Ciò che possiamo licenziare

sabato 30 agosto 2014

Una bimba, due mamme (lesbo) e un tribunale: la forma e la sostanza.

Un conto è la sostanza, la vita di tutti i giorni e altro la forma che passa attraverso le leggi e conseguenti disposizioni. La solita italica muina. Parafrasando Franco Antonicelli:« Le leggi le mette in movimento solo l’esercizio che ne fa il popolo.»

Questa volta trattandosi del tema dell’adozione da parte di coppie omosessuali non si prenderanno in considerazione né le opinioni di Maurizio Sacconi e tanto meno quelle di Carlo Giovanardi.  E neppure le si ridicolizzeranno. Sparare, metaforicamente parlando, sulla Croce Rossa oltre che non essere bello alla lunga non è neanche tanto divertente, quindi i fatti. 

Raccontano le cronache, assolutamente private e malgrado loro diventate pubbliche,  di due donne, di una sentenza emessa dal tribunale di Roma e soprattutto di una bambina. Le due donne sono lesbiche (sono fatti loro) e dopo quattro anni di convivenza sei anni fa decidono di sposarsi, per questo vanno in Spagna, e come accade a molte coppie desiderano anche di avere un figlio. Già che ci sono lo fanno in Spagna. Con fecondazione eterologa. Invece di un figlio è arrivata una figlia. Per le due donne non è stato un problema, forse entrambe speravano che fosse femmina. Così adesso in famiglia sono tre.

Ora una delle due donne, quella che è la madre biologica sul versante burocratico,con la figlia non ha problemi: può andare a prenderla all’asilo, parlare con le insegnanti eventualmente, ma si spera di no, farle visita in ospedale. E via dicendo. Per l’altra invece nulla di tutto questo. Anzi, legalmente parlando lei è un’estranea: non può iscrivere la piccola nella sua mutua professionale, per dirne una e, per dirne un’altra, mai le maestre dell’asilo le affiderebbero la bimba per riportarla a casa. Per ovviare a questa e ad altri magari più importanti impedimenti la seconda donna chiede di poter adottare la bimba. E quindi, come prassi, si rivolge al tribunale. Questo fa tutte le sue verifiche e scopre che la bimba è normalmente equilibrata e perfettamente a suo agio con quelle due mamme. Quindi nel supremo interesse della minore l’adozione viene concessa.

A questo punto si scatena la bagarre e oltre ai due campioni di buon senso di cui prima ne  intervengono anche altri: da Giorgia Meloni a Francesco D’Agostino ad alcuni di secondo piano che sperano con una qualche sparata di ricavarne un po’ di visibilità. Calderoli docet.  L’argomentazione è sempre la stessa: manca la figura paterna e la famiglia deve essere eterosessuale. Amen. Magari papa Francesco direbbe:«Chi sono io per giudicare.»

Ma rimanendo sul punto vien da dire che la figura maschile manca anche a chi è orfana/o di padre o figlia/o di ragazza madre. Però in questi casi nessuno trova alcunché da eccepire. Dissonanza cognitiva. Evidente.
Tornando al fatto: nessuno ma proprio nessuno tra gli oppositori ha pensato che la bimba vive senza padre e con due mamme da quando è nata e cioè da cinque anni e quindi nella sostanza, che è quella che conta, la cosa non la disturba affatto. Anzi, la sua vita (emotiva ed affettiva oltre che materiale) è felice e si trova in una posizione invidiabile rispetto a quella di figli che hanno padri (ma anche madri) bene assenti e lontani. E per questo nonostante le loro famiglie siano “normali” tanto equilibrati e felici non sono. In fondo se non ci fosse stata la volontà della “seconda madre” di maggiormente tutelarla nessuno si sarebbe mai occupato di questa bimba e della sua famiglia e tutte e tre avrebbero continuato a vivere la quotidiana tranquilla normalità.

Allora: un conto è la sostanza, la vita di tutti i giorni e altro la forma che passa attraverso le leggi e conseguenti disposizioni. Ancora una volta si assistere alla solita italica muina: tanto rumore per nulla. Parafrasando una frase sulla democrazia di Franco Antonicelli si può dire che «Le leggi non calano dall’alto. Non le fanno i politici e non bastano a crearle neppure savi legislatori. Le leggi possono rimanere inerti le mette in movimento solo l’esercizio che ne fa il popolo.»


Sulla questione interviene anche Ivan Scalfarotto che dice:«La magistratura ha aperto la strada, ora bisogna che a questi casi pensi la legge.» Dimostrando così d’aver capito poco, praticamente quasi nulla, e soprattutto di arrivare buon ultimo. È stato veloce solo nel sistemare la posizione sanitaria del suo compagno. Poi ha promesso di lavorare affinché quel tipo di trattamento non fosse solo appannaggio di deputati e giornalisti ma diritto di tutti sia homo che etero, ma non è successo nulla. Come non si ha notizia di sue iniziative concrete per il mondo lgbt. Se ne sta comodo nel suo cantuccio da sottosegretario alle riforme. C.v.d.

mercoledì 27 agosto 2014

Calderoli-Salvini-Littizzetto: un trio italico.

Calderoli, Salvini, Littizzetto: cosa li unisce? La mancanza di senso del ridicolo e delle proporzioni. Uno crede nella macumba. l'altro non sa come funziona l’Iva. E la terza sbandiera 100€ come fosse il milione del signor Bonaventura. Tristezza

Lo scorso 11 agosto Roberto Calderoli, ahinoi senatore della Repubblica, ha rilasciato a Il fatto quotidiano una intervista anima e core nella quale tracciava una sorta di punto della sua vita, politica e non. Vita piena di rimpianti. Capita anche ai peggiori. In questa, oltre che annunciare il suo prossimo ritiro (ma non ha specificato né giorno né mese, né anno) confessa di aver sparato stupidaggini, Camilleri direbbe minchiate, solo per avere spazio sui giornali. E non è il solo. In qualche modo si dichiara pentito di un simil modo di fare il che denota che anche un gallo-selta della sua stazza da qualche parte, magari ben nascosta, ha della sensibilità. Ma non è vero. Ad appena quindici giorni dall’intervista eccolo ancora agli onori della cronaca. Questa volta è per chiedere coram populo al padre della ex ministra Kyenge Cècile  di togliergli la macumba di cui si ritiene oggetto. Ma come? Uno abituato a calcare il pratone di Pontida, uno che beve l’acqua del Po (che magari era acqua minerale) uno che ha passato la vita a fare lo stuoino di Bossi, non del Trota ma dell’altro. Uno che ha parlato di bingo-bongo e poi ha inventato la legge porcata e mantiene il coraggio di guardarsi allo specchio tutte le mattine, uno così ha paura della macumba? Calderoli crede nella macumba come le vecchie contadine analfabete dei secoli passati credevano nel malocchio. Allora dovrebbe rivolgersi a Vanna Marchi&;figlia. O comprare un cornetto di corallo. Ancora una volta Calderoli ha lanciato una fesseria, direbbe Pratolini una bischerata, per leggere i suo nome sui giornali. Bene. Ce l’ha fatta ancora. A ricoprirsi di ridicolo. Quello che aveva cumulato fino ad ora non gli basta.

Sulla stessa lunghezza d’onda si è mosso anche il nuovo segretario della Lega, Salvini Matteo. Dato che squadra che vince non si cambia anche lui ha pensato bene di sparare qualche marunada, come si dice ad Alzano Lombardo dove ha tenuto la sua performance. Nel video postato dal corriere.it (1)  il prode ed ingrassato Salvini, pure un po’ bolso, invita i suoi a disertare i supermercati in favore dei piccoli negozi e a non farsi fare lo scontrino fiscale. Perché così, dice lui, non si versa l’Iva allo Stato. Questa oltre che una marunada è anche una stupidada (sempre in bergamasco) perché l’Iva il negoziante l’ha già pagata quando ha fatto l’acquisto del prodotto dal suo fornitore. L’unica cosa che si ottiene non chiedendo lo scontrino è di far evadere la tasse al negoziante. Evidentemente Salvini non ha ben chiaro come funzione il sistema dell’Iva. Magari una secchiata d’acqua gelida per snebbiare le idee gli farebbe bene.

Secchiata d’acqua che invece s’è beccata la Littizzetto dopo aver sventolato due biglietti da 50€ come suo contributo alla ricerca contro la Sla. Il mondo del web l’ha subito criticata per l’esiguità dell’importo. Ma d’altra parte ognuno dà quello che può o vuole e i parametri sono personali. Forse la Littizzetto ha voluto agire su quello della proporzione. Probabilmente  legando la donazione al  livello della sua comicità. E allora 100€ sono più che sufficienti. Magari c’è pure da darle il resto. Comunque si è giustificata: prima ha detto di essere caduta dal pero, che spesso lo sembra per davvero e pure che abbia battuto la testa. Poi ha aggiunto di aver fatto una stupidata, quindi ha voluto sottolineare che lei mai direbbe quanto versa in beneficenza. Probabilmente per non arrossire. Comunque: volendo si può cartesianamente dubitare di tutto. Pure anche di questo. Alla fine della fiera però pare che le varie secchiate abbiano portato nelle casse 300.000€. Un po’ pochino in proporzione ai personaggi (e relativi redditi) che si sono scomodati. Magari ci si aspettava qualche cosina di più non foss’altro in pagamento della visibilità che la secchiata d’acqua ha portato. Ma questo è il Paese dei proclami e della demagogia. Non dei fatti.

Ps. Il padre di Cècile Kyenge ha risposto che forse gli antenati sono arrabbiati con il Calderoli. Certo sarebbe da vedere uno che rivendica di essere l’antenato di Calderoli. Che poi trovarne più di uno è tutto da dimostrare.  Infine: è notorio che gli antenati hanno un sacco di cose da fare . Figurati se si perdono dietro a uno che crede nella macumba. Uno così gli antenati lo cancellano dall’albero genealogico.

