Ciò che possiamo licenziare

mercoledì 29 gennaio 2014

Elsa Fornero il ritorno

Lasciare il campo non è facile. Quando si è goduta l’ebbrezza della notorietà e dei privilegi. Arnaldo Forlani se ne andò con dignità ed è rimasto nell’ombra sobriamente. Prima di lui lo fece Cincinnato. La Fornero invece sta meditando di tornare.



Ora dopo quasi un anno di assenza dalle scene sta meditando il ritorno Elsa Fornero.
Chissà cosa aveva da ridere
Una delle cose più difficili se non la più difficile in assoluto per un personaggio pubblico è uscire di scena dignitosamente e una volta fuori è continuare a rimanere nell’ombra con sobrietà. Magari approfittando della possibilità di essere dimenticato per quanto ha fatto, in genere corbellerie, durante l’esercizio della sua funzione pubblica. Sembra una prova da nulla ma pochissimi raggiungono questo risultato. Uno dei rari esempi nei tempi moderni è stato Arnaldo Forlani e per trovarne un altro prima di lui bisogna scendere fino a Lucio Quinzio Cincinnato. A dimostrazione che, scavando e scavando o aspettando e aspettando, qualcosa di buono lo si trova in tutti.

La voglia di tornare a calcare la scena è così forte per chi anche solo per un quarto d’ora è stato baciato dalla celebrità e ha potuto godere di privilegi, medioevali, che resistervi è assai arduo. Il rientro sotto l’occhio di bue, come in teatro chiamano il riflettore, richiede però qualcosa di particolare. E poiché trovare cose di buon senso che siano eclatanti è più difficile che non spiattellare sciocchezze eclatanti è a queste secondo che i più o le più fanno ricorso. Sta succedendo anche a Elsa Fornero.

Già quando era al governo si era distinta per alcune perle di rara saggezza come quando disse che lei «Non sono ferratissima per fare il ministro» o quando affermò «Sarò costretta a parlare molto lentamente, perché dovrò pensare ogni parola.» Alleluia. Causa della affermazione la presenza in sala di giornalisti. Aveva già cavalcato la notorietà negativa definendo choosy (schizzinosi) i ragazzi italiani o non conoscendo esattamente il numero degli esodati che variava ogni giorno neanche fosse lo spread. Ora dopo quasi un anno di assenza sembra stia pianificando il suo rientro. Ma perché farsi del male da soli?

Ha iniziato il suo rientro una ventina di giorni addietro, nel peggiore dei modi. Ovvero all’insegna de «io l’avevo già detto» che se c’è frase irritante per chi non ha fatto è proprio questa. Il primo «io l’avevo già  detto» era riferito al job act di Matteo Renzi. La ex ministra arrivava a dire che quel piano era in continuità con quanto da lei impostato e che a lei sarebbe tanto piaciuto di farlo. Quel piano. Piccolo dettaglio: il piano non esiste è semplicemente una mail di enunciazione di principi, come dire «viva la mamma». Che di suo suona bene e salvo qualche sciagurato caso, viene difficile contestare. Passata qualche settimana appena si è aperto un nuovo caso, nello specifico la questione Mastrapasqua, ci si è lanciata sopra come topo sul formaggio.  Il refarin è sempre lo stesso: «Io l’avevo detto.»                                                                                          
 Naturalmente Elsa Fornero ha scelto per il suo exploit La Stampa che oltre ad essere il giornale di Torino, la sua città, è anche la testata sula quale il marito scrive come editorialista. Evvabbé. Quindi l’ex ministra io l’avevo detto ha rilasciato questa dichiarazione riferita al caso Mastrapasqua:  «Le commissioni Lavoro di Camera e Senato e la commissione bicamerale sugli enti previdenziali avevano fatto pressioni per un nuovo progetto di governance dell’Inps (leggi cambiare Mastrapasuqa). L’obiettivo era una gestione più trasparente e meno accentrata e a tal fine venne istituita una commissione ad hoc per rivedere la struttura dell’Ente. Purtroppo però, nonostante i vari impulsi ricevuti la politica impedì il rinnovamento.» Che tenerezza. Verrebbe da dirle come dicevano una volta le nonne alle ingenuità dei bimbi:«povera stella.»                       Si vede proprio che non era ferratissima per fare la ministra non si è neppure accorta della colossale contraddizione: le commissioni di Camera e Senato e la Commissione bicamerale sugli enti previdenziali sono la politica. Quindi…   Evvabbè. Almeno non è più al governo.

Nel febbraio del 2013, dopo le elezioni che liberavano il paese dal governo Monti, la ministra dichiarò, con un tono che aveva il sapore della minaccia che era ricercata da una università tedesca.  Per molti era una promossa. Purtroppo non mantenuta. La Fornero è rimasta in Italia e pare voglia dire ancora la sua. Saranno felici giornalisti e comici.



Antonio Mastrapasqua eroe del lavoro poltronista.

Stakanov fu nominato eroe del lavoro socialista, Mastrapasqua eroe del lavoro poltronista. Dei tanti incarichi  si sapeva da tempo ma nessuno ha mai mosso un dito. Quelle 24 poltrone occupate oltre a quella di presidente dell’Inps sono pagate due cocomeri e un peperone. Lui l’ha fatto  per necessità ed autostima. E per dirla tutta l’Inps lascia tanto tempo libero.




Antonio Mastrapasqua candidato al premio Stakanov
Un paio di giorni fa il Presidente del Consiglio attualmente in carica, ma non si sa  ancora per quanto, Enrico Letta detto Richetto leggendo i giornali ha avuto un sobbalzo. Il direttore generale dell’Ospedale Israelitico di Roma pare abbia firmato richieste di rimborsi gonfiati per svariati milioni di euro. Una truffa. Grossa. Banale Insomma una grossa banale truffa. Succede. In Italia.
Pare si tratti di una trentina di milioni o giù di lì, a essere precisi ci si perde solo il sonno e magari viene pure il mal di fegato.  Il truffato, neanche a dirlo, è l’Inps. Poco c’è di meglio che truffare un ente dello Stato. E per giunta un ente strategico. Già perché l’Inps di cui si parla, a scanso di equivoci e per amor di precisione ,  è proprio quell’Inps che eroga le pensioni a 30 milioni di italiani e un’altra bella serie di servizi,previdenziali. Quindi, tutto regolare. Perché agitarsi?  

Piccolo dettaglio: il direttore generale dell’Ospedale Israelitico risponde al nome di Antonio Mastrapasqua che stranamente assomiglia per non poche assonanze a quello del presidente dell’Inps, che anche lui di nome fa Antonio Mastrapasqua. Forse un caso di omonimia? E dunque Richetto Letta viste tutte queste anomale coincidenze ha chiesto al ministro Giovannini, che anche lui si chiama Enrico, di "avviare una prima ricognizione" sul caso. L’ha chiesto con la consueta determinazione e forza ed entusiasmo e passione e voglia di fare e non si sa cosa d’altro. Richetto Letta è fatto così in ogni cosa ci mette la sua determinazione. Ormai crede di essere in una conferenza stampa permanente. Ma comunque chi è questo Antonio Mastrapasqua?
Innanzi bisogna dire che  un caro amico di un altro Letta che però di nome fa Gianni ed è lo zio di Richetto. Poi che è anche il presidente dell’Inps. Sì sempre quell’Inps di cui sopra. E poi è un gran lavoratore questo dottor Mastrapasqua. Oltre che essere il presidente dell’Inps si è sempre dato da un gran da fare anche con altri piccoli lavoretti. D’altra parte lo stipendio che il Mastrapasqua riceve dall’Inps è quasi di sussistenza, supera di poco la soglia di povertà, solo 216.711,67€ lordi. Si capisca: sono introiti lordi.  Quindi valgono meno della metà. E poi va detto chiaro che il lavoro all’Inps non è così impegnativo come si immagina: quattro scartoffie di qua quattro scartoffie di là. Ogni tanto qualche audizione con la commissione parlamentare che si occupa del lavoro e poi basta. Sembra quasi di neanche lavorare. E oltre tutto di scarsissima soddisfazione.

Tutt’altra musica sarebbe stata se il Mastrapasqua avesse lavorato ad una pressa o in un alto forno delle acciaierie Riva di Taranto. Altre soddisfazioni quelle sia a livello personale che economico. Si vuol mettere forgiare l’acciaio e piegarlo e torcerlo e fargli prendere la forma voluta  con la sola forza di una pressa da cento tonnellate? Tutta un’altra storia rispetto a spostare una foglio di carta dal lato destro della scrivania a quello di sinistra. E poi camminare lungo i corridoi con una cartelletta in mano con l’aria di andare a risolvere i problemi della nazione e quelle noiose pause caffè  che potevano anche trasformarsi in pause cappuccino. Un disastro. E poi che ne è della propria autostima? Che  a parte l’autostima ridotta a un niente c’è anche la questione dello stipendio. Con un simile stipendio come si può vivere? Quindi avendo tanto tempo a disposizione qualcosa va pur fatto.

