritiene che il sistema possa essere riformato e chi per opposto che debba essere abbattuto. Con la variabile destra-sinistra, diversamente declinata a fare da spartiacque. Laddove per destra si intende che il cambiamento debba avvenire senza la costrizione di «alcuna regola avendo come unico riferimento il “merito”» mentre per sinistra si intende il riconoscimento di una «sostanziale uguaglianza: nessuno deve vincere troppo».

Gli intervistati, on line su un panel web proprietario, si sono spinti fino a definire il posizionamento di un ben nutrito numero di personaggi politici.  Quasi inutile dire che l’area mediana  tra destra e sinistra, con prevalenza centrosinistra, è la più affollata e che la differenza tra i vari nomi indicati si misura sulla propensione al cambiamento attribuita a ciascuno. Due le criticità che possono (potrebbero) spostare i posizionamenti: la fiducia (credibilità) e la simpatia. Due attributi che, come dice la parola stessa, sono “dati” più che “posseduti”. Cioè è il contesto che li esalta o li deprime.

È appurato dalla logica, ancor prima che dai numeri, che quelli che si son baloccati con la politica negli ultimi venti anni sono tagliati fuori: la loro incapacità ha generato il modello Renzi. Il quale si sta impegnando a contraddire il mito di Crono: è il figlio che mangia il genitore.  Chi è causa del suo mal pianga sé stesso. In ogni caso non potranno essere dei credibili antagonisti di Renzi con qualche possibilità di vittoria gli ultrasessantenni Bersani e D’Alema, e avranno vita grama nel breve-medio anche quelli alla Fassino e Chiamparino, che pure avevano intuito il pericolo o eran corsi in soccorso del vincitore. Non potranno farcela neanche il cinquantatreenne Gianni Cuperlo e il quarantatreenne Angelino Alfano. Per dire degli “amici”. Sono vecchi dentro e capaci di evocare un sogno tanto quanto un tappo di sughero che galleggi in una pozza d’acqua piovana. Sulla stessa barca dei perdenti trova spazio, anche se con motivazioni diverse Silvio Berlusconi. Certamente è (stato) un gran venditore di sogni ma si trova spiazzato da due fatti: Renzi promette (meglio) le stesse cose (o quasi)  che lui in vent’anni non è stato capace di realizzare e in più, patto del Nazareno, gli conviene star tranquillo per non correre altri inutili rischi. A destra non c’è nient’altro avendo il domiciliato di Arcore dato credito solo a portatori di voti dalla mediocre levatura politica.

Chi resta allora sulla piazza? Posizionato all’esatto opposto di Renzi è Grillo con una parte, forse consistente ma senz’altro non con la totalità, del M5S. Grillo però (in coppia con Casaleggio deve avere un diabolico pensiero) sta dilapidando giorno dopo giorno il tesoretto di consensi acquisito con un comportamento ondivago e dai tratti decisamente bizzarri.  E comunque come hanno insegnato tutte le rivoluzioni, da quella francese in avanti, la quantità di sangue che la gente (il popolo) è disposta a sopportare ha un limite fisiologico.  Nella stessa area e in parte con gli stessi problemi si trova anche Salvini. Il bagno di folla di Milano non sposta granché.  Con l’aggravante di una minor simpatia e maggior rozzezza.

Di nuovo o simil tale al momento ci sono solo due potenziali concorrenti che si stanno spendendo molto: Corrado Passera e Diego Della Valle. Il primo sta cercando di costruire un partito dal nome improbabile (Italia Unica) e si porta dietro il grave peccato di essere stato ministro del governo Monti. Ha alle spalle una carriera importante ma forse non è sufficiente per generare fiducia e sul versante simpatia è buio pesto. Diego Della Valle si presenta come uomo normale, di recente e planetario successo. Vanta inoltre la conoscenza, da outsider e contestatore, del grande capitale. Ma non ha alcuna struttura a sostegno e queste non si costruiscono dal nulla.

Ci sarebbe un terzo, nel lontano orizzonte: Luigi Di Maio. Lui una struttura ce l’avrebbe e potrebbe caricarla anche di altri plus: anche lui appartiene alla categoria dei normali, è equilibrato, dialettico al punto giusto (Renzi lo patisce) ha dieci anni meno del Presidente del Consiglio e si è tagliato lo stipendio. Ma prima di misurarsi con Renzi dovrebbe sistemare i conti con Grillo. Non è facile ma il tempo forse lavora per lui. Una volta c’era anche Fabrizio Barca ma di lui si son perse le tracce: se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare.

lunedì 20 ottobre 2014

Il ministro Andrea Orlando vuol chiudere San Vittore.