Mentana. l'Iva e la scuola di Cavezzo. Pura demagogia

Ogni limite ha la sua demagogia ma Mentana lo supera. Vuole sia tolta l’Iva dalle opere per la scuola di Cavezzo, costruita con i fondi raccolti da la7 con il Corsera. È illogico e pericoloso. Si tratta solo di vanità. Che gli italici pagherebbero cara.

Anche questa sera, con il solito cipiglio, Mentana Enrico, occhio fisso sul gobbo che gli scorre davanti, ci ha raccontato che è stata una giornata epocale e piena di significato. I fatti esteri e quelli italici sono stati oggi più importanti di quelli di ieri e lo saranno meno di quelli di domani. Lo fa tutte le sere. Gli spettatori de la7 oramai se ne sono fatta una ragione. Questa volta però ha voluto stupire e nel finale si è lanciato in una cruda critica sull’applicazione dell’Iva. Pareva quasi, detto senza alcun intendimento d’offendere, di sentire parlare Matteo Selvini, il leghista. Che solo il giorno prima in quel di Alzano Lombardo aveva piroettato sulla stessa pista anche se con minor garbo. Ma d’altra parte uno è un ruspante gallo-celta mentre l’altro viene dai piani alti del giornalismo.  

In soldoni, che proprio di soldoni si tratta, la faccenda si può riassumere così: la7 con il Corriere della Sera ha lanciato una sottoscrizione per aiutare le popolazioni terremotate dell’Emila e in totale hanno raccolto poco meno di 3 milioni. Importo senz’altro ragguardevole. Con questi denari in quel di Cavezzo, settemila anime nella bassa modenese tra Mirandola, Medolla e San Prospero, è stata costruita una scuola. Anzi due la scuola elementare e quella media. Un istituto comprensivo, come si dice adesso. Il progetto è stato curato dallo studio di Renzo Piano e si vede. Inoltre con la ricostruzione sono aumentati i servizi. Adesso c’è la palestra che prima non c’era, ci sono zone ricreative che prima non c’erano e il verde e i servizi di urbanizzazione. Insomma una meraviglia. Meglio che non ci fosse stato il terremoto ma già che ha voluto passare da queste parti s’è fatto di tutto per migliorare la situazione. All’ora qual è il problema? Il fatto è che s’è pagato l’Iva. Al 10%. Come tutti. Ma poiché l’importo della costruzione è alto, tre milioni appunto, l’Iva, mal contata è stata di 300.000 eurini. Bene, dov’è il problema?

Secondo il Mentana Enrico che nel dare la non-notizia sfoggiava occhi lacrimosi che neanche un vitello ne sarebbe capace, lo Stato dovrebbe rinunciare a quei trecentomila euro che a detta della signora sindaca, Lisa Luppi, potrebbero essere spesi per far cose ancora più belle. Il che oltre che ovvio è anche banale. In tutta questa bella pantomima si fa passare, come farebbe il Salvini leghista, lo Stato per una orrenda sanguisuga, vessatore di donne, vecchi e bambini nonché terremotati, specificatamente di Cavezzo. Però ogni demagogia dovrebbe, come la pazienza avere un limite. O meglio ogni limite dovrebbe avere la sua demagogia. E questa volta si è strabordato giocando malamente sui sentimenti della solidarietà e della generosità. E per essere certo di un qualche effetto il buon Mentana ha chiamato in causa prima Renzi e poi tutti i parlamentari della zona. C’è di che scatenare un bel polverone. A danno di tutti. Ma la demagogia, si sa, non guarda in faccia nessuno. E poi perché Cavezzo sì e l’Aquila no? E poi perché solo i terremoti e non anche le alluvioni. E poi perché le frane no? E l’acqua alta a Venezia? E le piogge torrenziali? E la lava dell'Etna? E le mareggiate? e scivolare su una buccia di banana, no?

Per rimettere le cose sui piedi anziché farle saltellare a testa in giù si può ripercorrere il tracciato della ricostruzione. Per il progetto si affida l’incarico ad uno studio professionale che studierà, progetterà, coordinerà ed alla fine emetterà parcella, con Iva. E lo stesso farà l’impresa di costruzione prescelta che a sua volta avrà comprato sabbia, cemento, cazzuole e betoniere e tutto il resto necessario da altri fornitori che avranno emesso debita fattura con Iva inclusa così come avranno ricevuto a loro volta dai loro fornitori analoghe fatture con Iva. Almeno si auspica.

Le imprese quando vendono sono “soggetti passivi” di Iva ovvero l’incassano ma la riversano allo Stato detratta quella che loro hanno pagato per realizzare la loro prestazione. L’Iva che per una azienda non è un costo perché va a compensazione, ovvero quella pagata viene compensata da quella incassata, se non la si riceve dal cliente lo diventa automaticamente. Quindi un danno economico e finanziario per l’azienda fornitrice. Ma non solo.

Bisogna anche capire quanto è lunga la catena del valore. Un esempio semplice semplice: il costruttore (che ha consegnato la scuola emettendo fattura con Iva) ha comprato il cemento da un cementificio (che ha emesso fattura con Iva) il quale a sua volta si è approvvigionato di materia prima da una cava (che ha fatturato con Iva) che a sua volta ha pagato un trasportatore per la consegna (che ha emesso la sua fattura con Iva). E un’impresa di costruzioni non ha un solo fornitore ma molte decine: impianti elettrici, sanitari, piastrelle, porte, finestre giusto per dirne alcuni, ciascuno dei quali se ne porta dietro altrettanti. E poi ci sono gli elementi di arredo: banchi, sedie, lavagne e magari anche computer e tutta la tecnologia per i laboratori di lingue. A che punto della filiera si deve interrompere il pagamento dell’Iva?

E  tutto questo al netto dell’italica furbizia sulla cui creatività c’è sempre da imparare. L’evasione dell’Iva nel 2013 è stata stimata in 52 miliardi. Che sorbole come commento da solo non basta. Non ultimo il fatto che se tutte le spese effettuate per il ripristino delle zone terremotate fossero Iva esenti quegli incassi mancati Stato non sparirebbero d’incanto ma, come già accade in virtù dei 52 miliardi di cui sopra, tutti gli italici se li ritroverebbero, senza parere, come costo aggiuntivo o sulle accise o sull’Irpef e o su qualche tassa regionale o magari comunale. E anche qui la fantasia dei tassatori è inimmaginabile. Per cui i cittadini di Cavezzo, signora sindaca in testa pagherebbero individualmente più tasse. Chi glielo va a spiegare che queste sarebbero le conseguenze della sparata di Mentana?

Magari Mentana, Enrico, che ha una bella redazione, avrebbe fatto meglio a chiedere lumi sul funzionamento dell’Iva ad un suo redattore esperto in materia e anche al Corsera suo partner in questa avventura che ne ha diversi o  magari anche al suo commercialista. Forse questo gli avrebbe fatto la consulenza gratis, senza fattura e senza Iva.  La demagogia è come il prezzemolo la si piazza in tutte le salse. Ma questo non è tempo di salse e neanche di demagogia.

martedì 26 agosto 2014

Jonathan che avrà 40 nel 2020 - 3#puntata

«Beh così – la corressi – ancor prima di fare scomparire le auto si stimola la partecipazione che come sai è libertà e magari si riduce la corruzione e pure l’apparente dabbenaggine di chi amministra la cosa pubblica che spesso ha sottoscritto contratti sfavorevoli, ancorché legalmente inattaccabili e si permette ai cittadini di mantenere il controllo sul territorio. Insomma l’uovo di Colombo.
«E poi?» incalzava Ludmilla
«E poi, sempre per rimanere sulla mobilità, a ciascuno secondo il suo bisogno.»
«Ovvero?»
«Ovvero che ognuno possa muoversi in città secondo le su necessità. Pertanto offrirgli il massimo delle alternative possibili. Considerando in particolar modo i costi sociali di un’operazione e non solo quelli economici. Pensa a cento persone che debbono andare al lavoro ed il tram che ritarda anche di solo di 10 minuti: si stanno sprecando circa 8 ore di lavoro: una intera giornata uomo che se moltiplicata per il numero delle volte in cui questo accade dà dei numeri impressionanti. Ovviamente tutte queste ore devono essere recuperate e lo si fa a danno di altro. Si ritarda nell’andare a prendere i bambini da scuola e, a cascata, si fa la spesa di corsa e si torna a casa più tardi e più stressati. E dunque meno tempo per la famiglia o per il riposo, o per il tempo libero. E tutto questo ha un costo, un costo sociale occulto, che proprio perché non si vede palesemente non viene considerato. Quindi massimo sviluppo dei mezzi pubblici, abolendo quelli che vanno a gasolio, e sviluppo del car-sharing – meglio se elettrico - sull’esempio del bike sharing e magari pure dei taxi che devono poter contare su un interessante rapporto di costo-beneficio. Ciò che è importante non è tanto la dimensione del mezzo quanto la sua frequenza di passaggio. Troppe volte si vedono enormi tram viaggiare semivuoti. Se non sei certo del tempo di percorrenza del mezzo pubblico tendi a fare da solo e così si crea il problema. In una parola va reso conveniente innanzitutto in termini di tempo e poi anche di costi l’uso del mezzo pubblico contro quello privato. E’ semplice. Basta volerlo.

La signora Felicita servì due tazzone di minestrone freddo. Ludmilla affondò il cucchiaio e dopo aver gustato il sapore di quella bontà insistette.
«Che altro proponi?»
«Aumentare le possibilità di telelavoro: meno gente si sposta meno traffico si ha. Cioè meno consumo di petrolio, meno inquinamento, aria più pulita, meno malattie, meno costi per la sanità, meno assenze dal lavoro e come saldo, già che ci siamo, più produttività. Però decentramento, viabilità e telelavoro sono solo tre dei punti della città ideale, altri sono quelli che fanno riferimento alla generazione dell’energia verde, alla raccolta differenziata, alla cultura – a Milano oltre ai grandi e famosi teatri ce ne sono ancora circa una trentina e forse più, che mettono in scena produzioni di grande qualità ma sono semisconosciuti e non sempre facilmente raggiungibili - e poi lo sport poche piscine pubbliche meno di una per zona, e ancor meno palestre e spazi verdi. E poi largo alla creatività ed all’artigianalità che di solito vanno mano nella mano. Ma sul come fare ascolta la gente che vive come consumatore o gestore tutte queste situazioni. Così come stai facendo con me. Perché alla fine tutto si tiene.»
«Hai qualcuno sotto mano?» mi chiese Ludmilla.