Ecco allora che l’intraprendente giovanotto Antonio Mastrapasqua una vaga rassomiglianza all'attaccatura delle orecchie con il minatore sovietico Stakanov di cui si mormora sia anche un lontano parente per parte di zio, si mette a questuare (parola difficile ma molto cool che sta per mendicare). Si rivolge a tutti gli amici perché gli diano un piccolo lavoretto anche part-time. Gli amici sanno della sua buona volontà e della sua voglia di lavorare a tutti i costi e quindi tutti a dargli una mano. E i suoi amici sono tanti, c’è chi dice 22 e chi dice 25. Quindi il Mastrapasqua mette insieme così senza parere e magari pure senza neanche accorgersene 25 lavoretti. Tutta roba da poco s’intende: una vice presidenza qua un consiglio di amministrazione là, una direzione generale lì un collegio sindacale qui. Un tourbillon a cui pochi saprebbero resistere e infatti oltre che presidente dell’Inps diventa vicepresidente dell’agenzia delle entrate e anche direttore generale dell’ospedale di cui s’è detto prima. Robette insomma. Tutti lavoretti da nulla pagati due cocomeri e un peperone. Infatti il Mastrapasqua per mettere insieme un reddito di un qualche senso e vagamente decente deve sgobbare come un mulo e correre come un criceto nella ruota. Ogni tanto il lavoro gli pesa e  lo si vede dall’espressione afflitta. Sommare tanti piccoli stipendi quasi miserrimi, poco più del salario di un operaio, è fatica dura. Una volta lo si è sentito anche mormorare: «Lavorare stanca.» ma è stata la debolezza di un momento.

Comunque alla fine come la buona formichina che accantona granello su granello riesce ad avere un reddito quasi decente. Finalmente può permettersi di comprare tutti i giorni il latte per i suoi bambini e la domenica anche una brioches. Una sola che dividono in quattro e qualche volta invitano anche i vicini.  E così eurino dopo eurino mette insieme: 1.200.000€. Giusto uno zik più in là della soglia di povertà. Lo sanno tutti.
Però attenzione, bisogna esser chiari ed onesti: ogni lavoretto aggiuntivo, facendo la media del pollo,  lo occupa per circa un’oretta e mezza alla settimana e gli frutta solo 41.000€. Praticamente un niente. Che se deve fa pe campà. E poi ecco che ti arriva l’Enrico a voler vedere chiaro sulla questione. Che prima dei tanti lavori del Mastrapasqua mai si era occupato alcuno anche se il fatto era notissimo. Ne avevano parlato anche i giornali e la tv. 

E poiché la vendetta è un piatto che si serve freddo ecco che ti rispunta la Fornero, la cenerentola del canavese, a dire che lei l’aveva detto ma nessuno le aveva dato retta.  «Le commissioni Lavoro di Camera e Senato – ha dichiarato la Fornero a la Stampa -  e la commissione bicamerale sugli enti previdenziali avevano fatto pressioni per un nuovo progetto di governance dell’Inps. L’obiettivo era una gestione più trasparente e meno accentrata e a tal fine venne istituita una commissione ad hoc per rivedere la struttura dell’Ente. Purtroppo però, nonostante i vari impulsi ricevuti la politica impedì il rinnovamento.» Povera stella. Si vede che non era ferratissima per fare la ministra non si è neppure accorta della contraddizione le commissioni di Camera e Senato sono la politica. Quindi…   Evvabbè.                                                                                                                                                   
Peraltro la stessa ministra intervistata da Report  affermò, molto impacciata,  che non essendoci assenteismo non vedeva motivi di chiedere a Mastrapasqua di svolgere solo il ruolo di presidente del’Inps

Forse più che di vendetta si è trattato solo del calcio dell’asino. Complimenti. A tutti



lunedì 27 gennaio 2014

Renzo Piano vuole rammendare l'Italia

L'architetto-senatore crede che un politico dovrebbe attenersi al giuramento degli eletti di Atene. Lasciare la città meglio di come la si è avuta in consegna. Non è necessario costruire il nuovo basta rammendare l'esistente. Nel progetto investe il suo emolumento di senatore a vita



Una dei recenti mantra di Renzo Piano, architetto nel mondo e senatore nella repubblica italiana, dice che l'Italia debba essere rammendata. Con ciò intendendo che, dal punto di vista architettonico ed urbanistico, già molto è stato fatto, non sempre bene nel precedente e nell'attuale secolo, ma soprattutto che quanto costruito non ha goduto di una adeguata manutenzione. Che poi è un modo carino ed educato per dire che mai questa è stata fatta. E che anzi proprio quanto è di recente costruzione specialmente nelle periferie delle città sia anche un bell'esempio di degrado. Di lì a dire che là dove c'è degrado delle cose non è difficile trovare anche il degrado sociale e, ovviamente, viceversa è passo abbastanza breve e comunque è un dato di fatto sotto gli occhi di tutti.

In genere ad ogni teorema corrispondono dei corollari e anche questo dell'architetto-senatore non fa eccezione.
Il primo corollario del teorema del rammendo recita che è inutile se non addirittura dannoso lavorare per l'esplosione delle città che al contrario dovrebbero implodere ovvero guardare al loro interno e lavorare sulle ristrutturazioni. E poiché la gran parte dei cittadini abitano in periferie si farebbe bene a partire da queste. D'altra parte due dati sono più che emblematici: in Italia ci sono oltre cinque milioni di appartamenti vuoti e si consumano otto metri quadrati di terreno al secondo. Che oggettivamente son numeri da far rabbrividire anche considerando che una bella fetta dello stivale è costituita da montagne. Quindi la domanda è: perché continuare a costruire?

Il secondo corollario è che metter mano al rammendo può portare anzi senz'altro porterebbe, per non dire in modo più direttivo che porterà, alla creazione di nuove professionalità e quindi nuovi posti di lavoro sia per i giovani sia, magari, anche per quelli meno giovani. Che molti di questi ultimi sono stati fatti accomodare su poltrone ben lontane dal lavoro sia dalla crisi finanziaria sia da discutibili scelte politiche, di norma ponzate da bonzi dell'economia che magari non sanno cosa voglia dire tenere sotto controllo un bilancio familiare. Così magari non si darà la colpa alle nutrie per il collasso di un argine, che, anche se vero, suona un po' buffo, oppure non ci si trova con una scuola su cinque che pare non sia in regola con le norme basilari della sicurezza. E pure, verrebbe da dire, del buon senso.

Per tener dietro a teorema e conseguenti corollari Renzo Piano ha deciso di impostare un progetto, d'altra parte è un progettista e fare progetti è il suo mestiere, e già che c'è anche di finanziarselo con il suo emolumento di senatore a vita. In questo modo i soldi dati alla politica tornano alla polis che è un bel circolo virtuoso. Che se anche altri senatori a vita seguissero l'esempio nessuno se ne adombrerebbe. Perché un'idea se non la si mette in pratica è solo una astrazione buona giusto per parlarne al bar. L'architetto-senatore ha battezzato il progetto con la sigla G124 che altro non è che il numero del suo ufficio nel palazzo del Senato nel quale stanno lavorando sei giovani architetti. Tre uomini e tre donne. Tutti italiani e con esperienza internazionale, ça va sans dire. I sei hanno un anno di tempo per presentare il lavoro che con ogni probabilità dimostrerà che crescita e sviluppo si possono coniugare anche con rammendo e non necessariamente con il nuovo. Probabilmente poche volte negli ultimi vent'anni e forse pure qualcuno di più, le stanze del Senato hanno avuto la possibilità di assistere a lavori e si immagina pure a discussioni effettivamente intese a lasciare meglio quello che si è trovato. Neanche a dirlo.

Già, perché proprio al giuramento degli eletti ateniesi fa riferimento Renzo Piano quando, in modo atipico per gli standard nostrani, definisce il concetto di politica. Per la cronaca il  giuramento suonava così: «Giuro di restituirvi Atene migliore di come me l'avete consegnata.» Se si dovessero giudicare con questa massima i politici di lungo corso che hanno scaldato gli scranni dell'italico parlamento negli ultimi cinque o sei lustri ci sarebbe poco da stare allegri. Non foss'altro avendo come parametro l'andamento del debito pubblico. Senza voler dire del numero degli inquisiti e condannati che in quei palazzi stanno dentro. Ma tant'è.