Arriva al  ministero della Giustizia su suggerimento di Napolitano. Racconta a Cazzullo che per la riforma  intende coinvolgere l’opposizione. San Vittore va chiuso e bisogna costruire nuove carceri. Interessato a cogliere “l’occasione urbanistica” piuttosto che considerarne le conseguenze .

Domenica epocale quella del 19 ottobre per Andrea Orlando: ha ottenuto la prima pagina del Corriere della Sera. Andrea Orlando 45 anni, spezzino, maturità scientifica e nulla più, una vita passata a correre nei corridoi di partito, Pci prima poi Ds e adesso Pd, in altri tempi lo si sarebbe detto un apparatiniko, ha la spiccata tendenza a stare sempre dalla parte della maggioranza, magari pure con qualche mal di pancia. Attualmente aderisce alla corrente dei “giovani turchi”, è alla terza legislatura e alla seconda esperienza come ministro. La prima la fece con Richetto Letta al Ministero (senza portafoglio) dell’Ambiente mentre adesso è a quello della Giustizia. Su suggerimento, si dice, del Presidente Napolitano.  In entrambi i casi competenze tutte da verificare. Renzi infatti gli avrebbe preferito Nicola Gratteri che di lavoro fa, per l’appunto, il magistrato e qualcosa ne mastica. Soprattutto Gratteri mai si sarebbe sognato di far eleggere al Csm una candidata senza i necessari requisiti. Come Teresa Bene. Ma tant’è.

Per raggiungere la prima pagina del Corsera occorrono due condizioni: una necessaria e una sufficiente. Quella necessaria è la capacità di spararle grosse senza necessariamente dire qualcosa di sensato mentre quella sufficiente è di avere come sponsor un giornalista di peso. D’Alema per esempio sul dire non ha mai avuto problemi e  si avvale della collaborazione ormai antica di Dario Di Vico. Sulla prima condizione Andrea Orlando si sta allenando mentre come sponsor ha l’aspirante vicedirettore Aldo Cazzullo.  Che però è in prestito essendo questi abituato a ben altri calibri e Renzi ne è il benchmark.

Per sparata si intende una affermazione che colpisca l’immaginario e al tempo stesso dimostri quanto sia, al minimo, disinformato sul senso e sulle conseguenze chi la pronuncia. E questo è il caso. Emblematico. Già il titolo in prima pagina: «Cambio la giustizia con l’opposizione E San Vittore va chiuso», promette bene e molto spiega.  Trovare accordi con chi s’è votato leggi ad personam verrà facile solo se si starà su quella china. Alternativamente più che difficile sarà altamente improbabile, anche a mettere in campo qualità dorotee di cui, a sentir Renzi «l’Orlando pacioso» è ben dotato. L’idea poi di chiudere San Vittore senz’altro a molti piacerà  sul piano simbolico ancor prima che su quello fattuale. Vorrebbe, il giovane ministro, rimodulare «il piano carceri, anche per cogliere l’occasione urbanistica  legata a immobili di grande valore. Io sono per chiudere le carceri ottocentesche con i raggi, come San Vittore, non per riaprirlo altrove ma per sostituirlo con un carcere più piccolo e fuori Milano.» Bell’idea quella ridurre le dimensioni visto che si parla di carceri super affollate.

Nel merito: spostare il carcere storico all’esterno della città ha valenza simbolica, che è come dire nascondere la pena, ancorché civile ed umana, agli occhi dei cittadini. Che poi disquisire sulla localizzazione centrale dei simboli del vivere sociale è intuitivo ancor prima che banale. Quindi c’è un aspetto logistico: il carcere deve essere facilmente raggiungibile soprattutto con comodi mezzi pubblici da tutti coloro che intorno alla figura del carcerato ruotano. In prima battuta i parenti: genitori anziani e famiglie con scarsi mezzi che non sempre possiedono automobili o hanno soldi da buttare in viaggi. E poi di coloro che prestano la loro opera nell’ambito del volontariato e spesso si tratta di pensionati. Senza voler dire degli avvocati e dei giudici che è meglio se spendono più tempo nello studio delle carte piuttosto che in auto e nel traffico.