Più le stavo vicino più mi piaceva, aveva la grande capacità di cogliere l’essenza delle cose e di voler arrivare al fondo del ragionamento senza frapporre obiezioni, che certamente aveva, ma si teneva per il momento della verifica. Roba da innamorarsene.
«Certo – risposi – ho amici in quasi ogni settore della mia città ideale: Egidio informatico, Marcella frequentatrice di musei e gallerie d’arte, Bashir bibliotecario, Marina ciclista e manager, Enrico Maria teatrante, Andrei badante (c’è anche la questione anziani),, Yolanda designer Igiaba giornalista di una radio cittadina, Mario bidello, Teresa artista digitale, Deliou editore e Ambrogio portinaio e Dragomira amministratrice di condomini»
«Bene, chiamali.»

La prima ad arrivare fu Marcella, giunse proprio mentre la signora Felicita stava servendo un superbo vitel tonnè con capperi di Pantelleria. Una vera delizia. Poi arrivarono tutti gli altri.
«E così avete trasformato la città?» chiese Kofi
«Sissignore. Guarda là, sul tetto del PAC, c’è il fotovoltaico come su quelli di tutti gli edifici pubblici, dalle scuole alle case dell’edilizia popolare. Tutta la luce pubblica della città deriva da quelli. Naturalmente si sta proseguendo con gli edifici privati. L’aumento della domanda ha stimolato la ricerca: i nuovi pannelli sono più piccoli, più potenti e meno costosi. E c’è più occupazione.»
«Avrete consumato molto territorio per tutte queste opere.»
«No. Le piscine sono state costruite negli scantinati delle scuole e il nuovo è stato edificato laddove c’era già del costruito. Semplice ed ovvio.»
«È una storia perfetta – ha commentato Kofi - . Questa sera vado a vedere uno spettacolo in teatro di via Porpora, cento posti. Fanno il tutto esaurito ogni sera vuoi venire con tua moglie?»
«Certo. Mia moglie è un’artista. Che ne dici di un aperitivo al laghetto di San Marco?»
«Ci sono stato ieri sera con una amica. Posto molto suggestivo. L’acqua era limpidissima e veniva voglia di farci il bagno e poi il tramonto era eccezionale. Il cielo era completamente arrossato sembrava un tramonto boreale. Non credevo si potesse vedere a Milano.»
«Già. Quelli della mia età ricordano com’era la città e non la rimpiangono di certo. Per una volta la nostalgia fa cilecca.»

Ah, dimenticavo, Ludmilla ora è l’ambasciatrice del thought in Milan, gira il mondo e racconta la sua esperienza. Non è mia moglie né glielo mai ho chiesto. Sposai Bérénice, la scultrice da cui Kofi ha comprato una creazione. Anche lei prese diverse volte il mio taxi nel giro di pochi giorni. Fu amore a prima vista. Evidentemente la filosofia di Eraclito con il mio taxi non funziona.(fine)

lunedì 25 agosto 2014

Jonathan che avrà 40 anni nel 2020 - 2#puntata

«Certo che Milano è molto cambiata – ha detto guardandomi e ad un mio cenno d’intesa ha aggiunto – mi chiamo Kofi Annan sono ghanese e faccio l’impresario teatrale. Sono qui per cercare spettacoli da portare nel mio paese e in tutto il resto dell’Africa.»
«Molto piacere» ho risposto presentandomi a mia volta ed allungandogli la mano che ha stretto con un certo vigore, sorridendo.
«Non vengo in questa vostra bella città da cinque anni, dall’Expo, evento memorabile e la trovo assai cambiata. Tutto mi pare funzioni meglio, la circolazione è assolutamente più scorrevole non c’è più il traffico di un tempo, la qualità dell’aria è migliorata e soprattutto dalle finestre sono sparite quelle orrende antenne paraboliche kitsch. Ma soprattutto girando per i vostri teatri underground, e ne avete veramente tanti, ho constatato, oltre alla qualità delle rappresentazioni, anche una grande affluenza di pubblico. Un pubblico composto non solo da italiani. Direi un pubblico cosmopolita, almeno a giudicare dalle facce.»
«Bene che anche lei se ne sia accorto. – gli ho risposto – Quello che ha visto è un pubblico italo-internazionale. Molti proprietari di quelle facce da straniero sono nati a Milano o comunque qui cresciuti, ed educati. Tanti di loro parlano in milanese e io non son capace. La scolarizzazione degli stranieri, sia bambini sia adulti, è stato uno dei più importanti cambiamenti sociali di Milano. E poi ci sono gli stranieri veri, quelli che vengono dal resto del mondo per assistere alle migliori performance dell’avanguardia culturale, partecipare agli eventi professionali e per visitare i nostri musei che hanno spazi nuovi e adesso rimangono aperti anche per 16 ore al giorno. E sono sempre affollati. Molti poi vengono a Milano anche per acquistare moda e arte digitale: pezzi unici. Si è passati dalla serialità all’unicità. »
«Nel mondo si parla molto del vostro artigianato digitale: come garanzia di qualità e prestigio il thought in Milan come marchio di garanzia sta superando il made in Italy

«Oramai più del 30% della forza lavoro milanese è impegnata in attività creative che vuol dire ricerca in tutti i settori dell’industria, dalla fisica alla bioingegneria genetica, e arte. Siamo la città più creativa d’Europa nella progettazione, nel design, nella letteratura, nel teatro, nella pittura e nella scultura.»
«Vero. Qui lavorano degli scultori digitali molto creativi. Ho appena acquistato una scultura digitale da Bérénice De Mannelli.»
«Molto brava. La conosco.»
«Come è stato possibile tanto cambiamento in così poco tempo?» mi ha subito chiesto Kofi, nel frattempo eravamo passati al tu.
«L’Expo è stato un grande volano. Mano a mano che l’evento si formava in crisi, pezzo dopo pezzo, la vecchia concezione della città, del suo modo di produrre e soprattutto del suo modo di essere vissuta. Certo la tecnologia ha avuto un ruolo importante, anzi importantissimo, ma l’ingrediente fondamentale è stata la volontà di cambiare. Volontà generalizzata che ha coinvolto tutti. Incredibilmente la città è diventata più grande, più cosmopolita: qui trovi tutti i ristoranti del mondo e senti parlare quasi tutte le lingue. Oggi Milano è più popolata, quelli che negli anni passati se ne erano andati sono ritornati portandosi dietro amici e parenti. E per quanto paradossale possa sembrare più vivibile.»
«E gli altri ingredienti?»
«Aver creduto nella importanza della rete, il wi-fi è su tutto il territorio della città, e aver capovolto il processo di generazione delle idee: stimolarne la nascita dal basso anziché calarle dall’alto. In buona sostanza chiedere alle persone comuni, che sono quelle che ne utilizzano i risultati, cosa avrebbero voluto e come avrebbero agito per ottenerlo.»
«Molto interessante – commentò l’impresario – e il processo come si è sviluppato?»
Conosco molto bene la storia avendovi partecipato in piccola parte e così la raccontai.

Tutto cominciò quando, nel giro di pochi giorni trasportai sul mio taxi, per la quinta volta la stessa persona. Il fatto di incontrare lo stesso passeggero nel giro di breve tempo non è poi così usuale, infatti il taxi è un po’ come l’acqua di TEraclito: in quella è impossibile bagnarsi per più di una volta e sullo stesso taxi è assai improbabile salirci due volte. Proprio per questo motivo il mio mestiere mi affascina ogni giorno di più: tante corse faccio tante sono le tipologie di persone che incontro, tante sono le opinioni che sento. Con molti dei miei passeggeri parlo e di tutti, anche non volendo, ascolto i discorsi e così mi faccio un’idea di come sta girando il mondo. I sociologi Gli istituti demoscopici di tanto in tanto dovrebbero intervistare noi tassisti, senz’altro ne caverebbero informazioni molto interessanti. Ma questo è solo un suggerimento che poco ha a che fare con questa storia. Dicevo dunque che nel giro di pochi giorni, al massimo una decina, mi capitò di trasportare per la quinta volta la stessa persona. In verità nelle quattro volte precedenti era in compagnia di altri che però variavano ad ogni corsa. E questa non era la sola improbabile e strana casualità: l’avevo caricata sempre in posti diversi e portata ogni volta a destinazioni diverse. Ciò che avevo colto dai loro discorsi, non sempre comprensibili ad onor del vero, era che fossero impegnati in uno studio sul cambiamento, strutturale loro dicevano, della città. Chi ora stavo trasportando, se non avevo capito male, era la coordinatrice del progetto. Sì, si trattava di una donna. Una bella donna di media statura di carnagione olivastra, zigomi alti, occhi castani, vivissimi, incastonati in due orbite dal sapore mediorientale. Indossava in genere dei tailleur, talvolta con gonna talaltra con pantaloni, le sue camicette erano di colori freschi e vivaci. Per leggere inforcava un paio di occhiali con una grossa montatura come quelle che andavano di moda negli anni sessanta. Nel comportamento più che nelle fattezze ricordava vagamente un’attrice ma non sono mai riuscito ad individuare quale. Pazienza.