D'altra parte in Senato siede anche Maurizio Gasparri che commentò con fine umorismo la presenza di Renzo Piano alla seduta del 27 novembre (decadenza di Berlusconi) dicendo: «Non può fare come le tricoteuses che andavano ad assistere ai ghigliottinamenti. A Renzo Piano oggi gli mancano solo i pop corn per guardare lo spettacolo. Stavo pensando di fargli recapitare dei pop-corn, ma essendo vicepresidente del senato non l'ho fatto.»
Che Gasparri pensi che in Senato si tengano spettacoli lo fa acuto osservatore, che da lui non ce lo si aspetta. Che poi lui sia uno dei vicepresidenti non ne è altro che la conferma alla sua audace intuizione.

Poi, magari, ci si può divertire a confrontare biografie e reputazione degli attori in campo così si può dare specifica qualificazione allo spettacolo in scena: i tratta di una farsa.
Che poi a domandarsi se possa fare di più in Senato Renzo Piano con una sola presenza o Maurizio Gasparri in cento sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Una cattiveria. Ma forse salutare.



mercoledì 22 gennaio 2014

C'è tanto lavoro da fare per papa Francesco.

Nel giro di una settimana tre casi scottanti sul tavolo di papa Francesco. Si va da don Nunzio Scarano noto come “monsignor mondano” al bisticcio tra i cardinali Maraiaga e Müller sui sacramenti ai divorziati per finire al caso di suor Roxana che partorisce un bel bebè.



Monsignor Nunzio Scarano
I dossier sul tavolo di papa Francesco si stanno moltiplicando. Oltre alle tematiche a carattere planetario ci sono quelle terra a terra che, tutti i giorni e magari pure più volte al giorno, toccano la vita della gente comune. Queste sono quelle veramente difficili da gestire dato che richiedono risposte pratiche ed operative mentre per le prime, quelle planetarie, ce la si può cavare a buon mercato con un comizietto dalla finestra di san Pietro condito con un paio d'etti di sana retorica e, in più,con qualche grano di solidarietà, che nell'insalata mista della demagogia ci sta sempre bene.

Questa settimana il capo del Vaticano si trova a dover affrontare i casi del “monsignor mondano” come è stato definito don Nunzio Scarano, fa anche rima, quello del fraterno bisticcio tra il cardinale honduregno Maradiaga e quello tedesco Müller e quindi il terzo: quello della suora che ha partorito. Tutti mediaticamente eclatanti e di robusta sostanza
Il primo quindi riguarda Nunzio Scarano che si fregia(va) del titolo onorifico di Cappellano di Sua Santità la qualcosa comporta, tra l'altro, portare in giro il grado di monsignore. Che un qualche grado non lo si nega a nessuno. Lo scorso 21 gennaio il monsignore è stato arrestato, ma sono arresti domiciliari e quindi di minor peso e fatica,, ed è la seconda volta. La prima fu il 28 giugno proprio mentre si aspettava la nomina ad arcivescovo. Quella volta le sacre gerarchie se la sono cavata per un pelo. E senz'altroo qualche strillo c'è stato nelle segrete stanze così come non pochi devono essere stati i ceri accesi alla madonna.

Il dossier Scarano è particolarmente duro da disbrigare poiché si sviluppa su due filoni che, pur essendo concettualmente assai distanti e in qualche modo addirittura divergenti.,vanno a toccare pesantemente due nervi particolarmente sensibili della Chiesa. Il primo di questi riguarda il codice penale di due Stati: quello italiano e quello di oltre Tevere. Il monsignore, che ha trascorsi da funzionario di banca quindi conosce bene la materia di cui si tratta, è accusato di riciclaggio e falso in atto pubblico e, come non bastasse pare che abbia indotto parenti ed amici a dargli manforte in queste operazioni. Aveva grande abilità nello spostare denari da una parte all'altra, e qualche monetina di tanto in tanto doveva rimanergli attaccata visto che si poteva permettere di denunciare il furto di una ventina di quadri di Guttuso e De Chirico nonché apparecchiare il parco desco con sottopiatti d'argento. Pur dichiarando un reddito di un paio di decine di migliaia di euro. Stipendio da metalmeccanico. Delle proprietà immobiliari così come delle amicizie vip si tralascia qui l'elenco perché è sempre la solita zuppa. E questo per la Chiesa di Francesco, che se ne va girando con una croce di ferro sul petto, non è bello e neppure fa buona immagine. Quindi qui il problema diventa come scaricare l'ingombrante fardello facendosi il meno male possibile. 

Già, perché pensare che il maghetto della finanza facesse tutto da solo e che nessuno, nella piccola città del Vaticano dove si conoscono tutti, sapesse niente è boccone un poco difficile da digerire. Quindi forse qualche altro mattoncino della costruzione potrebbe (o dovrebbe) essere sacrificato e, come ben sanno i teorici della complessità, quando si comincia a muovere qualcosa il rischio che tutto crolli è ben alto. Quindi ora si tratta di attendere le mosse di papa Francesco che qualcosa dovrà pur fare e magari anche di poco gradevole. Ma quando ci vuole ci vuole altrimenti si perde di credibilità. Le telefonate ai calzolai van bene ogni tanto ma se son solo quelle, come ben sanno i suoi strateghi della comunicazione, perdono di efficacia.

Il secondo problema che è incluso nel dossier Scarano e tutt'affatto differente: è questione di cuore. Sì, perché il fredddo manipolatore di denaro, ama ed è riamato da oltre trent'anni. Ed è tanta, così pare, la devozione dell'amante da diventarne complice e affermare che «avevamo tutto in comune.» Quindi storia d'amore vera che tolta dal contesto malavitoso farebbe tenerezza. Ma c'è un ma. L'amante di Nunzio si chiama Luigi e pure lui è prete. Per un laico questo non è un gran problema: una storia d'amore resta una storia d'amore, a prescindere. Ma per la Chiesa? E per Francesco? Magari questo potrebbe diventare il casus belli per avviare il processo di revisione della Chiesa sulla questione della omosessualità e sulle unioni dei preti. Si tratta d'aspettare ma alla fine i nodi vengono al pettine.

Qualcosa all'interno della Chiesa si sta muovendo se due cardinali polemizzano in pubblico sulla questione dei divorziati risposati. La questione è quella di sempre: possono questi riaccostarsi ai sacramenti? Il cardinale Maradiaga, che viene dall'Honduras, dice di sì mentre Gerhard Ludwig Müller dice di no. È tedesco e per giunta teologo. E infatti l'honduregno in una intervista ad un quotidiano germanico ha dichiarato:«Penso di capirlo, è anzitutto un professore di teologia tedesco, nella sua mentalità c'è solo il vero e il falso. Perciò io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un poco più flessibile quando ascolti altre voci e non solo ascoltare e dire no.» E bravo il cardinale Maradiaga. Però attenzione oltre che dire sì bisogna fare in modo che il sì abbia risvolti pratici ed operativi. Altrimenti e come dire no.

La terza questione riguarda i fatti di Rieti. Come si sa una suora della Congregazione Piccole Discepole di Gesù ha partorito. Questa volta non c'è stato l'intervento dello spirito santo, che peraltro ha già dato, ma quello più naturale di una vecchia fiamma di gioventù. A onor del vero non deve essere stato un'incontro di travolgente passione perché,a quanto pare suor Roxana se ne è dimenticata quasi subito. Al punto che guardando la sua pancia  ingrossarsi pensava fosse la complicazione di una gastrite e quando ricoverata per i forti dolori che poi erano doglie, le hanno detto cha avrebbe partorito pare abbia esclamato: «io non posso partorire, sono una suora.» E invece anche le suore possono partorire. Non in quanto suore ma in quanto donne.  Basta pensarci un attimo e lo si capisce. Probabilmente ci arriva anche Giovanardi. Con sforzo ma ci arriva pure lui.

A bebè nato le Piccole Discepole di Gesù, che per un bel po’ di mesi non si erano accorte di nulla, chissà in che mondo vivono, si sono mostrate poco compassionevoli. Non solo non sono andate a trovare la sorella ma non hanno neanche accolto con gioia il nuovo nato che tra l’altro è stato battezzato Francesco. Hanno chiuso le porte del convento con sdegno e si sono pure un po’ arrabbiate. «Vi pare giusto che succedano cose del genere?» hanno commentato. 
Oddio verrebbe da dire: sono le cose del genere che hanno fatto grande il mondo Forse che avrebbero preferito un aborto?

Ecco qui, sì,  ci sarebbe stata bene una bella telefonata di papa Francesco. No, non a suor Roxana, che adesso suora non lo sarà più ma magari alla madre superiora del convento per rimproverarla. E magari ricordarle che nella categoria pecorelle smarrite rientrano anche le suore che partoriscono. Però questa telefonata non c'è stata. Che questa sì avrebbe fatto immagine e sostanza per davvero.



lunedì 20 gennaio 2014

Renzi è il frutto avvelenato di D'Alema?

