Ciò che possiamo licenziare

martedì 29 aprile 2014

Brunetta, l’utopia e il capitano Achab.

Renato Brunetta, genietto dell’italica economia, lancia il suo ultimo saggio dall’emblematico titolo “La mia economia”. Se non fosse termine abusato lui parlerebbe di capitalismo 2.0, ma il termine è stucchevole. Per questo si rifà al pathos del capitano Achab che gli sembra più consono.

E così Renato Brunetta, genietto della scienza economica italiana, ha deciso di dare alle stampe la sua utopia e per non correre il rischio di essere confuso con Tommaso Moro ha voluto specificare nel titolo che l’utopia di cui parla è proprio la sua. 
L’utopia di Renato Brunetta. E per essere ancor più certo che nessuno gli porti via la paternità delle idee, se così le si vuol chiamare, che stanno dentro, magari un po’ strettine, nelle 160 pagine che compongono il saggio l’ha intitolato: “La mia utopia”. Che tutto sommato ci sta, ognuno è libero di sognare la sua propria utopia. Che è solo sua. Il che poi equivale a dire che vivendo in Paese libero ognuno può scrivere le pazzate che gli giran per la testa. Se poi si trova qualcheduno che gliele pubblica e magari pure chi è disposto a spendere 18 eurini per leggerle per esteso allora si fa bingo. Che poi la casa editrice sia la Mondadori che guarda caso è di proprietà del presidente del suo partito, il domiciliato di Arcore, è un semplice accidente della storia.

In buona sostanza il professor Renato Brunetta, che sotto sotto aspirerebbe al premio nobel per l’economia, e qualche volta questo suo desiderio deve essergli anche scappato di bocca per garantire il buon umore dei suoi amici, sostiene una tesi, lui dice del tutto nuova, che parte dal più grave male che affligge l’Italia e buona parte del mondo occidentale: la disoccupazione. Sconfiggere la disoccupazione è nobile obiettivo e come si fa? Semplicissimo: si ribaltano formule vecchie e stantie. Il concetto di lavoro nell’economia capitalistica è, nella sostanza, formato da due variabili che sono l’occupazione e il salario di cui la seconda, il salario, risulta essere fissa mentre l’altra, l’occupazione, risulta essere variabile. Ovvero come lo stesso Brunetta dice in una intervista al Corsera (20 aprile 2014) : « Se va giù l’economia, aumenta la disoccupazione. Non si tagliano i salari ma si licenzia. Ribaltiamo la prospettiva e invece di tener fisso il salario e mobile il rapporto tra occupati e disoccupati invertiamo la priorità» Bellissimo quindi basta invertire l’ordine dei fattori e, contrariamente a quanto si è pensato per qualche secolo, il risultato cambia. Eccome se cambia. 

Con questo piccolo e semplice pensiero, ma le grandi idee con il senno di poi sono quasi sempre delle banalità e spesso i geni sono incompresi,  la paura che affligge i lavoratori del mondo capitalistico di perdere il lavoro è cosa risolta. Tutti saranno occupati ed avranno un lavoro. È splendido.
In realtà l’idea, almeno in parte, non è del tutto nuova ci avevano già pensato anche altri utopisti: i ragazzi del ’68. Infatti quei giovani scriteriati gridavano qualcosa di simile: «lavorare meno lavorare tutti.» Brunetta in gioventù deve aver incrociato quella pazza idea, ci ha ponzato sopra per quarantasei anni e ha scoperto dove stava l’errore. I sessantottini non dicevano di voler ridurre contemporaneamente anche il salario. A questo piccolo errore pone rimedio l’ormai maturo economista Brunetta.  Come non averci pensato prima? Questa infatti è la prima parte del succulento ragionamento brunettiamo: tutti al lavoro ma con meno salario.

Però, se c’è poca domanda si fanno pochi prodotti e quindi come si concilia un gran numero di lavoratori, ancorché scarsamente pagati, con i pochi manufatti su cui lavorare? Mistero. O meglio: «Il mercato resta con la sua scopa. - dice il Brunetta - La piena occupazione è da intendersi nel sistema nel suo complesso.». Elementare Watson. Che poi è come sperare che chiusa un’azienda se ne apra subito un’altra. Ma qui più che ragionare di utopia sembra si debba contare sui miracoli che in tempi di stagnazione o quasi deflazione scarseggiano anch’essi.
E se quindi anche sui miracoli si può far poco conto non resta che appoggiarsi sulla «Buona globalizzazione economica da intendersi nel senso della interconnessione universale. – e qui c’è il cambio di passo che fa la differenza tra un semplice economista e un genietto ancorché non riconosciuto dall’accademia di Stoccolma – Questo tipo di economia non tollera rigidità , esige partecipazione, flessibilità e intelligenza, perché esige e determina sentimento di appartenenza, pathos. Lo stesso pathos che animava la Pequod , il veliaro del capitano Achab.» Insomma tutto sta nel pathos.

Un paio di dettagli sfuggono al genietto aspirante nobel. Il primo è che il pathos è sentimento da uomini e non da cose e quindi più che al veliero andrebbe meglio riferito al capitano Achab. Il secondo è che forse il Brunetta o non ha letto il libro per intero o non l’ha capito. Infatti il capitano Achab, proprio perché trasportato da quel suo pathos muore. Che non è propriamente una bella né auspicabile fine.

I paralleli letterari vanno scelti cum grano salis, che a un aspirante nobel non dovrebbe mancare, altrimenti si corre il rischio di far emergere quelle parti del proprio inconscio che sarebbe forse meglio sanare o alla peggio tener nascoste. E l’esempio di D’Alema che battezza le sue barche Ikarus qualcosa avrebbe dovuto insegnare.


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