Quando la caricai per l’ennesima volta le dissi del parallelo tra l’acqua di Eraclito e il taxi. Ne fu stupita.
«Lei conosce Eraclito?» mi chiese
«Abbiamo fatto amicizia al liceo – risposi – e siamo diventati intimi durante l’università.»
«Laureato in filosofia?»
«Sì… non è grave, vero?»
«Sono sul taxi dell’unico tassista laureato in filosofia!»
«Forse l’unico laureato, ma non è detto. E comunque senz’altro non l’unico tassista filosofo.»
Lei rise e dallo specchietto retrovisore, intravidi schiudersi le sue labbra carnose e brillare i suoi denti regolari, forti e incredibilmente bianchi. Così cominciammo a chiacchierare e il traffico in questo ci fu di grande aiuto, si procedeva assai lentamente su due file, in viale Maino. In quegli anni una delle strade più trafficate della città.. Inoltre era l’orario dell’uscita da scuola e le auto piazzate in seconda file stringevano ulteriormente la carreggiata. Ovviamente un paio di virtuosi del clacson si sfidavano componendo ardite composizioni cui assegnavano il potere sciamanico di fare sparire, come per incanto, ogni ostacolo davanti a loro. Quindi la nostra conversazione poteva procedere con una tranquillità. Avevamo tempo. Così Ludmilla, questo il suo nome, di origine moldava ma nata a Milano, mi raccontò che lei con un nutrito gruppo di teste d’uovo stavano studiando come rendere, strutturalmente per l’appunto, la città più vivibile. Quindi con
meno traffico, meno smog, mobilità più facile magari anche maggiori possibilità di lavoro dato la crisi stava mordendo con maggior cattiveria. Poi, all’improvviso, mi chiese se anch’io volessi partecipare al gruppo e magari dare delle idee. La richiesta mi prese in contropiede e quindi, dopo un primo momento di sorpresa, risposi proponendole di pranzare insieme. Incredibilmente accettò. Fece una telefonata e posticipò di un paio d’ore l’appuntamento verso il quale la stavo portando. Pragmatica e diretta. Mi piacque ancora di più. Mi diressi in via Villoresi, da Felicita, cucina casalinga.

Durante il pranzo Ludmilla fu incalzante mi spronava a esprimermi senza reticenze. Io in realtà sapevo bene cosa dire ma tutto mi sembrava talmente semplice e ovvio che ero titubante. Ma lei insisteva. Le raccontai dunque della mia città ideale e cominciai dall’argomento che mi è più vicino: la viabilità. Le dissi quindi che avrei voluto che tutte le auto parcheggiate lungo le strade sparissero visto che ciascuna, tra il lusco ed il brusco, occupa circa una decina di metri quadrati e che quello spazio, con poca spesa avrebbe potuto essere destinato alle biciclette.
«E le auto dove le mettiamo?» chiese lei.
«Sotto terra.» risposi io
«Ma questa è un’idea vecchia»
«Certo, ma non sempre messa in pratica correttamente. E quando s’è fatto ci sono stati enormi ritardi nei lavori e aumenti sbalorditivi dei costi.»
«E dunque qual è la tua ricetta?»
E così, avutone il permesso ufficiale diedi sfogo a tutti i sogni di papà e mamma. Ovviamente pensando in maniera strutturale perché altrimenti non c’è divertimento a impostare il cambiamento. Quindi, mentre ci portavano un antipasto di nervetti e peperoni sott’olio iniziai con il suggerire il capovolgimento dei ruoli tra l’istituzione Comune ed i Consigli di Zona. Ai secondi il potere di fare le cose, potere che deve stare sempre vicino ai cittadini che così possono meglio vedere dove vanno a finire i loro soldi. Quindi una sorta di “tutto il potere ai soviet”. Mentre all’autorità centrale i ruoli di programmazione, coordinamento e soprattutto di controllo delle procedure e dei costi. Tanto per fare un esempio il costo industriale di un garage sotterraneo non può essere influenzato dalla zona in cui viene costruito ma solo dalle oggettive difficoltà di realizzazione e quindi dalla natura del sottosuolo. E poiché il sottosuolo della città è noto, non foss’altro che per i tanti enti che vi lavorano e ci mettono mano ecco che taluni costi extra che in passato erano apparsi nei consuntivi di alcune realizzazioni facendone lievitare i costi anche oltre il 70% non avrebbero più avuto ragione d’essere.
«Bene e così fai scomparire le auto e poi?» (continua, la terza e ultima puntata sarà pubblicata domani, 26 agosto)

domenica 24 agosto 2014

Jonathan che avrà 40 anni nel 2020 - 1#puntata

Mi chiamo Jonathan e oggi, 12 maggio 2020, compio quarant’anni. Il numero venti con i suoi multipli e sottomultipli ha scandito le tappe importanti della mia vita.
Sono nato nel 1980 e nel 2000 ho compiuto vent’anni. Non è buon augurante superare la linea d’ombra proprio nel momento in cui un secolo si chiude e se ne apre un altro? Certo che sì mi sono risposto. E comunque tutti quelli che erano alla mia festa di compleanno non hanno fatto altro che ripetermelo. Quindi anche se avessi voluto non avrei potuto sottrarmi a questo mantra.

Il 2000 doveva essere per me una data fondamentale, a tutti i costi E me lo urlava con l’estrema dolcezza della panna e del caramello anche la torta che come decorazione portava in la scritta “A Jonathan che compie vent’anni nel 2000”. Quella frase in verità riecheggiava il titolo di un vecchio film girato verso la metà degli anni settanta. O forse poco dopo. Il titolo originale recitava, per l’appunto: “Jonathan che avrà vent’anni nel 2000”. Ecco, io, con il mio compleanno stavo facendo diventare presente il futuro di quel lontano passato. Il film era un trattato sull’utopia, pensato e girato da un regista svizzero utopista per un pubblico di utopisti. I miei genitori erano gli spettatori ideali: utopisti anche loro. Forse pure di più. Per questo mi chiamo Jonathan.

I miei vecchi si sono conosciuti nel febbraio del ’68 durante una delle tante occupazioni del Berchet. Il liceo classico Berchet, per chi non lo ricordasse, si trova in via della Commenda a metà strada tra porta Romana e piazza Missori, a due passi dai giardini della Guastalla e dalla sinagoga, a tre dalla biblioteca Sormani e dal tribunale e a quattro dalla sede della Umanitaria, la prima scuola milanese pensata per il popolo. Poi sono seguite a ruota le scuole civiche.
«Già, solo la collocazione di quel liceo ne faceva il luogo ideale per la formazione di ribelli se non proprio di rivoluzionari.» chiosò una volta mia madre.
Pare infatti che a quel tempo fosse normale occupare le scuole, le università e qualche volta anche le fabbriche. Gli uffici no, quelli non li ha mai voluti occupare nessuno.
«Troppo asettici, troppo poco vivi. Negli uffici non c’è odore, non c’è rumore, non c’è calore e soprattutto non c’è il piacere di vedere la materia grezza che, plasmata dalle mani dell’uomo, cambia di forma.» mi spiegò una volta mio padre. Ma a quel tempo internet, che pure già esisteva, non era a disposizione delle masse e in ogni caso Autocad e Photoshop ancora non erano stati inventati. Comunque, lui, mio padre, in quell’occupazione ci capitò per caso.Tanto per cominciare lui non studiava in quel liceo ma al Parini e poi quel giorno, quello del fatidico incontro, aveva appuntamento con altri della sua classe per andare allo Smeraldo ad un matinée di avanspettacolo con dodici-ballerine-dodici, meglio delle blue belle, ed una soubrette specializzata in danze esotiche.
«Che per tuo padre ed i suoi amici voleva dire erotiche.» commentò mia madre.

Invece sbagliò teatro, mio padre è sempre stato un po’ svanito e si trovò davanti al Carcano. Allora non c’erano i cellulari e il gps era di là da venire, se uno si perdeva era perso per davvero. La fortuna volle che davanti al teatro si radunasse, con tanto di bandiere e distribuzione del giornale Umanità Nova, un gruppetto di anarchici che andava a dar manforte agli occupanti del liceo. Già perché mio padre era ed è ancora un anarchico individualista che conosce a memoria interi brani de “L’unico e la sua proprietà” di Max Stirner. Fin da quando ero piccolo lo ho sentito recitare: « Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di "diritti dell'uomo". Il mio potere è la mia proprietà, il mio potere mi dà la proprietà. Io stesso sono il mio potere... e per esso sono la mia proprietà » E lo fa ancora adesso, di recitare questo pezzo. E un poco, anzi molto più di un poco, anzi direi proprio parecchio di quel suo pensiero mi ha influenzato. Infatti il mestiere che faccio è il più anarchico che ci sia. Mia madre, invece, militava in Avanguardia Operaia, un gruppo extraparlamentare che sulla base della teoria marxista aveva inserito molto del pensiero di Lev Trotsky e nonostante avesse solo sedici anni era già una accesa trotskista. Tra i due sono sempre scintille quando si parla di politica ma su un punto sono d’accordo: hanno ancora la speranza di poter vedere il sogno del ’68 realizzato. Vogliono ostinatamente continuare a credere che finalmente sarà vietato vietare e che c’est ne qu’un debut nous continuons le combat e che la fantasia prenderà il potere e che a ciascuno secondo il suo bisogno. E sono disposti a vedere tutto questo anche sotto altre spoglie che non siano quelle tramandate dalle tradizioni. Su questo punto sono molto elastici e credono che per prendere i topi non sia importante il colore del gatto.

Dopo l’università, sono laureato in filosofia come mio padre mentre mamma è biologa, mi presi qualche mese e vagabondai un po’ per l’Europa, il nord Africa e la Turchia giusto per vedere cosa c’era di nuovo. Poi, quando tornai dissi che volevo fare un lavoro che, nell’ordine, mi consentisse di continuare a leggere (e magari anche studiare), mi permettesse di ascoltare la radio tutto il giorno, mi desse la possibilità di esprimere la mia poca creatività scrivendo, mi facesse incontrare tante persone delle più diverse qualità e che poi non fosse opprimente con gli orari e non mi bloccasse su una scrivania, mi concedesse di andare in giro per la città e magari pure per i suoi dintorni e infine che mi lasciasse tutto il tempo libero necessario.
«Un lavoro del genere non esiste.» mi risposero i più. E anch’io stavo per convincermene quando mi capitò tra le mani un vecchio libro di Somerset Maugham: Il filo del rasoio. Dopo averlo letto capii che quel mestiere esisteva. Il protagonista del romanzo è Larry Darrell, pilota d’aviazione durante la prima guerra mondiale, che dopo qualche anno speso a girovagare per il mondo alla ricerca di sé stesso e dopo essersi trovato, decise di essere taxista a New York. Io più modestamente pensai di essere taxista a Milano. Peraltro ho girato molto meno e mi sono trovato quasi subito.