Adesso la minoranza del Pd è più che mai scatenata contro il segretario. Gli accordi si fanno coi nemici diceva Fassino e Renzi segue il consiglio. Il sindaco di Firenze sta facendo quello che per anni hanno fatto tutti i big del Pd da Violante a D'Alema. Perché scandalizzarsi tanto? Si pensasse invece di lasciar liberi gli elettori di scegliere gli eletti.



Come si assomigliano: fratelli coltelli
Come diceva lo spassoso don Camillo in uno dei film della saga condotta con il sindaco comunista di Brescello: «se gratti il Pepito salta fuori il Peppone.» ed è quello che inopinatamente sta succedendo in questi giorni. Se gratti il Renzi spunta fuori il D'Alema. Almeno nello spirito.

Fino alle 16,00 di sabato lo sfrenato attivismo di Matteo Renzi poteva passare sotto la striminzita coperta della voglia di fare ma dalle 18,00 dello stesso giorno in avanti la coperta si sta dimostrando ancor più corta di quel che si pensava e lascia fuoriuscire pezzi di estremità il cui odore, a occhio e croce, non sembra dei migliori. Innanzitutto gli effluvi che aleggiano intorno alla parola democrazia e alla voglia di misurarsi con le idee, ancorché di minoranza, che girano o gireranno per il paese sanno un po' di acido butirrico che talvolta è un buon indizio per segnalare che il cibo è rancido. 

Che bisognasse o meno incontrare Berluconi è questione di lana caprina in fondo Renzi non ha fatto altro che mettere in pratica la massima che recita: «la pace (come gli accordi) si fa con i nemici.» Come ben sostenne quel Fassino, ora sindaco di Torino, ma già amico di D'alema (grazie al quale ottenne la segreteria dei DS per due volte), già sostenitore di Bersani nel primo scontro con il sindaco di Firenze e ora suo imprevisto (non si sa neppure quanto gradito) sostenitore della penultima ora.
Infatti che Fassino possa appoggiare Renzi suona come campana crepata perché delle due l'una o Fassino, improvvisamente rinsavito, ripudia la sua storia, purtroppo ultradecennale, all'interno del partito o Renzi gli assomiglia. Magari poi non solo a lui ma all'intero vecchio gruppo dirigente.

Certo, l'incontro con Forza Italia poteva essere gestito magari meglio ma è difficile scegliere i comandanti dei nemici o degli avversari e non sempre si possono imporre i nomi delle delegazioni avverse. Salvo il fatto che non si tratti da posizioni di estrema forza e questo non era certamente il caso. Senza contare che i precedenti nella storia del Pd (e prima dei Ds e prima ancora del Pds ed anche del Pci e della Dc neanche se ne parla) vanno esattamente nella stessa direzione. Violante docet e il suo mentore D'Alema super-docet. Che non lo si dimentichi solo poco tempo fa il baffetto pensava addirittura di abbracciare Fini.
Ma come al solito la gran parte dei dirigenti del Pd avversi a Renzi preferiscono guardare il dito e non la luna. Con quel che segue. Mentre Letta Enrico, di ampia e consolidata tradizione democrista, plaude all'iniziativa del segretario tentando in qualche modo di metterci sopra il cappello e, almeno in parte, di intestarsela. E anche questo ha l'odore dell'acido butirrico.

Interessante che Grillo, contro il suo interesse, protesti per il fatto che gli elettori saranno ancora una volta privati della possibilità di scegliere i loro candidati. Che questo è il vero punto dolente dell'incontro con Forza Italia. Incontro obbligato per Renzi se non vuol rimanere incastrato e risucchiato tra i ricatti di Alfano, che se si andasse alla elezioni anche con il proporzionale più puro porterebbe a cosa i classici due cocomeri ed un peperone, la flemma di Letta e l'inanità  bocconiana, lezioni tante ma fatti pochini,  di Sciolta civica e dei quattro gatti che da questa si sono staccati per finire tra le braccia di Casini. Vendola, al di là delle parole, è troppo poco rivoluzionario per poter incidere e contare in qualche cosa.

Ora i nemici interni del segretario farebbero bene a soppesare non tanto le somiglianze tra Berlusconi e Renzi che poi sono le stesse tra Berlusconi e D'Alema e comunque tra due uomini (e anche donne) di potere ma la genesi di Matteo. Che se si guardassero con onestà nelle palle degli occhi dovrebbero ammettere che il buon Renzi è il frutto avvelenato della vecchia quercia. Decenni di pochezza politica e compromessi al ribasso del gruppo dirigente del partito che adesso si chiama Pd hanno generato il “mostro” Renzi.
Bersani ha accettato di avere Renzi come avversario alle primarie per la candidatura a premier solo per debolezza e non per magnanimità. Peraltro un suo no secco era supportato dallo statuto. E tutto sommato ci stava anche. Ma per far rispettare le regole ci vogliono cabasisi come dice Montalbano. O come dicono quelli che masticano di politica: un solido impianto strategico, E infatti poi si è visto come è andata a finire.

Le seconde primarie, quelle per la carica di segretario, il sindaco fiorentino le ha vinte perché gli elettori del Pd si sono stancati di immobilismo e di politichese, di tirare a campare (già non gli piaceva quando lo diceva Andreotti meno ancora gli piace vederlo messo in pratica da Letta e dintorni)  e di tirare la cinghia mentre i loro dirigenti si divertivano (e si divertono) come matti. Emblematica la festa di compleanno al Circolo Antico Tiro al Volo organizzata da Epifani (ancora sindacalista ma comunque sempre ex socialista), a cui si potrebbero aggiungere appartamenti a New York o tenute agricole in Umbria tanto per dire solo di altri due, che la lista potrebbe essere lunga assai, E soprattutto penosa.
Renzi sta facendo quello che i vecchi della nomenclatura hanno già fatto e vorrebbero continuare a fare in prima persona. Che quello che avrebbero dovuto di certo non l'hanno fatto.

Se nel Pd c'è un Renzi e magari questo Renzi bisogna ringraziare tra gli altri (in rigoroso ordine alfabetico) Bersani, Bindi, D'Alema, Fassino Finocchiaro, Rute
lli (ora scomparso ma magari pronto a riemergere) Veltroni, Violante e per la sua parte in tempi ancor più lontani, Napolitano. e i loro epigoni: Cuperlo, Fassina, Orfini, Scalfarotto. Con gente così che non ha iniziativa e tanto meno idee non si va da nessuna parte. 
Mala tempora currunt.





domenica 19 gennaio 2014

In Italia si ruba sempre di più.

Il mercato del furto è in crescita. Ma la crisi non c'entra. Il segmento che tira di più è quello dei furti in appartamento, lieve la crescita di quelli per strada. Si rubacchia anche nei palazzi della politica ma la quota di mercato non è chiara. Forse è in crescita o forse no. È che i politici sono più fantasiosi nella costruzione del contesto che i comuni chiamano alibi.




A leggere che in Italia si rubi sempre di più molti maliziosi avranno immediatamente pensato di darne la colpa ai politici corrotti.  Ma l'impennata del numero dei furti è dovuta anche, volesse il cielo che fosse solo, a ben specifiche categorie specializzate. Beh certamente quelli che di politica campano ci mettono del loro, non tutti per carità, magari solo qualcuno, all'incirca una qualche decina o forse un paio di centinaia o, a voler essere pessimisti (oppure ottimisti?) non più di mille. Che poi magari la stima è fatta al ribasso e un pochino si sfora. Si sfora sempre quando dalla stima si passa al consuntivo. È una regola, pare faccia parte della scienza della statistica.

Comunque, ammesso e non concesso che tra i politci ci sia chi ha fatto (o fa) un uso “in proprio” dei denari dei contribuenti, a questi vanno sommati anche gli scippatori, i ladruncoli da supermercato e gli svaligiatori di appartamento. Questi ultimi una volta erano definiti romanticamente i soliti ignoti (ci fecero pure un film) o, con meno classe, topi d'appartamento.
Il segmento che nel complessivo mercato del furto è cresciuto di più, circa del 114%, negli ultimi otto anni è per l'appunto quello dei furti in appartamento che in termini di denunce ha raggiunto il fantasmagorico numero di 240.000. Un vero boom. Dicono i bene informati e quelli che sanno far di conto che si ha praticamente un furto in appartamento al minuto. Forse un record. Certo non è di quelli di cui andarsene fieri. Però così è.