Se poi il giovane signor ministro volesse informarsi sulla struttura di San Vittore potrebbe scoprire che dei sei raggi che lo compongono ne sono attivi solo quattro e che ogni braccio è dotato di cento celle e quindi se tutti i raggi fossero operativi si avrebbero a disposizione almeno seicento celle e non le attuali quattrocento . E che, almeno in parte, il sovraffollamento è dato proprio dal deficitario rapporto tra il numero dei detenuti e quello degli spazi a disposizione. Quindi se si ponesse mano alle opere di ristrutturazione magari utilizzando i detenuti stessi molto si risolverebbe. A beneficio del ministro l’informazione che il lavoro per tutti i detenuti è un bene prezioso assai desiderato e ricercato. Una chiacchierata, anche breve, con gli operatori gli disvelerebbe il segreto. Peraltro durante il Consiglio Comunale straordinario tenutosi nel carcere il 5 ottobre del 2012 Luigi Pagano, attuale vicecapo del Dap, annunciò che il ministero aveva sbloccato i fondi per far ripartire i lavori di ristrutturazione del IV raggio. Mentre è notizia di ieri che già si sia allineato al pensiero del ministro. Capita.

Non c’è alcuna necessità di consumare altro territorio con nuove costruzioni quando basta rammendare (per dirla con Renzo Piano) quanto già esistente. Senza contare che il Piano di governo del territorio varato nel maggio 2012 dalla giunta Pisapia ha definitivamente sancito che San Vittore non verrà spostato,  bloccando così ogni ipotesi di speculazione edilizia. Pare inoltre che la Sovrintendenza ai beni culturali abbia posto un vincolo e che ci sia pure l’interesse del FAI. Non ultima la considerazione che il numero degli appartamenti invenduti o non affittati a Milano è in continuo aumento. Come dire quindi che non si sente la necessità di altre costruzioni.

Infine giusto un paio di domande. La prima: Per la edificazione di San Vittore sono stati impiegati poco meno di sette anni, dal giugno 1872 al maggio 1879, ritiene il signor ministro di poter garantire la costruzione di un nuovo carcere in analogo spazio di tempo? O addirittura inferiore se ipotizza una struttura più piccola.. La seconda: il costo dell’opera a moneta corrente è stato di 11.573.000€. Crede di poter rispettare un simile budget?

Quindi magari, a beneficio di ministri e giornalisti, varrebbe la pena prendere qualche informazione prima dell’intervista e magari essere adeguati alla bisogna, che a dire che gli asini volano più o meno son capaci tutti. E comunque è storia vecchia.

venerdì 17 ottobre 2014

Caso Ruby ultimo atto (si spera)

Depositate le motivazioni della sentenza. A leggerle si coglie che il corpo diplomatico italico è stato scippato di  una grande risorsa dalla magistratura . Il presidente della corte si dimette. L’ex capo di gabinetto della Questura di Milano non ci fa una gran figura. Ma questa neanche altri che però se ne fregano.

A tre mesi (quasi) esatti dalla assoluzione del domiciliato di Arcore è stata depositata la sentenza con le relative motivazioni. Si tratta di 330 pagine e si può facilmente immaginare che chi le ha scritte abbia ampiamente usato i famosi 15 giorni di ferie (aggiunte) che toccano ai magistrati. Giorni dati, e questo Renzi Matteo dovrebbe coglierlo al volo, proprio per scrivere le sentenze. Durante le vacanze. Se di solito luglio e agosto, per il clima, son mesi che invitano i normali a non aver pensieri per i magistrati sono al contrario il tempo giusto per scrivere. 

Trecentotrenta pagine sono un bel malloppetto, un romanzo cicciottello, e per renderne piacevole e scorrevole la lettura bisogna avere una certa qual arte. Che nel caso specifico pare, a legger i resoconti dei quotidiani, sia stata dispensata a piene mani. Sempre a dedurre da quello che è riportato dai giornali, la trama in taluni punti viene dipanata quasi si trattasse di un romanzo giallo laddove le premesse servono solo a sviare l’attenzione dal maggiordomo  assassino mentre in talaltri il tocco rammenta la leggerezza di Wodhouse quando narra del cameriere Jeeves. Poi ci sono le parti e sembrano le più in cui l’abilità diplomatica la fa da padrona. Verrebbe da dire che la magistratura abbia scippato una promettente risorsa al corpo diplomatico. Alla fine un meraviglioso esempio di complessità.