Il lavoro del taxista oltre a tutte le caratteristiche che ho indicato prima ne comprende un’altra che nella sua eccezionalità rappresenta la ciliegina sulla torta: tutto il lavoro non fatto oggi non te lo ritroverai sul tavolo domani. Semplicemente non c’è più. Splendido. Grazie a questo lavoro, che poi per la verità credo sia il miglior modo di vivere senza lavorare, ho potuto vedere cambiare la città, la gente e pure trovare, anzi essere trovato da mia moglie. Ma di questo dirò poi. La città in soli diciotto anni, questa è la mia anzianità di servizio, è cambiata tantissimo e, strano a dirsi, in meglio. Adesso è raro che qualcuno dei miei passeggeri si lamenti e attacchi la solita tiritera “di quanto si stava meglio una volta”. Ora sembrano tutti contenti di vivere a Milano perché è diventata la prima metropoli europea, se non addirittura mondiale, a misura d’uomo. Sembra un ossimoro metropoli a misura d’uomo e invece non lo è affattoIeri pomeriggio mi sono preso qualche ora di vacanza e me ne sono andato ai giardini Indro Montanelli e mentre gustavo un gelato, rigorosamente cioccolato e limone, riflettevo su quanto questi, i giardini intendo, fossero cambiati rispetto anche solo a qualche anno fa. No, non tanto per la struttura che più o meno credo sia la stessa da sempre quanto per la gente. Nonostante fosse martedì c’erano molte persone, tante quante negli anni passati se ve vedeva solo di domenica. Ovviamente mamme con bambini, ovviamente anziani, ovviamente i soliti del jogging, ovviamente qualcuno portato a spasso dal cane ma anche tanti altri che nei tempi passati e negli stessi orari sarebbero stati chiusi in un ufficio.

Questa volta erano ai giardini non perché disoccupati, come accadde a molti agli inizi della passata decade, ma nella pienezza della loro funzione lavorativa. Per tante professioni adesso non è più obbligatorio avere una scrivania in un ufficio, le loro mansioni possono essere espletate dove meglio si crede: a casa, al bar o ai giardini pubblici, come stava per l’appunto accadendo ieri. E tutto questo in virtù delle quasi infinite possibilità della rete. La municipalità, in accordo con i Consigli di zona ha esteso il servizio wi-fi a tutta la città. Grazie a questa semplice piccola innovazione si sono liberati tantissimi spazi e anche tantissimo tempo. Non si sprecano più ore di vita per i trasferimenti da casa all’ufficio e ritorno e nelle persone c’è maggiore coscienza di questa fondamentale risorsa che è il tempo. Certo di uffici ce ne sono ancora ma è cambiata la loro funzione ora sono solo dei punti d’appoggio. Gli effetti collaterali di questa innovazione sono stati tanti e tutti interessanti: buona parte dei palazzi del centro è tornata ad essere adibita ad uso abitativo il che ha portato a due ulteriori novità: i prezzi ora sono accessibili e che il centro è vivo anche dopo le 19,00 e non solo per l’ entrata e l’uscita dai cinema. Inoltre, dicono le ricerche, il tasso di socialità, è sensibilmente aumentato e se ne prevede una ulteriore crescita negli anni a venire. Infine ne ha guadagnato anche il traffico e la viabilità e molta più gente usa le biciclette. E quasi ogni strada oggi è dotata di una pista ciclabile per ogni senso di marcia.

Mentre facevo queste riflessioni si è avvicinato alla panchina un distinto signore che dopo avermi augurato «buon pomeriggio» mi ha chiesto se i posti accanto al mio fossero liberi e avutane conferma si è seduto. Anche lui aveva l’aria di prendersi una pausa e infatti non accennò minimamente ad estrarre il computer dalla borsa che aveva appoggiato tra noi. Pure lui si è messo ad osservare. (la puntate successive usciranno il 25 e la terza il 26 agosto)

venerdì 22 agosto 2014

Romana De Gasperi: il buon senso è duro a morire.

Messo spesso in minoranza, se non bandito, il buon senso di tanto in tanto ritorna. Maria Romana De Gasperi in una breve intervista sul Corriere della Sera mette in fila passato e presente del Paese. Lo fa con buon senso. Forse in dose eccessiva per quanto possa assorbirne l’italico popolo. Che a capirlo poi è tutta un’altra storia.

Negli ultimi venti anni e forse pure qualcuno in più, il caro vecchio buon senso ha avuta vita grama. 
Una congiura ben organizzata, non si sa da chi, lo ha emarginato dalla vita pubblica (e non solo) degli italici. Tuttavia nonostante i continui disperati impegni dei cucuzzari, di turno che si trovano ben spalmati lungo tutto lo stivale e in tutte le classi sociali, di tanto in tanto il buon senso riemerge. E talvolta anche nei territori che, apparentemente, sono marginalmente ai confini della politica. L’ultimo caso di buon senso applicato è stato fornito dalla Signora Maria Romana Catti De Gasperi, figlia di Alcide De Gasperi. In una intervista di quattro colonnette sul Corriere della Sera a firma di Paolo Conti (20 agosto) ha dispensato tanto buon senso quanto difficilmente l’italico popolo, per non dire della sua sé-dicente classe politica, per usare la terminologia di Gaetano Mosca, sia in grado ricevere. Che immaginare lo possa anche capire sembra voler forzare le leggi basilari della natura.

Cosa ha detto di così speciale la Signora Maria Romana Catti De Gasperi? In verità nulla ha solo messo in fila due o tre dati analizzandoli con semplice buon senso. Alla domanda su come consideri il fatto che gran parte del mondo politico si sia messo a commemorare suo padre ha risposto: «Oggi è quasi una necessità …. C’è la necessità di trovare personalità che possano onestamente prendere in mano le redini della situazione.» Le parole chiave dello stringato riassunto sono solo due: “personalità” e “onestamente”. Dove la prima  risulta essere l’esatto opposto di “guitto-piazzista-masscomunicatore” ed affini mentre la seconda va a cozzare contro le demagogiche promesse e le peracottate ad esse annesse. E tra queste ultime non va ignorata quella di Giuseppe (meglio noto come Beppe) Fioroni che ha proposto  di dedicare a De Gasperi la prossima Festa dell’Unità. La ribattuta ha l’effetto di una rasoiata: « In verità mi sembra una cosa strana.» ha commentato la Signora De Gasperi.  E in effetti è strano anche ritrovarsi Fioroni in Parlamento. Ma magari questa è l’ultima volta. Ammesso che le deroghe come i condoni sia finiti per sempre. Si spera.

Il buon senso vuole che non si replichi ad ogni bischerata dal sen fuggita che altrimenti si passerebbe la vita a spenderlo inutilmente e quindi la Signora De Gasperi insiste nel non commentare l’affermazione del 2003 del domiciliato di Arcore: «Sono l’erede di Alcide De Gasperi.» Forse basta, oggi come allora, un sorriso muto. Di quelli riservati alle barzellette mal riuscite. Sul giovane Renzi e il suo governo vien difficile anche a lei di dare dei giudizi anche se il punto chiave è:«Bisogna essere sinceri: chi altro abbiamo oggi?» Che poi è come dire che il suddetto è figlio, ad esser generosi, dell’inanità e dell’ inconcludenza, giusto per fermarsi qui, in prima battuta del suo partito, gruppo dirigente e base, anche se questa si chiama sempre fuori e poi della classe politica nel complesso, sempre nell’accezione di Mosca.   


Ma il punto vero, che come al solito arriva in fondo e gli vien dato poco spazio, sta nel fatto che: « I politici sono il riflesso della gente, della società del momento. Sarebbe bene non dimenticarlo mai.»  Già. Al buon senso non servono molte parole e neppure troppo spazio, ma non c’è smemorato peggiore di chi non vuol ricordare. E gli abitanti dello stivale hanno memoria corta. Anzi cortissima.

giovedì 21 agosto 2014

Piazza di Siena: domenica pomeriggio - 2#puntata

Piazza di Siena: il campo di gara
Ero nelle scuderie, pronto per la sessione di allenamento, quando lei apparve all'ingresso. Dapprima in controluce, solo una massa nera stagliata contro un chiarore accecante. Avanzava con decisione eppure senza fretta. Teneva il cap tra il busto e il braccio sinistro che lo fasciava e nella mano destra il frustino. Il suoi passi risuonavano sul cemento senza essere pesanti. Solo quando fu abbastanza vicina mi resi conto che era una donna. Alta un po' più di un metro e settanta, indossava una polo verde pantaloni color kaki e stivali marroni con speroni a goccia. «Deve avere gambe forti» mi dissi poi notai che erano lunghe e sottili. Ricordo che pensai «saranno lunghe almeno un metro», e non sbagliai di tanto. Il viso era abbronzato, aveva capelli castano chiaro raccolti sulla nuca. Il collo flessuoso, di una lunghezza che mi parve superiore alla norma, labbra carnose e il nasino alla francese. Seppi poi che sua madre era normanna, quindi ci avevo preso. Le mani erano affusolate con belle dita dritte. Dritte come frustini. Le unghie perlate erano forse un po' lunghe ma coi guanti non si sarebbero viste. Mi guardò appena, giusto un'occhiata e si mise subito a parlare con il groom. Non percepivo le parole ma la sua voce era chiara e piena Me ne innamorai subito. Perdutamente.