Il fatto strano, ma poi forse neanche tanto è che le regioni leader del segmento sono la Lombardia, il Piemonte e l'Emilia Romagna mentre stranamente la Campania, la Calabria e la Sicilia veleggiano nelle parti bassa della classifica. Qualche volta essere tra gli ultimi non va poi così male.
Sempre a detta degli esperti la crisi sembra incidere poco nell'incremento dei furti in appartamento. Pare infatti che chi si vuole impiegare in questo settore di attività debba avere una qualche specializzazione che chi fino al giorno prima faceva l'impiegato o l'operaio o il precario di certo non ha. E poi come ben si sa la specializzazione si acquisisce con l'esperienza che a sua volta richiede tempo ed applicazione. Chi patisce la crisi non è specializzato e proprio non ha le capacità tecniche per questo tipo di attività. Il neo disoccupato al massimo, quando è ridotto proprio proprio alla disperazione, si impiega nei segmenti che richiedono meno competenza e quindi scippi, furtarelli per strada, o nei supermercati. E peraltro sono quelli che vengono beccati con più facilità e che in genere finiscono dietro le sbarre in tempi brevi. E lì stanno anche perché normalmente non hanno nella loro rubrica il numero di cellulare della Cancellieri. E per sfortuna massima non conoscono neanche uno dei tanti Ligresti a cui chiederlo. Forse per tutto questo la percentuale di incremento del segmento si attesta, fortunatamente, su un miserrimo 4%.
Di ruberie si parla finanche nel mondo della politica, forse l'unico che la crisi non ha toccato, anche se lì il fenomeno assume contorni più sfumati sia per le dimensioni sia per le sue definizioni. Che già specificare il reato non è così semplice poiché si va dal peculato alla truffa al finanziamento illecito e qualche volta addirittura all'appropriazione indebita. C'è da scegliere e talvolta troppa scelta non aiuta. Anche se la zuppa poi è sempre la stessa: trasferimento di denaro dal legittimo proprietario, in questo caso, pubblico a improprie tasche private.
Poi c'è lo spinoso fatto del reo e delle sue giustificazioni.
Infatti quando le forze dell'ordine riescono finalmente a beccare il malfattore (che a chiamarlo delinquente mancano i tre gradi di giudizio e magari il ricorso alla Corte europea) si aprono comportamenti diversi a seconda che questi sia un comune mortale o uno sfiorato dalla voglia di voler far del bene al Paese ovvero un politico.
Nel primo caso il presunto reo dopo l'ovvio «non sono stato io» tutt'al più dice che quel giorno e a quell'ora era da un'altra parte. Già, perché tutti ricordano perfettamente l'insegnamento dell'Armando (Iannacci docet) «commissario io ci ho l'alibi a quell'ora sono sempre all'osteria», ma non sempre questo regge. E quando non regge le proteste scemano e i più fanno la media con le volte in cui l'hanno fatta franca e si rassegnano. A volte c'è il sospetto che il saldo sia abbondantemente a loro favore.

Di tutt'altro tenore sono le giustificazioni dei politici, sempre evanescenti, sfumate e complicate. Ma soprattutto non s'arrendono mai. Verrebbe da dire neppure all'evidenza. In questo caso la parola chiave è: complotto, neanche fossero novelli Giulio Cesare. Peccato che il Bruto e il Cassio non li si trovi mai. E allora ripiegano sulle segretarie che sono pasticcione e incapaci di mettere in fila gli scontrini ricevuti dal capo. Poi c'è chi proclama «Posso spiegare tutto.»  doppiato da un  «Non è quello che sembra» supportato da «Non si può estrapolare ...bisogna contestualizzare» anche se vengono pescati con le mani nella marmellata. Per cui salta fuori il dono dell'ubiquità che come alibi è tutto un programma, e chi giustifica i pluriquotidiani pasti con la scusa di ospitare il verme solitario fino a quelli si scoprono proprietari di beni al sole o di vacanze superesclusive a loro insaputa (che molti vorrebbe gli capitasse, ma non gli succede mai). E poi anche chi ricordandosi le montagne verdi di Marcella Bella si ritrova tra le mani gli scontrini di mutande verdi. Sic transeat gloria mundi.

Che poi se si risparmiasse qualche soldo da vitalizzi, doppie e triple pensioni o stipendi  e magari anche da talune spese scriteriate (che anche lo zio di Bonanni saprebbe individuare) e lo si investisse per pagare la benzina a chi deve correr dietro ai ladri di ogni tipologia non sarebbe poi così male.
Ma il buffo è che nessuno dichiara tanta fiducia nella magistratura come i politici . Salvo poi ritirarla a condanna comminata. Per i ladri comuni il fatto è più semplice: la magistratura è solo la controparte.




lunedì 13 gennaio 2014

Quello che Nunzia De Girolamo non capisce.

L'inchiesta All (All Literacy and Life Skills) racconta che solo il 30% degli italiani sono in grado di orientarsi nel mondo attraverso la lettura e la scrittura. La difesa sul caso De Girolamo pare confermare il dato. Concentrarsi sul vaffa è ridicolo oltre che puerile. Magari la ministra si assumesse, almeno una volta, le sue responsabilità.




Nunzia De Girolamo: dimostra il suo impegno sul
territorio interessandosi di un  bar dentro un ospedale
Capire quanto scrivono i giornali non sempre è facile ma nel caso della vicenda relativa a Nunzia De Girolamo è tutto abbastanza chiaro. Gli articoli riportano letteralmente, parola per parola, le frasi registrate di straforo da un amico, forse oggi ex amico, dell'ambiziosa ministra. Sono parole che poco spazio lasciano all'interpretazione e quasi nessun giornalista s'è messo a fare chissà quali sofisticate analisi lessicali. Quindi qualsiasi persona normodotata ha ben chiaro il significato della frase: «Facciamogli capire che un minimo di comando ce l'abbiamo! Mandagli controlli ...e vaffan....» Soprattutto se riferita alla gestione di un bar all'interno di un ospedale.

Frase semplice chiara. A prova di test Invalsi. Chi pare non abbia capito qual è il motivo che fa scandalo in quella frase sono la stessa Nunzia De Girolamo, il capogruppo di Ncd Fabrizio Cicchitto, ma lui s'è bevuta ed ha difeso a spada tratta, tra le altre, la storia dei ristoranti pieni e degli aerei in overbooking, e poi anche Angelino Alfano, altro che talvolta fa fatica a cogliere il centro delle questioni. Per ora Letta, l'Enrico, tace e con ciò lasciando il dubbio cornuto o di non aver capito di cosa si tratta, e anche per lui non sarebbe la prima volta, o di volersi nascondere dietro il pollice come fanno i bimbi. E anche questa è una sua piacevole abitudine.

Oddio è vero che l'inchiesta All (All Literacy and Life Skills) pubblicata lo scorso marzo 2013 racconta che «Solo il 30% degli italiani sono in grado di orientarsi nel mondo attraverso la lettura e la scrittura.» e la cosa una qualche preoccupazione la lascia. Ovviamente si è portati a credere, con l'ottimismo della volontà che talvolta deve sconfiggere il pessimismo dell'intelligenza, che all'interno di questa pur misera percentuale si trovi il cosiddetto gruppo dirigente della nazione ed in particolare coloro che elaborano leggi, definiscono i parametri della tassazione e magari hanno pure la velleità di voler correggere la costituzione. Quindi, ragionevolmente la media dei parlamentari pure se qualche palese eccezione non perde motivo per farsi notare. Per la felicità di Maurizio Crozza,  E questo non fosse altro che per la disinvoltura nell'utilizzo della lingua italica e soprattutto nell'astrusa applicazione della logica. Non mancando paradossali capovolgimenti del buon senso. Ma vabbé.

Peraltro non pochi, anche qualche giornalista ma nessuna categoria è perfetta, anziché concentrarsi sul senso della frase ha messo tutta la sua attenzione sul semplice vaffa che è come guadare il dito anziché la luna. Con le considerazioni che seguono. Tra questi ovviamente il Cicchitto, ma non è un caso e inopinatamente la stessa De Girolamo.

La Nunzia, liceo classico, laurea in giurisprudenza e paradossalmente due legislature, pare proprio che non abbia colto il senso di quanto viene contestato in quelle sue chiarissime parole. Parole che dicono di un'idea di potere da padrona delle ferriere o, se si preferisce, da satrapessa, di messaggi trasversali, di intimidazione per non dire di ricatto, di arroganza, di interessi che vanno al di là del bene della cosa pubblica, di opacità, di strumentalizzazione del ruolo. E ci si ferma qui per non voler evocare altre organizzazioni che quel tipo di linguaggio usano abitualmente.
Quindi il punto non sta nel vaffa: dettaglio trascurabile e di questi tempi insignificante.

Difendersi sostenendo che in casa propria si parla come si crede è puerile: primo perché l'argomentazione non ha a che fare con il focus della questione e secondo perché «le espressioni poco eleganti» sono un problema suo, questo sì del tutto personale, della educazione familiare ricevuta e di quella che eventualmente vorrà impartire. Così come è ridicolo rifarsi alla «registrazione abusiva fatta da un personaggio che è uno degli protagonisti di un'inchiesta sulle truffe all'Asl.» Già, che ci faceva un simile personaggio a casa sua? Non era stato invitato? Si era introdotto di soppiatto? Sostenere poi di non aver commesso nulla di irregolare (che sul fatto forse per prudenza è meglio non insistere troppo) evidenzia, al di là della facciata da “dura”, il lato immaturo del personaggio. In politica le cose più importanti (per non chiamarle virtù) sono la moralità e la trasparenza. Mancando queste il resto non conta. Peraltro, come avvocato dovrebbe conoscere la differenza che esiste tra legalità e giustizia con quel che in questo caso significa giustizia.