Per la logica sequenziale è ovvio che due più due faccia quattro mentre invece quando si ragiona per complessità due più due può fare cammello o cicoria. E questo è il caso. Il fatto che il Capo del governo abbia chiamato 7 volte in poco meno di due ore il funzionario della Questura non significa fare «minaccia esplicita o implicita» ma più semplicemente «una richiesta». E neanche (troppo) pressante. Soprattutto se dall’altra parte del telefono c’è un funzionario che vuol «compiacere» per «timore autoindotto.» Perché l’Ostuni Piero, oggi vicario del questore sempre a Milano, che forse è una promozione rispetto al ruolo di capo di gabinetto, «sacrificando l’interesse obiettivo della minore» dimostra una «accondiscendenza incautamente e frettolosamente accordata» al primo ministro e lo fa «per timore reverenziale, compiacenza o timore autoindotto, debolezza o desiderio di non sfigurare a fronte della rappresentazione soggettiva, condizionata dall’autorevole accreditamento del premier, di una effettiva possibilità di affidamento di Ruby consona al suo interesse.» Bingo. Le giuste doti del vicario del questore. Rassicurante.

A questo si aggiunga che tutto il contorno viene appurato: le cene non erano propriamente eleganti, un qualche lezzo di prostituzione è sentito, e Karima El Mahroug vi ha partecipato almeno 8 volte con quel che ne segue. Ma, ma c’è un ma. Anzi di ma ce ne sono due. Il primo è che il padrone di casa non sapesse della minore età di Ruby. Credibile. E il secondo è che chi l’aveva procurata, Emilio Fede, «non aveva alcun interesse a rivelarla a Berlusconi.» Questo invece molto credibile. Soprattutto alla luce di talune intercettazioni telefoniche. Ma è proprio per ciò che i romanzi di Wodhouse e il suo cameriere Jeeves sono piaciuti tanto. È il nonsense che acchiappa. E quindi in questa miscela di pesi e contrappesi, di senso e di nonsenso, tutto si tiene, tutto quadra e tutto si salva. Magari si spera che alla corte di Strasburgo, dove il domiciliato di Arcore ha presentato ricorso, si trovi meno ambizione letteraria, meno diplomazia e meno spirito umoristico.


Effetto collaterale, questa volta serio, di queste 330 pagine, stese in quest’ultima piovosa estate che se il tempo fosse stato bello forse sarebbero state di meno e magari più secche, è stata la lettera di dimissioni del dottor Enrico Tranfa, Presidente della Corte d’Appello di Milano. Che non era una toga rossa anzi, se proprio proprio quasi bianca, di centro. Probabilmente i suoi colleghi se ne faranno una ragione, magari anche velocemente, pensando che in fondo si libera un posto. Chi invece non se la farà tanto facilmente sarà proprio il dottor Tranfa ma da pensionato potrà, volendo e con sforzo, pensare ad altro.

martedì 14 ottobre 2014

E loro dov’erano?

Dal 1945 ad oggi 10 alluvioni, senza contare le esondazioni. Chiacchiere se ne sono sempre fatte e progetti pure. Rimasti progetti. Politici nelle strade infangate non se ne sono visti. Solo il cardinal Bagnasco girava tra pale e fango e concionava neanche fosse “frate mitra”.Tutti a prendersela con loro. Ma loro chi?

Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi le alluvioni che hanno devastato Genova sono state 10. Magari il numero può sembrare piccolino ma se rapportato al fatto ed ai morti che ne sono seguiti diventa enorme. La prima alluvione è avvenuta proprio nel 1945 poi sono seguite altre: quelle del 1951 (due volte nello stesso anno), 1953, 1970 (44 morti), 1977, 1992, 1993, 2010 (a ponente), 2011 (5 morti) e poi, fortunatamente con un solo morto,  quella di questi giorni. Come dire che acqua ne è corsa sotto i ponti. E sciaguratamente tanta.

Ovviamente la retorica ha girato a mille, come sempre in queste occasioni. Questa volta ci si è messo anche il cardinal Bagnasco che ha concionato contro tutto e contro tutti, mancava poco che incitasse alla rivolta. Novello frate mitra. In primis s’è lanciato contro la burocrazia e poi lo scandalo dei soldi non spesi e per finire, manco a dirlo, ha bollato i vecchi modi di fare. Comunque, da vero professionista, della politica e della comunicazione, si è portato appresso le telecamere di parecchie televisioni. Che come metodo non è proprio nuovissimo. D’alta parte mica si diventa cardinali così, per caso. Forse con tutta questa visibilità il cardinale genovese spera di risalire qualche gradino nell’opinione di papa Francesco. Ma la strada è in salita e magari anche bagnata.