Lei e il groom parlarono fitto fitto per qualche minuto voltandomi le spalle poi lei si girò verso di me, mi fissò per qualche secondo, meno di cinque ma mi parve un'ora, abbozzò un sorriso ed un saluto e poi se ne andò. Prima del suo arrivo nell'aria c'era l'odore penetrante del grasso usato per gli zoccoli e di quello specifico per ripassare i finimenti. Quando se ne andò l'aria profumata. Ma ero certo che lei non avesse indossato nessuna fragranza. Ecco, è come adesso, tutti i groom stanno a spazzolare e lucidare i mantelli dei loro cavalli e l'odore è forte, come dice qualcuno, maschio e rude, poi quando lei apparirà lo cancellerà con la sua freschezza. Abbiamo già superato le prove del mattino ed ora siamo al barrage. Ancora due binomi poi tocca a noi. È un percorso impegnativo: otto ostacoli di altezza tra centosessanta e centrosettanta centimetri. Tempo massimo quarantacinque secondi. Ecco ora è il momento. Concentrazione assoluta. La gente tace quando lo speaker scandisce i nomi dei concorrenti e lo fa anche ora. La campana suona. Si percorre in modo molto rilassato una ampia curva alla fine della quale ci si trova dritti per affrontare il primo ostacolo è un largo invitante, quindi ostacolo doppio che si presenta con la prima barriera più bassa della seconda. Si avanza tranquilli e, a quattro tempi, si accelera, ultima battuta. Gli anteriori staccano dal terreno mentre i posteriori, potentissima molla, lanciano al di là dell'ostacolo. Perfetto.

Si mantiene la mano destra. Ancora otto tempi di galoppo e si ha davanti ancora ad un oxer. Superato. Il cuore aumenta progressivamente la velocità dei suoi battiti. Quindi una larga curva a mano sinistra, bisogna superare un verticale e appena si tocca terra è imposto uno strettissimo cambiamento di mano, quasi un giro su sé stessi, e ci si trova di fronte ad un altro largo invitante ancora un cambiamento di mano, ancora molto stretto e ancora un oxer. Ventidue secondi. Il tempo da battere è di trentacinque secondi e cinquantanove. Fino ad ora percorso netto. Concentrazione. Siamo in simbiosi come non mai. Cinque ostacoli superati. Ancora tre. Ora una gabbia. La si inquadra. Una mezza fermata. Concentrazione. Si raccoglie tutta la potenza. Tre tempi di galoppo poi il primo salto, ricevimento, ancora un tempo e ancora salto. Perfetto. Siamo a sette. Trentadue secondi e quattro. Girata a mano destra. Ecco l'ultimo ostacolo. È ancora un largo invitante. Concentrazione. Non si può sbagliare. Si avanza senza fretta caricando i posteriori. Tututum-tututum-tututum. Aumentiamo la cadenza. Tutum-tutum-tutum-tum. Stacco. E si vola in cielo. È fatta. Percorso netto. Trentacinque secondi e ventinove. Abbiamo vinto. Abbiamo vinto a piazza di Siena. È fantastico. Le redini si allungano mentre si prosegue in un leggero galoppo di decontrazione. La gente è in piedi e applaude. E ride. E la gioia si scioglie nelle mie vene. Il cuore riprende a poco a poco il suo solito ritmo. Quando si gareggia in questo modo mi tornano alla mente le parole che sento spesso ripetere da Veronique: «Il cavallo è un amico. Se mi fosse stata lasciata la scelta della mia condizione avrei optato per quella di Centauro. Tra Boriatene e me i rapporti erano di precisione matematica; obbediva a me come al suo cervello, non come al suo padrone. I miei slanci erano i suoi, conosceva forse meglio di me, il momento in cui la mia volontà divergeva dalle mie forze». Ne sono gratificato. Così come ora mi fanno felice le sue carezze sul collo mentre stiamo compiendo un breve giro di pista per prenderci tutti gli applausi che ci meritiamo. E lo speaker ripete «Veronique Maneli de Mannelli su Discovery. Fantastico binomio». E lei continua ad accarezzarmi sul collo. Come la amo. Sono felice di essere il suo cavallo. (fine)

martedì 19 agosto 2014

Piazza di Siena: domenica pomeriggio -1#puntata

I concorsi sono la mia passione. Fin da quando ero piccolo. Il mio sogno, ma chi non lo ha sognato, è di gareggiare a piazza di Siena. E quante volte mi sono visto entrare in campo, girare tra gli ostacoli, sentire gli occhi di tutti puntati su di me e fermarmi dinnanzi al palco della giuria per il saluto e poi al suonar della campana prendere il galoppo, fare una larga curva e quindi inquadrare il primo ostacolo. Ah, che spettacolo non vedo l'ora che succeda. L'emozione mi ha sempre preso, al solo pensarci. Già, questo è il mio sogno più grande. La mia massima ambizione. Fino ad ora mi sono dovuto accontentare di concorsi meno prestigiosi anche se sempre più spesso ho preso parte a dei nazionali e a degli internazionali. Gli ostacoli si sono fatti sempre più alti e i tracciati più maliziosi ma, come ha sovente detto il mio maestro, bisogna farsi le ossa. Ho ancora negli occhi la prima volta che fui portato ad un concorso: ne rimasi impressionato. Era proprio qui, a piazza di Siena. Ci venni con mio padre e mia madre, loro gareggiavano. Per dirla tutta quella prima volta mi agitai e per essere assolutamente sincero devo dire che mi spaventai pure un poco. Non avevo mai visto tanta gente e tutta insieme, fino a quel momento. E neppure mi pareva di aver mai visto tanti colori e sentito tanti suoni. Tutte quelle voci che si sommavano le une alle altre e le risate, soprattutto quelle delle donne. A ripensarci mi corrono ancora brividi lungo la schiena. E poi quel campo, ovale, mi pareva immenso e quegli ostacoli insormontabili. Chi mai avrebbe potuto saltare così in alto,mi domandavo. E i miei occhi galoppavano senza freno ovunque. E le bandiere? Quante bandiere, anche queste impazzavano di colori, quanti colori e sventolavano che a vederle così alte il cuore mi saltava in gola. Erano tutte in fila su alti pennoni e sembravano tenere tutto sotto controllo. Ricordo che mi chiesi come sarebbe stato vedere le gare da quell'altezza. C'era da far perdere la testa ad un grande ed io ero piccolo. Avevo compiuto tre anni da qualche mese.

Mi ci volle un bel po' di tempo prima di tranquillizzarmi e cominciare ad osservare con calma ed attenzione tutto quanto mi stava attorno. Le donne. Le donne poi mi facevano impazzire. Erano bellissime. E profumate. Quasi tutte indossavano cappelli: di tutte le fogge e di tutte le dimensioni. Alcuni con larghe tese altri con lunghi nastri che ne cingevano la cupola e scendevano fino alle spalle, altri ancora erano adornati di piume colorate che svolazzavano di qua e di là ad ogni movimento.. C'erano poi quelli ben calzati nel centro della testa e c'erano quelli più piccoli, posti di sghimbescio che vi parevano appena appoggiati. Quelle poche signore che ne erano senza li sostituivano con grandi fiocchi di raso che parevano dei fiori. A quel tempo mi chiedevo come potessero rimanere fissati su quelle vaporose capigliature e non scivolassero a terra.
Comunque, sia che fossero dei cappelli o dei fiocchi erano intonati ai colori dei vestiti che parevano leggeri, impalpabili. Alcuni arrivavano alla caviglia altri si fermavano al ginocchio. Tutti però erano leggeri e ondeggiavano con grazia sui quei corpi meravigliosi che si aveva l'impressione di vedere in trasparenza. Avrei scoperto, con gli anni, che i vestiti più belli e più morbidi sono fatti di seta. Molte delle signore portavano alle dita e ai polsi dei cerchietti gialli e alcuni con delle pietre e quando muovevano le mani tintinnavano e lanciavano lampi di luce. Incantevoli. Gli uomini mi interessarono meno. I loro vestiti erano quasi tutti uguali salvo qualcuno che indossava giacche con due code e portava sulla testa degli strani piccoli tubi. I colori poi erano soltanto due: talvolta grigio chiaro e talaltra grigio scuro, quasi nero. Niente a che fare con la grazia delle donne. In ogni caso non riuscivo proprio a togliere gli occhi da tutta quella gente così colorata ed elettrizzante. Tutto mi avvinceva. Anche il suono delle risate e delle conversazioni che scivolava in un brusio sempre più flebile fino a dissolversi del tutto appena il nuovo binomio entrava in campo e poi quegli ooooh prolungati quando un ostacolo cadeva. E i caldi applausi dopo un percorso netto. Ricordi della prima gioventù.

Oh s,ì tutto mi piacque quella prima volta. E tutto questo continua a eccitarmi anche ora che sono diventando un veterano dei concorsi. E adesso sono qui, a piazza di Siena. Finalmente il mio sogno è stato coronato. Certo arrivarci non è stato facile. Ci sono voluti anni e tanto, tanto allenamento. Quante ore ho passato nel rettangolo in assetto di scuola. Molte quelle dedicate al lavoro in piano più di quelle spese nel salto. Il riscaldamento prima di ogni sessione di lavoro è fondamentale sia per il cavallo sia per il cavaliere: passo a redini lunghe e poi continui cambi di andatura e transizioni: passo-trotto-passo. E fermate. E riprese al passo. E poi di nuovo trotto e circoli e tagliate trasversali e longitudinali e cambiamenti di mano. E di nuovo transizioni: trotto-galoppo-trotto e poi passo e poi ripresa al trotto. E poi di nuovo galoppo. E poi esercizi di cessione alla gamba e spalla in dentro ed appoggiate. Una vera faticaccia. Ma indispensabile. E quante barriere a terra. E quanti dentro-e-fuori, che sono degli ostacoli anche bassi messi ravvicinati che appena si tocca terra dopo averne superato uno subito bisogna saltarne un altro. Non c'è neanche lo spazio di un tempo di galoppo. Per chi guarda da fuori sembra di vedere un'onda: su-giù-su-giù. Tutti esercizi che servono al binomio: a sciogliere la muscolatura e la schiena dell'animale e al cavaliere per avere maggior confidenza con il cavallo. Già perché nell'equitazione una delle parole chiave è fiducia. Il cavaliere deve fidarsi del cavallo e il cavallo, allo stesso modo, deve fidarsi del cavaliere. Se non c'è la fiducia non c'è storia. In quella manciata di secondi che corrono dall'inizio del percorso al momento in cui lo si termina il cavaliere ed il cavallo si giocano tutto: i mesi di allenamento, la fiducia reciproca e il futuro.