Magari per salvare il posto confida nel marito Francesco Boccia, accreditato come braccio destro di Enrico, il Letta. Che se questa è la tipologia del braccio destro tipo senz'altro si capisce chi faccia parte del 70% «che non è in grado di orientarsi nel mondo attraverso la lettura e la scrittura.»

A questo punto sarebbe un gran bel gesto se, almeno per una volta magari la prima di una lunga serie, la ministra si assumesse, come si usa dire, le sue responsabilità e ne traesse le debite conseguenze. Che poi non ci vuole molta fantasia: signora Nunzia si dimetta, prima da ministro poi da parlamentare e quindi cambi modo di pensare. Tutto ciò fatto si occupi di sua figlia e lavori perché anche suo marito segua questa strada. La nazione gliene sarà grata. Due volte.



sabato 11 gennaio 2014

Piccoli peraccottari crescono.

Continua la battaglia generazionale. Il terreno di gioco è sempre lo stesso. I giovani crescono e sembrano imparare presto. Gli anziani si consolidano sulle antiche abitudini:quando si è preso il vizio non ce ne si libera più. Chi sta col peracottaro impara a peracottare. Sei pezzi facili: Enrico Letta, Renata Polverini, Massimo D'Alema, Nunzia De Girolamo, Mario Mauro e la Fornero.



De Girolamo, Saccomanni, Mauro.: il dream team
Settimana corta questa che comincia di martedì, 7 gennaio, ma ricca come non mai di dichiarazioni e di citazioni e di autocitazioni e di inopinata peracottagggine. 
Sarà che le vacanze natalizie sono state lunghe e hanno consentito ai gladiatori della politica di rinfrancarsi. Sarà che questi, i lupi perdono il pelo (c'è da dubitarne: non lasciano mai niente) ma il vizio lo conservano. Sarà che Mario Draghi ha confermato che la crisi terrà compagnia ai più anche nel 2014 e farà fatica a d andarsene anche nel 2015. Sarà tutto questo e anche un pochino del famigerato quant'altro ma alla fine nulla cambia nel panorama italiano.

Entico Letta che è sempre più determinato ad arrivare col suo governo a primavera 2015 chiede «Più responsabilità» e come non bastasse anche un «Cambiamento di passo.» Sembra proprio che lui passi lì per caso e non sia (quantunque in incognito) il capo del governo. Ma Enrico Letta è un umorista, deve aver preso dallo zio, e la sua verve si vede in ogni provvedimento. Infatti è da umoristi aumentare le tasse per aumentare, in contemporanea, le detrazioni Così come abolire una tassa e introdurne altre tre che si fondono in una neanche fossero delle sottilette in un toast. Neanche ai De Rege sarebbe venuto in mente lo sketch messo in scena da Saccomanni che prima si fa scappare gli aumenti d'anzianità agli insegnanti e poi cerca di farsi restituire. Altro che peracottari. E adesso oltre Saccomanni adesso c'è da difendere anche la De Girolamo come già fatto con Alfano e la Cancellieri. Più che il capo del governo Enrico Letta sembra Perry Mason redivivo. L'avvocato difensore per eccellenza. Anche se quello difendeva gli innocenti.

Renata Polverini confessa di non saper montare i mobili di Ikea.. Per questa formidabile operazione di outing la ex presidente della regione Lazio ha preso come scusa il job act (e vai con l'inglese) di Matteo Renzi. Ha detto che il piano, in realtà un semplice abbozzo, del neo segretario Pd assomiglia ai mobili Ikea: dopo averli spacchettati poi non si è capaci di montarli. In verità non se ne aveva alcun dubbio. Chissà perché le è sfrizzolato l'uzzolo di comunicare al mondo questa sua incapacità ai lavori manuali. I mobili Ikea sono semplici e le istruzioni sono a prova di bimbo. Per non dire altro. Chiunque ma proprio chiunque è in grado di montarli, verrebbe da dire tutti. Meno una: Renata Polverini. Così come chiunque ma proprio chiunque si sarebbe accorto di come andavano le cose alla regione Lazio. Tutti meno una: Renata Polverini.

Massimo D'Alema è uomo dal cuore traboccante generosità. Il fatto è noto a tutti. Specialmente agli avversari che sanno di poter contare su di lui nel momento del bisogno. Erano anni che non rivolgeva la parola a Pierluigi Bersani ma appena il vecchio compagno di marcia è stato male lui, il lìder maximo che non ne ha mai azzeccata una, gli è stato vicino ogni giorno. Almeno così racconta Tommaso Labate sul Corriere della Sera che, con sei sobrie colonnette, rende noto al globo terracqueo quanto già tutti sapevano e chi non ne era certo lo sospettava: Massimo D'Alema è come Garrone. Anzi è Garrone stesso , «l'anima nobile» della politica italiana. Anzi De Amicis quando scrisse Cuore per la figura di Garrone, «la testa grossa, le spalle larghe», si ispirò proprio a D'Alema. Allo schivo D'Alema che tiene i suoi sentimenti così gelosamente nascosti. Il pezzo di Tommaso Labate infatti comincia così: «S'è informato (D'Alema ndr) giorno per giorno. Con discrezione e soprattutto evitando doglianze a mezzo stampa.» Meno male. Che se fosse stato vanitoso la notizia sarebbe apparsa su tutti i giornali della ciociaria.

Nunzia De Girolamo è una signora tutti ne sono convinti anche se lei, con modestia ammette che: «Ho usato parole non esattamente consoni a una signora? E che ci posso fare? Stavo a casa mia, potrò parlare come mi pare a casa mia, si o no?» E ci mancherebbe, può anche mettersi le dita nel naso, già che c'è. Il fatto è che le frasi in questione suonano sgradevoli e da comitato d'affari più che da politica interessata al bene pubblico. Le registrazioni infatti recitano così: «Facciamogli capire che un minimo di comando ce l'abbiamo! Mandagli controlli ...e vaffan....» e quindi «È l'amico di Nunzia e mio amico … è un bravo ragazzo, Insomma!» Roba proprio che i bravi ragazzi amici di Scorzese si sentirebbero a casa. Ma certo non si possono estrapolare cinque minuti da una conversazione durata cinque ore. Che dopo questo antipasto vien proprio voglia di sentire le altre quattro ore e cinquantacinque minuti dell'allegra chiacchierata. E poi, comunque, Nunzia De Girolamo non vuole essere accostata a Clemente Mastella. Dice che per lei è squalificante. Vabbé.

Mario Mauro, ministro della difesa, è quello che a comando di papa Francesco ha digiunato per un intero giorno contro l'acquisto delle armi mentre compra 90 F35 che costano, a occhio e croce, circa 17miliardi di euro. Ed è quello che ha già speso circa 3,5 miliardi per ammodernare la portaerei Cavour senza sapere quando gli consegneranno gli aerei. Ed è sempre lui quello che ha affermato che ridurrà del 20% il personale delle Forze Armate. Ed è lo stesso che ha proposto di far fare il servizio militare agli extracomunitari in cambio della cittadinanza. Ecco lui, proprio lui, è intervenuto sul caso dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre dicendo che:«Sono sicuro che il governo italiano mostrerà la necessaria inflessibilità per gestire questa fase.» Che dire?

Last but not least è tornata la Fornero con una dichiarazione: «Faccio mia la job act di Matteo Renzi» e ha aggiunto «Alcune di queste cose avrei voluto farle io.» Inutile chiederle perché non le abbia fatte avrà senz'altro delle buone scuse da scaricare sulla situazione, i vincoli di bilancio ed altre pizzellacchere. Senz'altro dimenticherà di ricordare che «Non ero proprio ferratissima per fare il ministro.» E via peracottando.

Perché questo Paese deve avere proprio questi qui?

mercoledì 8 gennaio 2014

Papa Francesco, le Cermelitane Scalze e i gay.

Papa Francesco è un telefonatore compulsivo ma le Carmelitane Scalze non sanno tenersi un cece in bocca. Che dietro la fuga di notizie ci sia la NSA di Obama? Francesco declina i tre pilastri dell'educazione che valgono per tutti ma non per i gay.




