Ciò che possiamo licenziare

giovedì 28 febbraio 2013

Elezioni regionali: in Lazio Roma Ladrona cambia il colore della giunta. I Lumbard invece no si tengono i partiti di prima


Lombardia e Lazio: due regioni al voto anticipato. Entrambe hanno dovuto affrontare problemi molto seri di malaffare e di malgoverno. Le diversità antropologiche di Roma Ladrona e dei Lumbard. Cosa li unisce e cosa divide due regioni strategiche nel panorama nazionale.

Certo che questo popolo italiano è ben strano e soprattutto vario.
Pur partendo dagli stessi presupposti a seconda che si stia al nord o al centro o magari al sud dello stivale i risultati cambiano. E pure drasticamente. E l'esito delle recentissime elezioni regionali sta lì a dimostrarlo in tutta la sua evidenza. Neanche a dirlo.
In due regioni molto importanti per ricchezza, popolosità e funzione strategica, la Lombardia e il Lazio, i rispettivi consigli sono stati sciolti con un certo anticipo sulla loro naturale scadenza. La motivazione è nella sostanza la stessa: politici corrotti bramosi di denaro e di bella vita. Ma non tutto quel che sembra uguale è uguale.
Infatti di qui in avanti cominciano le differenze per numero di persone coinvolte, quantità, tipologia e peso dei reati.

La prima differenza tra le due regioni è antropologica: la Lombardia è la la patria dei cumenda, dei cavalieri del lavoro e dei bauscia e, soprattutto,il posto dove nessuno “vuol essere da meno” come cantava Enzo Jannacci. I laziali invece non sono così iperattivi anzi tendono a risparmiare fatica anche nelle parole, che pronunciano costantemente tronche. E dicono quindi: magnà, dormì, faticà, giocà ecc.. Che spesso ci si domanda da dove prendano l'energia per calare tutti quegli accenti.

Milano . il nuovo palazzo della Regione
In Lombardia è indagato l'ex governatore, giusto per riprendere l'adagio sull'origine della puzza nel pesce, accusato, tra l'altro, di essere stato «promotore e organizzatore» di associazione a delinquere oltre che , ma questo è gossip maligno, essere uno che perde le ricevute di tutte le vacanze che ha fatto. A sbaffo.

Oltre al governatore sono coinvolti, salvo errori od omissioni, anche una quindicina tra assessori, ex assessori e consiglieri. Pure quelli di primo pelo. Nel senso chegià alla prima esperienza in consiglio avevano capito tutto. Per due terzi erano targati Pdl e per un terzo Lega Nord.
Numero cospicuo ma nel fulcro della Padania nessuno se ne sta cun i man in man. La traduzione, per il resto degli italici, recita: “nessuno se ne sta con le mani in mano” Roba che a Roma sudano al solo pensiero.
Il numero dei reati va di conseguenza e per dirla in ordine sparso e forse addirittura per difetto, comprende: truffa, corruzione, induzione alla prostituzione minorile, tifo violento (che ci vuole una bella fantasia a pensare di commetterlo), dossieraggio (tipo FBI di Edgar Hoover), tangenti, concussione, bancarotta, finanziamento illecito ai partiti, appropriazione indebita, diffamazione, voto di scambio, peculato. E come non bastasse a tutto questo s'è aggiunto anche un bel concorso esterno in associazione mafiosa. Per alcuni contatti con esponeneti della 'ndrangheta. Che non è proprio una associazione benefica e, per soprammercato non è neanche del nord. I 'ndranghetisti peraltro avevapo grande stima dei loro interlocutori e, da intercettazioni telefoniche, li apostrofavano come «delinquenti». Cosa vuol dire conquistare l'ammirazione degli esperti in materia.
All'elenco dei reati manca solo l'imputazione di furto con scasso delle cassette delle offerte in chiesa e avrebbero fatto tombola. A quasi ogni reato, ça va sans dire, ci stanno appiccicati con il vinavil diversi nomi. D'altra parte la produttività è produttività.