È come se tutta la vita fosse rinchiusa in quel poco tempo del percorso ed in quello spazio che sembra enorme ma che quando ci sei dentro diventa minuscolo. A me capita proprio così quando entro nel rettangolo: rivedo brandelli della mia vita. E adesso mi stanno passando davanti agli occhi le immagini di quando vidi per la prima volta Veronique. Bellissima. (continua, la seconda puntata giovedì 21)

L'orsa, l'asino e i citrulli.

Un’orsa fa l’orsa un asino fa l’asino e i citrulli al solito fanno i citrulli. Orsa e asino sono facilmente identificabili i citrulli sono una massa in continuo movimento ed evoluzione. La citrullaggine non è cosa solo italiana, di citrulli ce ne sono anche all’estero.

Le cronache degli ultimi due giorni sono state centrate su due simpatici animali un’orsa e un asino e una categoria che non è in via d’estinzione. Anzi.: i citrulli.
Andando con ordine il primo posto per serietà e rispetto delle leggi di natura spetta all'orsa. Si chiama Daniza  ed è una dei 100 esemplari che staziona in Italia.  Daniza è assurta agli onori della cronaca perché ha fatto l'orsa, cioè si è comportata come un orsa. Avendo recentemente partorito due begli orsetti e sentendoli aggrediti da un bipede cercatore di funghi li ha difesi. Attaccando l’estraneo. È normale. In situazioni del genere l'orsa sa fare solo l'orsa. Perché stupirsi? Soprattutto se si cercano funghi e si incappa in due orsacchiotti e li si vede a trenta metri di distanza il buon senso dei non citrulli dice di allontanarsi velocemente e non di nascondersi dietro un albero. E poiché l'orsa si è comportata da orsa sarebbe da citrulli abbatterla cioè sparargli che vuol dire ucciderla. Tutto il mondo, specialmente quello anglosassone animalista da sempre, ne ha già parlato il Guardian, definirebbe il fatto come un atto di pura barbarie e l'immagine del Paese e quindi anche il turismo ne soffrirebbe.  Lega nord e Forza Italia chiedono invece il blocco del programma che ha riportato gli orsi nei boschi italiani, sostenendo che questo «danneggia il turismo.» Quindi chi sono i citrulli?

Pimpon è il nome di un asinello di circa 19 anni costretto dal suo padrone, un francese, a portarsi in groppa oltre 100 chili di materiale vario con l’obiettivo di arrivare a Roma essendo partito Santiago di Compostela. Giustamente il povero animale viene sequestrato dalla pubblica autorità per motivi di evidente umanità, verrebbe da dire animalità, essendo piagato e male in arnese. Ma la legge dei citrulli è sempre all’erta e quindi per ritardi burocratici e di non trasmissione degli atti l’asinello finisce il periodo di sequestro e torna nelle mani dell’aguzzino. Sembra di assistere nuovamente al bellissimo film, anche lui francese, intitolato Au hasard Balthazar la storia di ingiustizie e nequizie è la stessa. Comunque per farla breve la cronaca racconta di due sequestri, una ricca offerta in denaro, rifiutata, di una telefonata del console francese, della dichiarazione della Direzione generale del ministero della Salute in difesa del quadrupede, di un tentativo di rapimento dello stesso da parte dell’orrido proprietario, di un inseguimento del rapitore da parte della polizia e alla fine di un ulteriore sequestro dell’asinello da parte dell’autorità italica. Il fatto inizia il 16 di giugno e finisce, si spera, il 13 di agosto. Quasi due mesi. Chi sono i citrulli?

Citrullaggine internazionale.  A Tel Aviv si celebra un matrimonio. Fatto di per sé poco rilevante se non per gli sposi. Errore. Lui è arabo e lei è ebrea, da due giorni convertita all’Islam. Vien da dire «saranno fatti loro.» Di nuovo errore. Un partito della destra ebraica insorge. Il tribunale di Tel Aviv permette ai dimostranti di esprimere la propria contrarietà al fatto: quando la citrullaggine prende le vesti della giustizia. Però c’è un però: i dimostranti possono manifestare ma solo a duecento metri di distanza e rinchiusi in appositi recinti sorvegliati dalla polizia a cavallo. Quando la citrullaggine ancorché legalmente vestita dimostra di non saper scegliere.

Citrullaggine nazionale. Viene intervistato dal Corriere della Sera il ministro del Lavoro Giuliano Poletti da Imola. Per chi non lo sapesse Imola era definita «la città dei matti» perché di manicomi dall’inizi dell’800 ne aveva ben due: il Manicomio centrale e il manicomio dell’Osservanza, vere città nella città. Sarà un caso. Poletti ha parlato di pensioni, di contributi di solidarietà da prelevare da quelle più alte e per definire queste ha sibillinamente aggiunto «dipende da dove si mette l’asticella.» neanche si trattasse degli europei di atletica. A stretto giro gli hanno risposto Mariastella Gelmini, quella della galleria del neutrino, e Gasparri quello che firma leggi che non ha scritto e nemmeno letto. E poi sono intervenuti anche Edoardo Patriarca deputato pd ignoto ai più e l’ex lega ambiente, ex socialista, ex forzista, ex ministro ed attuale, chissà per quanto, Ncd Maurizio Sacconi. Chi sono i citrulli? Nessuno si azzardi a rispondere: gli italiani.

sabato 16 agosto 2014

Monsignor Galantino: basta lobby. Da che pulpito.

Passano le interviste ma il Galantino-pensiero non si sposta di una virgola. In sintesi lo si può tradurre nell'antica massima ecclesiale cara a molti parroci: fate quel che dico e non guardate quel che faccio. Niente di nuovo nella Cei. Se questa è la nuova Chiesa tanto valeva tenersi la vecchia.

Nell'intervista rilasciata al Corsera (15 agosto) monsignor Galantino cardinaleggia (che talvolta è sinonimo di giogioneggia) sui temi politici del giorno con frasi fatte e, come ovvio, evita accuratamente di toccare i punti di chiara pertinenza della Chiesa. Forse perché non ha da mettere sul tavolo esempi di buon agire, cioè fatti concreti, che abbiano fatto seguito ai roboanti proclami d'occasione. Che quelli son capaci tutti di farli: magari anche Gasparri e pure Razzi e pure D'Alema. Come dire: massima omertà (nel senso letterale del termine: conservare il silenzio su un fatto per interesse) sulle cose sue e ditino puntato su quelle degli altri. Questa volta nel mirino del segretario della Cei (Conferenza episcopale italiana) sono finite nell'ordine: i casi medio orientali, la politica estera italiana, le riforme (sempre italiane) e poi l'ecomomia e le lobby, con una spolveratina su mafia e n'drangheta. Naturalmente non manca il passaggio d'obbligo sulla famiglia e per finire una fumosa frasetta sul ruolo della Chiesa. D'altra parte come potrebbe essere diversamente?

Sulle questioni di politica estera se la cava con il più classico dei “... ma anche” mentre sulle cose di casa Italia, d'altra parte anche la Cei è italiana, ha idee più precise. Per quanto possano essere precise le idee di un cardinale. Per lui, due sono i fatti paradigmatici: «lo scandalo dei mancati pagamenti dei debiti della Pubblica amministrazione» e «che troppe riforme si bloccano per l'ostilità di singole lobby.» Roba forte che se non l'avesse raccontata chiara-chiara il segretario della Cei difficilmente ci si sarebbe arrivarti.

Dal neo segretario sui due temi oltre all'enunciazione del problema ci si sarebbe aspettati un qualche suggerimento di soluzione. Invece niente. E dire che da quelle vaticane parti una qualche esperienziaccia in merito ce l'hanno non foss'altro per l'abilità con cui riescono a non pagare le tasse sugli esercizi commerciali, che sono tanti e di norma ben remunerativi e su come siano riusciti a farsi costruire un brillante marchingegno sulla ripartizione del 8 per mille che li vede risucchiare come un'idrovora la stragrande maggioranza del denaro disponibile ivi incluso quello di chi decide di non stabilire a chi dare il proprio obolo. E anche sulle lobby una qualche idea di come debellarle dovrebbero avercela dato che sanno tenerne in piedi di vigorose. Una per tutte quella che difende le scuole parificate, che dire private pare sia poco fine. Sono quelle belle scuoline dove si paga per entrarci e frequentarle. Il caso recente di Bologna è stato emblematico: si organizza un referendum cittadino per stabilire se il Comune debba sovvenzionare le scuole private e poi se ne ignora il risultato. Aveva vinto la mozione contro l'esborso pubblico. Guarda il caso. E sempre, il caso ha voluto che l'elargizione (non era un debito) della Pubblica amministrazione avvenisse pronta cassa grazie all'intervento delle lobby. Che poi è come vedere la pagliuzza nell'occhio del vicino e non la trave nel proprio. Ma tutto questo monsignor Galantino non lo sa e magari un ripasso non gli farebbe male. Lui e con lui la Chiesa tutta, è interessato a «chiedere responsabilità, trasparenza, onestà» e aggiunge «bisogna riformare anche la burocrazia della mente e del cuore.» Ma come parla bene monsignor Galantino. E i fatti?
Forse al prelato sfugge che responsabilità, trasparenza ed onestà è quella che praticano la gran parte dei contribuenti italici, come ad esempio tutti i dipendenti sia privati sia pubblici. La Chiesa, Ior a parte che lì sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, può dire altrettanto?
L'intervista finisce, come d'altra parte tutto il suo sviluppo, con la più classica delle fumosità. Alla domanda sull'attuale poco interventismo della Chiesa sulle italiche cose (si fa per dire) la risposta suona così: «Semplicemente cambiano le condizioni sociali e politiche, nella Chiesa stessa cresce una consapevolezza nuova della sua missione: il bello della Chiesa è che non va avanti per schemi ma, appunto, per crescita.» Bello. Ma che vor dì? Nulla di trascendentale. Semplicemente che la Chiesa è sempre la Chiesa: pragmatica sui fatti terreni, di cui per statuto dovrebbe poco occuparsi e dogmatica su quelli spirituali, dato che hanno poco tempo da dedicarci.
Da non dimenticare: monsignor Galantino è lo stesso Galantino che sostenne: «non tocca al vescovo denunciare il prete pedofilo perché il vescovo non è né un pubblico ufficiale né un pubblico ministero» e a lui, il vescovo, spetta «far emergere la verità in campo ecclesiale». Come frase quest'ultima, al solito, suona bene, ma non significa granché. Se questa è la nuova Chiesa tanto valeva tenersi la vecchia. Per una questione di economia.