Papa Francesco si sta vieppiù rivelando un telefonatore compulsivo. 
 Gli piace a tal punto parlare al telefono che, piuttosto che niente, attacca bottone anche con una segreteria telefonica che in questo caso ha registrato una papale rampogna: «Cosa andate facendo di così importante da non poter rispondere alle telefonate?»
Questa volta è toccato alle Carmelitane Scalze del convento di Lucena in Andalusia. Fino a ieri i conventi di quest'ordine erano noti solo per i duelli che si svolgevano dietro le loro mura all'alba e in gran segreto. Anche se poi di segreto non c'era granché visto che tutti andavano lì a sbudellarsi. E poi perché diavolo il muro del convento fosse diventato una meta d'attrazione per i duellatori è stato un mistero che neanche Braccobaldo è riuscito a svelare. 

A qualcuno, smaliziato, era venuto il sospetto che a reclamizzare il posto fossero state le suore stesse ma all'epoca il marketing e le pubbliche relazioni non erano ancora state disvelate per cui il cattivo pensiero fu scacciato. E poi, poverine, scalze ed eremite come sono, i tanti in buona fede hanno creduto che avessero ben altro a cui pensare. Ma poiché nulla si può tener nascosto per l'eternità ecco salar fuori che le Carmelitane, ancorché scalze ed eremite, i segreti proprio non li sanno tenere e appena succede qualcosa dalle loro parti subito si mettono a spifferarlo in giro. In altre parole, come si usa dire in campagna: «queste non sanno tenersi un cece in bocca.» E così la “personale” telefonata di Francesco, con tanto di registrazione è finita, chissà come mai, nelle mani dei media spagnoli che, come si conviene a chi di mestiere fa il propalatore di notizie l'hanno spedita in giro per il mondo. Che a questo punto vien la voglia di pensare che all'operazione abbia giocato anche l'ufficio stampa della real casa vaticana. Poi magari a questa strategia di comunicazione si dovrebbe mettere un freno, poiché a lungo andare il rischio è che si riveli controproducente. Alternativamente si può sospettare che Obama e la sua NSA (National Security Agency) tengano sotto controllo il telefono del convento. Perché tanto a nessuno verrebbe in mente di pensare che il controllato sia papa Francesco. Che poi sarebbe anche un atto indelicato oltre che di cattiva educazione.

Papa Francesco è stato ben chiaro nel definire quali sono i pilastri dell'educazione che ha puntigliosamente elencato: «Trasmettere conoscenza, trasmettere modi di fare e trasmettere valori.» Come al solito la teoria suona meglio della pratica soprattutto quando questa deve essere applicate alle situazioni che non piacciono. E la questione dell'omosessualità, ne è un esempio.
Poi ha aggiunto: « Il compito educativo è una missione chiave, chiave, chiave!» Bello e ben detto. Solo un piccolo dubbio: chissà perché Francesco ha reiterato tre volte la parola «chiave» quando quella cruciale è «missione»? Pare quasi, vecchia storia, che il dettaglio valga più del concetto.
E dire che semplicemente a dare risposta ai tre pilastri di papa Francesco, con quel minimo di senso che si chiede ai raziocinanti, la questione gay e dei loro matrimoni o convivenze sarebbe bella che risolta.

1 - Trasmettere conoscenza: l'omosessualità non è una malattia. Semplicemente un modo altro di intendere la sessualità.
2 - Trasmettere modi di fare: ogni persona va trattata con rispetto e un omosessuale è una persona.
3 - Trasmettere valori: libertà ed uguaglianza sono la base di ogni vivere civile che se poi ci si aggiunge anche la fratellanza si va a nozze. E quindi ognuno deve essere libero di fare l'amore come gli va.
Questione risolta dunque? Senz'altro no, poiché Francesco, con qualche malizia il cielo lo perdoni, ricorda il caso della bambina che dice «la fidanzata della mia mamma non mi vuole bene.» quando ci sono tanti bambini che possono dire «il mio papà/la mia mamma non mi vuole bene.» Oppure come scrisse il cardinal Bergoglio alle suore di clausura argentine invitandole a pregare contro la legge sui matrimoni gay:«Non siamo ingenui non si tratta solo di una legge, ma il Padre della Menzogna cerca di confondere ed ingannare i figli di Dio.» Già. 
Domandone: chi è il padre della menzogna? Che i figli sappiamo bene di chi sono.



venerdì 3 gennaio 2014

Stesso reddito diversa fiscalità.

A seconda di come si guadagna il proprio imponibile varia la tassazione. Chi più specula, al solito meno paga. Si analizzano cinque casi, assolutamente normali, in cui a parità di reddito corrispondono percentuali di tassazione che vanno dalla totale esenzione fino al 33% che poi sarebbe come dire guadagnare 70.000€/anno.





Che l’Italia sia il paese dove ogni differenza è sovrana, neanche fossimo a Copacabana, è fatto ormai noto anche ai bambini dell’Islanda non perché lo studino a scuola ma più semplicemente perché questa nozione è talmente naturale che la succhiano con il latte materno. 


Qui, nel Belpaese, nulla è uguale al suo simile. E questo da sempre e ovunque. 

Nei tribunali è riportata la scritta. La legge è uguale per tutti ma come chiosò il maestro di vita principe Antonio de Curtis in arte Totò c’è sempre qualcuno per il quale la legge è più uguale. Lo  stesso vale per il carcere se il delinquente è un manager di grido, per esempio l’ex amministratore delegato di una banca, è quasi certo che finisce in infermeria e non in una di quelle cellette super affollate dove magari lo metterebbero a dormire all’ultimo piano del letto a castello. E lo stesso vale se si è parlamentari o giornalisti: la reversibilità della pensione o la messa a carico per le spese sanitarie del convivente non coniuge è assicurata. Per chi non fa parte delle due caste ovviamente no. Per conferma confrontare la differenza di trattamento tra il compagno di Ivan Scalfarotto e Adele Parrillo compagna non sposata del regista  Stefano Rolla morto a Nassiria che da 10 anni combatte per vedere i suoi diritti riconosciuti. Ma tant’è.

Ora si ipotizzi il caso di un reddito lordo di 15.000€, e si immagino cinque diverse origini del reddito. La domanda è: hanno lo stesso trattamento fiscale? La risposta, ovvia e scontata è: no. Neanche a dirlo.

Primo caso: reddito da lavoro dipendente. Per comodità si prende in considerazione la situazione più semplice ovvero di un dipendente che abbia solo questo unico reddito, che sia single e non possegga l’appartamento nel quale abita. I suoi 15.000€ annui verranno tassati, alla fonte, nella misura del 23%. Traducendo il tutto in netto a questo signore restano in mano 11.550€. Poco meno di 1.000€/mese.

Secondo caso: rendita finanziaria da titoli di Stato. Sempre per comodità, cosa vuol dire lasciare ad altri l’ingrato lavoro dell’azzeccagarbugli, si va a pensare che questi 15.000 erurini siano il risultato di cedole maturate nell’anno grazie alla sottoscrizione del Btp Italia e similari e che il fortunato possessore di questa sommetta non abbia altri redditi, magari è un disoccupato e sempre magari vive anche lui in affitto e per soprammercato è pure senza famiglia.  Bene,  il suo reddito sarà tassato, alla fonte come nel caso precedente, con un più modesto 12,50%. Che già rispetto al primo caso si sta parlando di una tassazione che suona circa le metà. Gli restano in mano puliti quasi 1.100€/mese non c’è da scialare ma c’è gente che con lo stesso importo ci mantiene una famiglia di quattro persone. Peraltro si passa sopra il fatto che , mica si può stare a guardare tutto,  per generare 15.000€ di cedole da Btp al tasso del 2%  lordo occorra avere un tesoretto di circa 750.000€. Quindi il signore in questione non lo si potrà definire propriamente come uno che sia sulla soglia dell’indigenza.  No, questo signore non è un povero.

Terzo caso: rendita finanziaria da azioni od obbligazioni, ovviamente non statali. Sempre mantenendo lo stesso rendimento e sempre ipotizzando che il possessore abbia le stesse caratteristiche socio-demografiche dei due di prima: senza famiglia, senza lavoro e senza casa di proprietà. Per lui i 15.000 eurini saranno tassati quasi quanto il lavoratore dipendente, anche se un po’ di meno: 20%. Quindi netti restano 12.000€/anno. Cifra tonda. Su questo personaggio meglio non fare illazione altrimenti ci si perde. Poiché un conto è se specula in borsa, potrebbe anche avere un capitale minimo ed essere solo fortunato, altro è se investe in obbligazioni e in questo caso il tesoretto su cui contare potrebbe avere perimetri variabili, assai variabili: dalla metà alla stessa dimensione  del signore di cui al caso 2.