Naturalmente gli spalatori, soprannominati con scarsa fantasia gli angeli del fango, sono stati intervistati a raffica. In verità bastava fermarsi al primo che tanto tutti hanno ripetuto, con parole diverse, lo stesso concetto: «Dov’erano i politici? Perché i politici non hanno fatto nulla? Dove sono finiti i soldi?» Eccetra, eccetra. Naturalmente gli stessi discorsi sono stati fatti anche dai comuni cittadini e dai negozianti, che hanno presentato la variante: «Questa è la seconda volta.» Doppiata da «Come posso pagare le tasse?»  

Già dov’erano i politici? In verità sono sempre stati ai loro posti. Dove sono stati messi. In comune, in provincia, in regione e in Parlamento. E anche i preti sono sempre stati ai loro posti: in parrocchia, in arcivescovado e qualcuno anche a Roma. E tutti lo sapevano. Ma forse questa non è la vera domanda che i genovesi (e magari anche gli altri italiani) dovrebbero rivolgere e rivolgersi.
Gli esperti dicono che la pioggia ha una qualche responsabilità ma a ben vedere neanche la più importante. «La pioggia che è caduta a Genova è caduta anche nelle vicinanze e non è successo nulla» ha detto il capitano Paolo Sottocorona, meteorologo. Che tradotto significa: non ci sarebbe stato problema se il contesto fosse stato pulito. Cosa che non è. Il problema vero è dato dalla cementificazione.

I romani sul Bisagno avevano costruito un ponte con 13 campate adesso se ne vedono solo tre e le altre dieci? Scomparse. Ovvero inglobate, per non dire inghiottite, dalla speculazione e da una politica urbanistica scellerata. E qui il capitolo abusivismo  neanche lo si apre. La voglia di mangiare terra è stata insaziabile e non si sbaglia molto a dire che quella fame ha coinvolto tutti e ha soddisfatto, in tempi e modi diversi, tutti. Chiamarsi fuori diventa difficile.

Quindi la domanda che i genovesi dovrebbero urlare è: «dove erano i genovesi?» Già dov’erano i genovesi mentre Genova veniva cementificata? Dov’erano i genovesi quando si costruivano quartieri abbarbicati sulle pendici delle colline. Dov’erano i genovesi quando si terrazzava in modo indiscriminato? Dov’erano i genovesi quando si erodevano gli argini e magari si costruiva sui greti? Dov’erano i genovesi allora? E dov’erano quando si è trattato di votare i politici che li stanno, si fa per dire, governando? Già, dov’erano? Erano lì.
Che poi per dirla tutta prima di cambiare i politici bisogna che i cittadini elettori decidano di cambiare, cambiarsi, la testa. Non facile ma auspicabile.

Auguri ai genovesi. E magari anche a tutti gli altri italiani per il loro prossimo futuro cambiamento. Se ci sarà. 

venerdì 10 ottobre 2014

La forma e la sostanza: il caso di Sabina Guzzanti.

La frase della Guzzanti a Palermo la definirebbero “una scemenza col botto”. Come dargli torto.

«Solidarietà a Riina e Bagarella privati di un loro diritto. I traditori delle istituzioni ci fanno più schifo dei mafiosi.»  
Questa volta Sabina Guzzanti non ha fatto ridere e neppure castigato i costumi. Per dirla come va detta ha semplicemente fatto una grossa, enorme, colossale scemenza. Pure pericolosa. Per come questa sua esternazione potrebbe e può essere strumentalizzata. Da Sabina Guzzanti, per storia e cultura, ci si aspetta molto di più sia in termini di contenuti sia di stile. Da quando in qua si solidarizza con i mafiosi? La frase, eversiva, avrebbe potuto essere etichettata come “dal sen fuggita” se fosse stata colta durante una conversazione: non sempre lingua e cervello sono collegati. Come il caso dimostra. Risulta invece particolarmente grave perché scritta e come soprammercato proprio su twitter che a star dentro quei 140  caratteri con un qualche senso ci vuole un certo impegno. Anche se si tratta di stendere un pensiero bislacco.

Nel caso specifico forma e sostanza si fondono così bene da distogliere l’attenzione dal vero punto della questione: uno Stato è tanto più forte quanto più sa confrontarsi apertamente e con sicurezza con i propri nemici. E così i più anziché concentrarsi sulla questione della forza dello Stato che si esplica nel riconoscimento dei diritti della difesa, negata, e dei rischi che questo comporta, non solo per il procedimento ma anche come precedente, si son messi a chiacchierare del flop dell’ultimo film della Guzzanti. Una bagatella irrilevante. Che gli imputati abbiano diritto di assistere alle testimonianze, a favore o contrarie, durante il processo lo stabilisce il codice di procedura penale. E tant’è.