Non doveva finire così - 3#puntata, l'ultima.

«Eravamo felici come due bambine che stanno per andare in vacanza » si sorrise Marcella guardandosi nello specchietto retrovisore. 
Boosah fu puntuale all’appuntamento. A gesti spiegò che era meglio muoversi con il buio piuttosto che di giorno. La Renault 4 fu sottoposta alle peggiori torture, le tre donne con le macchine fotografiche stavano nel sedile anteriore, quello posteriore era stato tolto per far posto a taniche di benzina, agli zaini ed ai sacchi a pelo. Per precauzione avevano preso anche quattro ruote di scorta. Viaggiarono per circa una settimana salendo e scendendo e risalendo e riscendendo. Quindi finalmente all’alba del settimo giorno arrivarono all’imbocco della valle. Tutto era silenzio. Boosah suggerì di nascondersi in una grotta. L’auto fece un po’ di fatica ad inerpicarsi per quello stretto sentiero ma alla fine ce la fecero.
Aveva ragione Houshmand si dissero Ilenia e Marcella la valle era proprio un budello senza uscita. Dalla loro postazione potevano vedere, senza essere visti, tutto il villaggio, fino al monte con le pareti lisce come uno specchio. Videro le donne andare alla fontana, gli uomini muoversi con calma e i
bambini giocare a rincorrersi nelle strade. Tutto sembrava normale. Se non fosse stato per la guerra lo si sarebbe scambiato per un posto di vacanza. Boosah dissimulava appena la sua eccitazione.
Con l’arrivo della notte si misero nuovamente in movimento. Percorsero tutto il sentiero a marcia indietro poiché non fu possibile girare l’auto. Ci vollero quasi tre ore per percorrere quattrocento metri di curve a gomito. A fari spenti entrarono nel villaggio e Boosah indicò loro uno stretto vicolo ci si infilarono e lo percorsero tutto. Era tortuoso e lunghissimo.
«Mi pare che siamo vicini alla montagna.» disse Ilenia. Boosah assentì.
Continuarono a girare fino a che Boosah fece cenno di fermarsi. Avevano percorso quasi l’intero perimetro del villaggio e ora si trovavano in una stradina parallela alla fontana con il muso dell’auto rivolto verso l’uscita della valle.
Scesero in silenzio dall’auto, Boosah face capire loro che non dovevano portare le macchine fotografiche e strisciarono lungo i muri. Marcella decise di lasciare anche la pistola, sotto il sedile.
«Tanto – pensò – mi perquisiranno e se la trovano me la portano via. Meglio non rischiare.» C’era solo la luce della luna a rischiarare i loro passi. Boosah le precedeva di cinque metri e si muoveva speditamente, non aveva più l’aria del topino bagnato di quando era in casa di Houshmand. Finalmente una porta si aprì e Boosah fece cenno alle due donne di entrare. La stanza non era molto grande, nel centro un tavolino con una teiera, dei bicchierini, diversi piatti contenenti dolci, frutta e alcune ciotole con yogurt e attorno qualche sgabello. Il pavimento era ricoperto di tappeti. Alla parete di destra pendeva una tenda che, appena le tre donne furono entrate e la porta fu chiusa, si scostò e comparve Jahandar. La prima cosa che lui fece fu abbracciare Boosah, sua sorella. Quindi invitò le due donne a sedersi, sapeva già perché erano lì. Disse che non era abituato a farsi fotografare ma che l’avrebbe fatto se loro si fossero impegnate a raccontare le ragioni della sua ribellione. Le due fotografe accettarono e si accordarono per la mattina successiva. Jahandar lasciò la casa  mentre Boosah rimase.
Marcella e Ilenia cominciarono a parlare su come impostare le fotografie e che tipo di inquadrature proporre. Fecero fatica ad addormentarsi l’eccitazione era troppa, ma alla fine crollarono.
Stava cominciando ad albeggiare quando sentirono il primo colpo di mortaio e le urla della gente e altri cinque, sei, dieci colpi. Un vero cannoneggiamento. Poi ci fu silenzio per una decina di minuti.  Guardarono Boosah che non parve assolutamente smarrita fece loro cenno di seguirla ma quando furono nel vicolo Ilenia decise di tornare all’automobile per prendere le macchine fotografiche. Marcella cercava di trattenerla ma Ilenia sembrava impazzita e urlava che voleva le sue macchine. Contemporaneamente Boosah tirava Marcella per l’altro braccio nella direzione opposta. Ilenia riuscì a divincolarsi e correva in senso contrario a tutti gli altri del villaggio che andavano verso la montagna.  Dai tetti di alcune case si cominciò a rispondere al fuoco. La confusione era massima. Marcella vedeva Ileana allontanarsi e non poteva lasciarla andare da sola. Si liberò con uno strattone di Boosah e si mise a correre nella direzione presa da Ileana. Faticava a starle dietro e il vestito pashtun che portava non l’aiutava di certo.  Se ne liberò velocemente e riprese a correre. L’auto non poteva essere lontana oramai. Quando la raggiunse Ileana non c’era. Strano fosse arrivata lei per prima. Impossibile che l’avesse superata e non se ne fosse accorta. Aprì la portiera di destra, si lanciò sotto il sedile e afferrò la Beretta. Mise il colpo in canna e continuò ad avanzare. Superò l’auto di una decina di metri, camminava con cautela stando leggermente piegata. Oramai non c’era più nessuno che corresse in senso opposto al suo. Sentì degli urli e riconobbe la voce di Ilenia. Svoltò un angolo e le parve d’intendere che le voci venissero dalla casa che aveva di fronte. La porta era aperta. Con cautela si avvicinò e guardò dentro: Ileana era a terra quattro soldati la stavano picchiando con pugni e calci, uno la teneva per i capelli e le scuoteva la testa così forte che delle ciocche gli rimanevano tra le dita della mano e un’altro si preparava a violentarla. Marcella gridò e il suo urlo per un istante bloccò ogni azione, gli uomini si voltarono verso la porta  e lei fece fuoco a ripetizione fino a scaricare completamente l’arma. I quattro caddero come fantocci. Poi Marcella si avvicinò a Ileana che era in un lago di sangue, cercò di metterla in piedi ma per Ileana era uno sforzo troppo grande. Allora se la caricò sulle spalle e barcollando raggiunse la Renault 4. Riuscì a farcela entrare. Mise in moto e partì facendo fischiare le gomme. Ileana si lamentava e piangeva. Marcella guidava veloce e sfregava contro le pareti del vicolo. Un paio di volte nel fare gli angoli dovette effettuare due o tre manovre poi finalmente entrò nella strada principale. La situazione era surreale i soldati che incontrava erano sbalorditi dal vedersi piombare addosso quella auto che procedeva a velocità folle sbandando e zigzagando. Dopo quei pochi attimi di stupore si ripresero e cominciarono a sparare. Le raffiche si susseguivano. Marcella sentiva le pallottole rimbalzare sulla carrozzeria poi una fitta al fianco, istintivamente si toccò e quando ritirò la mano scoprì che era insanguinata. Continuò a correre fino a che il motore non rispose più alle sollecitazioni dell’acceleratore. L’automobile proseguì per forza d’inerzia fino a quando si fermò in una curva sul ciglio di uno strapiombo.
Solo in quel momento Marcella guardò il suo fianco e vide il sangue che si stava allargando sulla camicia e cominciava a raggiungere i pantaloni. Prese uno straccio e iniziò a tamponare.
«Quante fesserie abbiamo fatto» si disse Marcella ora che aveva ripercorso tutte le tappe della storia.
Si volse nuovamente verso Ilenia, era immobile e sembrava non respirare. Con fatica Marcella allungò il braccio destro per toccarle l’aorta, Quando la trovò sentiva che non pulsava. Provò a scuoterla gridando il suo nome ma Ilenia non rispose . Era morta.
Il suo sguardo passò nuovamente sullo specchietto retrovisore e le parve di vedere qualcosa muoversi in fondo alla strada, provò nuovamente a mettere in moto e solo allora si accorse che una spia segnava rosso. Non c’era più benzina. Forse un colpo aveva centrato il serbatoio.
Aprì la portiera, voleva scendere e prendere una tanica dal sedile posteriore. Le piacque sentire la pioggia sul viso e sorrise guardando in alto. Nel movimento la pistola cadde per terra.
«Non importa, la raccoglierò dopo.» si disse.
Poi guardò verso il fondo della via, dei soldati stavano avanzando verso di lei con i mitra spianati. Si gettò bocconi a terra e a tentoni con la mano destra raggiunse la pistola. Sentiva che la ferita aveva ripreso a sanguinare. Sparò qualche colpo e quelli risposero con raffiche di mitra.
Smise di sparare.
«Non voglio morire come Ilenia.» si disse

Si portò la pistola alla tempia e mentre premeva il grilletto pensò: «Non doveva finire così.» (fine)