Quarto caso: la rendita deriva da un appartamento dato in affitto. Anche qui stessa situazione delle precedenti. Questo è il solo reddito ed il poveretto è costretto a vivere a casa della mamma. Sempre per comodità di situazione si immagina che si tratti di un appartamento medio in una zona media della città., con una rendita catastale media. In questo caso le cose si complicano un pochetto perché il proprietario si troverà senz’altro a dover saldare il 23% di Irpef a cui però dovrà aggiungere su per giù un altro 10% dovuto al fatto  che l’appartamento pur essendo l’unico di proprietà viene considerato come “seconda casa”. Si arriva così, l’un per l’altro,  al 33% di tassazione. Percentuale che fa riferimento al quarto scaglione della tabella Irpef. Che poi è come dire avere un reddito annuo lordo che si aggiri intorno ai 70.000€. Il che ovviamente non è. Perché il povero tapino da quell’appartamento ricava solo 15.000€.

Quinto caso: colf e badanti. Se il reddito complessivo di 15.000€ fosse guadagnato da una coppia di badanti, marito e moglie, regolarmente iscritti all’Inps ed in regola in tutto e per tutto (quindi con un atto di fede, che forse pure a papa Francesco costerebbe un qualche sforzo, si immagina che il “nero” in Italia non esista) e che ciascuno dei due percepisca un salario pari a  7.999,00€/anno la tassazione sarebbe pari a zero. Questo perché golf e badanti con un reddito dichiarato fino a 8.000€/anno sono esentati dal pagamento dell’Irpef.

Cinque casi, con le loro storture, son più che sufficienti a dimostrare quanto possa essere farlocco l’italico fisco. E certo è necessario essere un docente della Bocconi (Mario Monti) o un laureato alla Normale di Pisa (Enrico Letta) o un docente di Ca’ Foscari (Renato Brunetta) o un commercialista di grido (Giulio Tremonti) per non accorgersi della iniqua imbecillità del sistema. Certo che se questi quattro, proprio loro quattro, anziché svolazzare nell’empireo dei massimi sistemi si acconciassero a guardare le piccole cose da vicino forse, forse ci sarebbe più equità nel sistema fiscale e magari anche minori tasse. È chiaro però che guardare le piccole cose e capirle pure richiede una qualità d’ingegno normale - e magari anche di buon senso, ma non è detto - che in quei quattro è difficile trovare.  Magari lo zio di Bonanni…


Napolitano è la Maria Antonietta versione 2.0

Sette mail raccontano i mali di questo disgraziato paese ma tutte ottengono la solita, vuota, risposta: solidarietà. Almeno Maria Antonietta proponeva agli affamati di sfamarsi con le brioches che nessuno aveva ma tutti sapevano cos'erano. Per lo meno ne avevano sentito il profumo ma la solidarietà che scende dal Colle che odore ha?




Maria Antonietta regina di brioches,
 Giorgio Napolitano re di moniti
E così dopo la ridicola polemica centrata su “boicottiamo il discorso di Napolitano” con in alternativa “no, ascoltiamo il discorso di Napolitano” gli italiani, almeno in parte – che sia stata una maggioranza o una forte minoranza è tutto da dimostrare – alla fine si sono sorbiti il discorsone di capodanno.
Il gran profeta dei moniti, li ammannisce da oltre sette anni, ha proceduto alla lettura del gobbo che gli scorreva dinnanzi con tono monocorde ma a passo di carica, quasi avesse paura che gli si freddasse la minestra nel piatto. 

 Come sempre in questa occasione, e al cenone di fine d'anno non manca quasi mai, chi era davanti al televisore s'è sorbita una bella insalata russa delle iatture del Paese con abbondanti cucchiaiate di retorica che se fosse stata maionese sarebbe stata meno indigesta.
A chiudere gli occhi e a tenere le orecchie appena appena aperte si poteva facilmente immaginare che in tv ci fosse la rediviva Maria Antonietta. Sì, proprio quella della rivoluzione francese che al popolo affamato e senza pane dava indicazioni chiare e precise per risolvere il problema: «se non hanno pane che si mangino le brioches.» Ma, si sa, nel settecento si volava terra terra, e il virtuale non aveva ancora preso piede, quindi a domande concrete si davano risposte concrete. Ancorché poco praticabili. D'altra parte è ben noto che non tutte le soluzioni debbano essere per forza fattibili.

Nei tempi moderni dove invece il virtuale la fa da padrone cambia la forma ma la sostanza è sempre la stessa: la sonora buggeratura del popolo. Che però, diciamolo, un po' se le va a cercare perché dell'esperienza millenaria proprio non vuol fare tesoro.
Oggi il popolaccio non è più tanto straccione, anzi mediamente veste bene e anche firmato, e non gli va tanto di andarsene a rumoreggiare sotto le finestre della reggie ancorché repubblicane, fa freddo e ogni tanto pure piove, per cui si limita a scrivere. E scrive e scrive e scrive, madonna quanto scrive, anche in virtù del fatto che c'è internet e il costo dei francobolli è così scavallato. E se una cosa è gratis perché non approfittarne?
Dunque al Quirinale arrivano migliaia di mail che sono così tante che quelli dell'ufficio relazioni pubbliche ne sono tanto presi che le lettere neanche più le guardano e in quel cono d'ombra devono essere finite anche quelle centocinquantamila delle donne che hanno perso i figli ammazzati dai tumori nella terra dei fuochi. Anche perché (involontaria citazione dal forbito eloquio del senatore Razzi) se se ne parlasse, bene ritornerebbe alla mente la storia dei verbali segretati, vent'anni fa o giù di lì, del mafioso Carmine Schiavone mentre ministro dell'interno era nientepopodimeno che l'attuale inquilino del colle più alto. Ma guarda il caso.

Però sto' popolo rompiscatole è sempre lì a mendicare. Che poi le cose che chiede da millanta anni son sempre le stesse: un po' di giustizia, magari uguale per tutti e non più uguale per qualcuno, un po' di speranza per il futuro, che tanto è un niente che non si nega a nessuno e magari meno tasse, c'è sempre un pizzico di venalità nel mendicante e, ad esagerare, anche un po' di lavoro. Insomma le solite cose da nulla che altrove, nei paesi civili, sono ben salde o corroborate.
Quindi in occasione del cenone di fine d'anno ecco, tra le tante, saltarne fuori sette di e-mail. Ma non a caso, ben scelte una ad una con la sapienza del marketing politico. Magari s'è chiesta pure una qualche consulenza al dirimpettaio che sta di là dal Tevere che per primo s'è messo a (finger di) parlare con la gente. Tecnica vecchia ma sempre di sicuro effetto. Ma il punto sta tutto in quale risposta dare alle domande che se ci si mette a dir le cose per davvero, ossia indicare situazioni e colpevoli e millantatori e farabutti si corre il rischio di finire nei guai per davvero. E allora? E allora ecco ritornare come fulmine a ciel sereno il segno di Maria Antonietta.

Quella diceva «che si mangino brioches» che era fatto concreto ancorché impossibile. Tuttavia ognuno capiva poiché delle brioches tutti avevano conoscenza qualcuno le aveva viste qualcun altro (probabilmente ladro e malfattore) le aveva anche assaggiate e moltissimi se non tutti ne avevano sentito l'odore. Ma oggi nel mondo 2.0 che gli si dà al popolaccio infame al posto delle brioches che non sono più uno status symbol? Ma perbacco baccone qualcosa di ancor più sofisticato ed impalpabile di immaginifico e virtuale, e spirituale e pure a buon mercato: la solidarietà.
Bellissima materia la solidarietà che spesso non risponde al tatto, che non ha odore e neppure sapore ma volteggia come una cosa fina nell'aria.

La solidarietà che non costa nulla e può esser distribuita a piene mani e di cui si possono vantare le meravigliose qualità così come fece Hans Christian Andersen raccontando dei mirabili tessuti con cui fare i nuovi vestiti del re. Bellissimi vestiti che lo facevano girare per la città con le pudènda di fuori. E il popolazzo con quelle sempre all'aria se ne va girando e c'è chi, vile marrano, di tanta innocenza se ne approfitta.

Che poi, a ben vedere, e con un briciolo di buon senso, come può capire il disagio di quello ha dovuto chiudere un'attività o deve scegliere tra pagare le tasse a sfamare i figli, chi per un'intera vita mai ha lavorato e si è baloccato per oltre sessant'anni a buttar fuori parole? E che magari assomma pensioni europee a pensioni italiane e poi a stipendi. No, non può capire. 
E proprio perché non può capire la parola solidarietà risulta ancor più vuota.

Come non ricordare il il rozzo Juan quando dice (Giù la testa) « Le rivoluzioni io so benissimo cosa sono: c'è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: qui ci vuole un cambiamento e la povera gente fa il cambiamento e poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo e parlano e mangiano e mangiano e parlano e intanto che fine a fatto la povera gente? Tutti morti. …. E poi sai che succede dopo? Niente. Tutto torna come prima.»


Per una volta, solo così per gioco, si faccia che prima vengano i fatti, quelli veri e concreti e poi le chiacchiere con il loro contorno di solidarietà. In alternativa che tutte le Marie Antoniette si prendano un po' di pace e tacciano. Magari