Da notare che tra i richiedenti non ci sono solo i mafiosi ma c’è anche Nicola Mancino, per nove legislature in parlamento, nonché ex ministro del’Interno e, per incidente della storia, anche vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.
La questione peraltro ha avuto un percorso tutt’altro che lineare. In primis è stata ammessa la testimonianza del Presidente della Repubblica che subito si è affrettato a far sapere di non aver nulla di rilevante da raccontare ai giudici. Che se tutti i testimoni facessero così i processi correrebbero spediti come fusi. A questo è seguita la richiesta da parte degli imputati di poter assistere, almeno con collegamento audio video, alla testimonianza presidenziale. Richiesta accolta dalla procura della Repubblica. Poi la Corte d’Assise dice che tutto si può fare meno che far partecipare gli imputati se non tramite i loro legali. Che ci mancherebbe pure questa e magari anche la secretazione della testimonianza.

Comunque tutto ciò posto il rischio vero è che il procedimento, proprio per questa assenza, venga annullato. Richiesta già avanzata da Mancino al quale l’esperienza in Csm deve aver insegnato qualcosa. E se poi la richiesta di annullamento sarà accolta? Probabilmente si finirebbe con l’aggiungere la questione Stato-mafia alla pila dei fascicoli dei casi irresolubili. Non sarà il primo e non sarà, purtroppo l’ultimo.  Parlare oltre della frase della Guzzanti di fronte a questa eventualità è tempo inutilmente speso.

La forma e la sostanza: il caso Galan.

Ha sempre sostenuto di essere innocente e di poterlo provare in modo inoppugnabile poi dopo pochi mesi d’infermeria patteggia.

L'allegria di Giancarlo Galan
L’ex presidente della regione Veneto nonché ex ministro della Repubblica ed ex deputato Giancarlo Galan (ma continua e continuerà a percepire lo stipendio fino a fine legislatura  e poi la "liquidazione da parlamentare e infine, per non farsi mancar nulla, anche i cospicui vitalizi, da regione e parlamento, fin che vita dura) sarà presto trasferito dall’infermeria del carcere di Opera alla sua mega villa sui colli. Scarcerato perché innocente? No, arresti domiciliari perché patteggiato. Infatti Giancarlo Galan dopo aver alzato alti lai per la sua innocenza ha deciso per il patteggiamento. Arriva buon ultimo cioè al ventiquattresimo posto perché dei 35 coinvolti giudiziariamente nel business del Mose già 23 l’hanno preceduto. E molto probabilmente i ritardatari, visto il contesto, seguiranno a ruota.  Colpevole? Ma ci mancherebbe. Ha deciso per questa terribile misura solo perché ama la famiglia e non sopporta il carcere. Mentre tutti gli altri che affollano le patrie galere ci stanno, magari scomodi, perché detestano la famiglia e alcuni in particolare la suocera, e gli piacciono il fresco e la compagnia.

Poiché sul patteggiamento c’è un po’ di confusione ecco il testo dell’articolo 444 del codice di procedura penale che al comma 1 recita: « L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria.» Tuttavia il Galan Giancarlo continua a dichiararsi innocente e la cosa ci starebbe pure se fosse stato sottoposto a iniquo processo, a false testimonianze e a terribili torture ma così non è stato. Anzi, è da dire che in questi mesi passati a Opera non ha mai visto cella. Né da fuori né da dentro. E sulle testimonianze ce n'ì d'avanzo.

Poi, giusto per cavillare, nel sito del Ministero di Giustizia si legge: «Presupposto del patteggiamento è l'implicita ammissione di colpevolezza da parte dell'imputato.» Ergo tanto innocente non deve essere. Per sua stessa implicita ammissione.


Comunque la pena per l’innocente Galan è lievissima: 2 anni e 10 mesi ai domiciliari, che il quella villa e in quel parco è più facile perdersi che trovarsi, e una pena pecuniaria di 2,6 milioni di eurini. La cifra può sembrare enorme ma a quanto dice Giovanni Mazzacurati, quello che i soldi li tirava fuori, l’ex doge della regione Veneto ha da lui ricevuto un milione all’anno e poiché gli anni di regno sono stati 15 il conto viene facile. Quindi, come dire, alla fine tirate le somme il saldo è più che positivo. Per Galan ovviamente. 
Se il caso voleva essere di monito a non delinquere vien difficile prenderlo per buono.

mercoledì 8 ottobre 2014

Giuseppe Civati il plaudente pentito.

Sabato è in piazza santi Apostoli con Vendelo e applaude con calore poi si accorge di quelli di Gazebo si blocca e prende l’aria di essere lì per caso. Un altro pezzo del nuovo che avanza.  Oggi dovrà decidere come votare sul job act. Forse dovrebbe studiare l’azione politica di Pietro Ingrao.

Il titolo di questo pezzo può parere criptico mentre, invece, riprende didascalicamente l’avvenimento. Sabato 4 ottobre Giuseppe Civati, in arte Pippo, Pippo Civati, ha partecipato ad una manifestazione politica in piazza santi Apostoli. E questo ci sta poiché il Pippo di cui sopra è un deputato del Pd eletto nel collegio della Brianza. La manifestazione era organizzata da Sel, partito di opposizione mentre il Pd è quello che regge il governo. E anche questo ci sta perché andare alle manifestazioni di quelli che non la pensano allo stesso modo è sinonimo di laicità e democrazia. 

Civati Pippo è entrambe le cose tanto da prendere la parola e sostenere non tanto le ragioni del suo partito, ammesso che ce ne siano, ma quelle degli altri: del partito di opposizione. E qui laicità e senso della democrazia vanno un po’ oltre quello che ci si aspetterebbe. Infine quando prende la parola Vendola, leader degli oppositori, il Civati Pippo ne sottolinea i passaggi salienti applaudendo con un certo trasporto. Ma non sempre. Quando si accorge della presenza della telecamera di Gazebo (trasmissione dissacrante di Rai 3, tv) si blocca, prende l’aria di essere lì per caso. Poi a fine comizio le immagini (domenica 5 ottobre) mostrano per intero l’amletico dubbio che squassa l’animo, il cuore e la mente del giovane brianzolo: "mi si nota di più se bacio Vendola o se me ne vado senza farmi notare?" Considerando che Vendola Nichi potrebbe essere il suo nuovo leader mentre quello che ha tacciato di essere di destra, il Renzi Matteo, è il capo della sua attuale parte. Il dilemma è autentico e lacerante. Nel Pci si diceva così. Anche perché sarà il Renzi a decidere, in qualche modo, i candidati alle future elezioni e per come lo si conosce ad alcuni non farà sconti. Specialmente se gli parranno di scarso peso.e non utili. Anche se talvolta un’opposizione evanescente e velleitaria lo è. Alla fine il Civati bacia ed abbraccia il Vendola ma sgattaiola velocemente altrove. Un po' sì e un po' no.Come ti sbagli!

Tutta la carriera del Civati Pippo ha danzato su questi dilemmi. È indubbio che a lui “stare a sinistra” piaccia. Un po’ come ai bimbi piacciono le patatine fritte ne sono golosi ma non ne sanno il perché. Quindi di lì a dar del senso alla  dichiarazione ce ne corre. 

È stato con Ignazio Marino quando ci sono state le prime primarie del Pd, poi è stato con Matteo Renzi alla prima Leopolda, quella dei rottamatori. Deinde poscia è stato con la Serracchiani alla prima di “il nostro tempo”. Poi la Serracchiani si è convertita al renzismo. È stato il primo e forse l’unico ad aver abbandonato Renzi. Quindi è stato il primo pontiere tra Pd e Movimento 5 Stelle. Insomma le prime gli piacciono da morire. Non c’è iniziativa che odori vagamente di nuovo che non lo veda se non promotore perlomeno partecipante. Adesso  è il primo del Pd con il movimento di Vendola.

Oggi (8 ottobre) dovrà decidere come votare ha le classiche tre possibilità: votare a favore per disciplina di partito ma allora meglio non applaudire i leader altrui, votare contro ma allora meglio uscire dal partito, lasciare dall’aula e bersi un cappuccino alla bouvette e sarà la scelta peggiore. Sull’onda di quella che fece il sannita Gaio Ponzio.

Se proprio vuole fare il “sinistro” all’interno del Pd vada a studiare la storia politica di Pietro Ingrao. Ne avrà da imparare.

venerdì 3 ottobre 2014

Diego Della Valle parla bene ma come razzola?

La sua azienda va alla grande, conosce bene il mondo degli affari. Quando è entrato nei salotti buoni ha contestato i vecchi residenti. Con Italo perde soldi ma le FFSS non si sono comportate come gentiluomini inglesi- Ha amicizie varie e inimicizie molteplici. Nel Paese più dadaista del mondo c’è posto anche per lui.

Ormai è qualche tempo, dal 1994, che Diego Della Valle gironzola nei dintorni della politica quindi le sue presenze televisive, che nelle ultime settimane si sono intensificate, non devono suonare di sorpresa per alcuno. Di lui si dice che dopo essere stato elettore del partito repubblicano sia stato incantato da Berlusconi, ma fu fascinazione di breve durata. Pare che già dopo un paio d’anni fosse deluso dal domiciliato d’Arcore e decidesse di muoversi per altri lidi. La cosa di per sé fa già salire la colonna delle positività di almeno un paio di punti.

Da quel che dice sembra uomo di buon senso piuttosto che partigiano di una parte (sinistra) piuttosto che dell’altra (destra). Con un po’ di civetteria si definisce ciabattino e non gli dispiace ricordare d’essere figlio e nipote di operai e quindi qualche ricordo, foss’anche lontano, di cosa si debba fare per arrivare alla fine del mese deve averlo mantenuto. E forse per lo stesso motivo pare che conosca bene i disagi dei pendolari che spesso cita. Indubbiamente è uomo che sa far funzionare la sua azienda e oltre alla produzione conosce bene il mondo degli affari. Ammette che star fuori da certe stanze non aiuta il business e per questo, alla fine degli anni novanta, acquistò quote di Banca Nazionale del Lavoro ed entrò nel consiglio d’amministrazione della Comit, poi in Mediobanca e quindi in Rcs. Senza voler dimenticare la Fiorentina. Una squadra di calcio fa status anche se, dopo i primi incontri, la compagnia non gli deve essere piaciuta molto e ha passato la mano al fratello.  Ma d’altra parte non sempre si possono scegliere i vicini.

Dovunque è stato ha svolto la parte del contestatore del sistema esistente. Essendo del ’53 gli deve essere rimasta attaccata qualche scoria del tardo ’68. Comunque a dare un’occhiata anche superficiale al sistema economico-finanziario italiano vien difficile dargli torto. Dopodiché lui avrà i suoi obiettivi, tutti legittimi e retti, si immagina, ma al momento non sono questi in discussione. Li si analizzerà a tempo debito.

Oltre che ai salotti sedicenti buoni della finanza italica si è dato da fare sul campo sia in Italia che negli Usa. Ha fondato un fondo di investimento dedicato al lusso (Charme), ha partecipazioni in molte aziende: Piaggio, Bialetti, Ferrari (e bisognerà vedere per quanto ancora) e Cinecittà. Negli Usa ha comprato e venduto quote di Saks Fifth Avenue. E pare abbia sempre guadagnato dalle sue operazioni. L’unica che gli va in perdita è Italo, la compagnia ferroviaria. Ma ad onor del vero sono da dire due cose. La prima è che Italo corre solo sulle tratte ricche e non si occupa affatto dei percorsi dei pendolari. E questo lascia un po’ di amaro. La seconda e che  le FFSS gli hanno creato un sacco di problemi e, per dirla come va detta, non si sono comportate come dei gentiluomini inglesi. Ma d’altra parte Mauro Moretti non ha mai preteso di esserlo. Oltre a tutto viene dalla Cgil.

Qualche volta ha detto di non essere contro la patrimoniale, se fatta con equità, talaltra ha confermato che le tasse dovrebbero essere pagate secondo i propri redditi. Non è una gran novità ma detta da un miliardario suona meglio.  

Le sue amicizie sono varie: da Luca Cordero di Montezemolo a Luigi Abete a Clemente Mastella e , forse, D'Alema Massimo. Non sono proprio la stessa cosa ma lui che li conosce di persona vi ha trovato del buono. Magari un giorno dirà dove stà. I nemici invece, come capita a molti, sono tanti: Marchionne, da sempre, poi Elkan John, che lui chiama Yaki, Berlusconi, Verdini e poi Renzi e poi il già citato Moretti. Quelli di seconda schiera non sono considerati.

Accusa Renzi di aver fatto tonnellate di promesse mentre i fatti conclusi si pesano ad etti. E anche qui dargli torto viene difficile. A sentire i beni informati starebbe pensando ad un governo fatto solo da esperti che non vuol dire tecnici. Di quelli ne ha avuto abbastanza anche lui. Il suo nuovo slogan è: «questa non è l’ultima spiaggia.» Che tradotto significa: «ci sono alternative a Renzi (ed io sono una di quelle. Se non l'unica.).» 

A questo punto restano due interrogativi: come fa ha racimolare i voti per governare e poi quali sono i suoi esperti. Dopodiché nel paese più dadaista che c’è una chance la si può dare anche a lui. Che un conto è parlare un altro è razzolare.