In Lazio invece la storia è un po' diversa.
Roma - La Pisana - palazzo della Regione
Innanzitutto i soldi: erano, come dire, già in casa. I romani si sa, sono un po' sfaticati e se possono, s'accontentano di quello che trovano a portata di mano. Infatti si è trattato di denari a disposizione dei gruppi consiliari che sono stati utilizzati in modo improprio. Per usare un eufemismo. E i reati, almeno in numero non sono poi neanche tanti. La lista per numero e non per gravità sia chiaro, al confronto di quella lombarda pare striminzita: peculato, calunnia,  appropriazione indebita, associazione per delinquere, e falso. 
La pochezza di questo elenco sembra dovuto, peraltro, più all'indolenza e alla scarsa voglia di impegnarsi piuttosto che ad altra “morale” motivazione.
Sono coinvolti a vario titolo e grado quasi tutti i gruppi ma, al momento, il numero degli inquisiti e degli arrestati è ridotto. Solo in due hanno avuto l'opportunità di visitare Regina Cœli e uno, Franco Fiorito del Pdl, pare sia stato messo anche a dieta. Per la sua salute. L'altro è Vincenzo Maruccio dell'Idivu. Che adesso non c'è più.
Anche la genesi delle inchieste è diversa. Al nord ogni storia comincia “dall'esterno”: un concusso che parla, un ospedale che fallisce, un'azienda che non paga gli stipendi e di lì in avanti interviene la magistratura. Nel Lazio invece, sempre per quella scarsa efficienza e poca voglia di lavorare di cui sopra,  tutto comincia all'interno di casa. Dello stesso partito che nel caso specifico è il Pdl. Cosa vuol dire essere sfaticati.
Uno denuncia un compagno di partito e poi si scopre che il primo ne ha combinante più di Bertoldo. Ovvero la messa in scena della stupidità. Che sapendo quel che si ha nell'armadio forse vale stare zitti. Ma l'animo umano è bizzarro.

La festa dei maiali
E i soldi che fine fanno? A Milano e dintorni spariscono discretamente e sobriamente senza dare troppo nell'occhio. Che anche la magistratura fa fatica a rintracciarli. A Roma invece sono lì, belli, alla luce del sole o per meglio dire alla luce di torce o di fari da discoteche. Eh sì perché quei denari furono spesi in ristoranti e in grandi feste. Magari in costume con ancelle e maiali, Che non necessariamente il buon gusto deve essere di casa. Feste quasi popolari per numero di invitati. In fondo i baccanali li hanno inventati i romani. E quando non eran feste erano auto, pure grosse che nasconderle non è facile. E a pagare i viaggi e le vacanze era il partito, questa volta per davvero a sua insaputa, e non un faccendiere. E' così che Roma si è fatta quella cattiva fama di ladrona. Tutto troppo chiaro. Tutto troppo evidente. Tutto troppo caciarone. Senza alcuna discrezione. Che poi anche la notizia dell'acquisto di settanta macchinette tritura documenti per la spesa di 14mila euro arriva ai giornali prima che queste negli uffici. Che se ci fossero quelle tritura ladri varrebbe la pena pagarle anche un po' di più. Magari anche in Lombardia.

E alle elezioni per il rinnovo dei consiglieri che succede? Se tanto mi da tanto.... E invece no.
Elezioni regionali: il nuovo e il vecchio
Succede che Roma ladrona fa qualche conto e alla fine decide di mandare il partito dei festaioli di Fiorito in minoranza con un misero 29%. E fa vincere quelli che, almeno al momento, non sono toccati dagli scandali. Bella forza si dirà. E' ovvio.
Se la logica a funzionato a Roma (che è ladrona) chissà a Milano dove ci sono i Lumbard che sono sobri e lavoratori.
Mica tanto.
I Lumbard fanno vincere con il 43% la coalizione di partiti, Pdl e Lega Nord, ai quali apparteneva la quindicina tra indagati ed arrestati di cui sopra.
Scandalo? Si, forse, un po'.
Che però a ben vedere non è poi gran cosa rispetto alla scampata fine del mondo prevista dai Maya. Bisogna essere positivi.

martedì 26 febbraio 2013

Il Pd poteva vincere male o perdere bene. Ha deciso di perdere male.


La capacità di essere innovativi a quelli del Pd certo non manca. Sono distratti e non si rendono conto di quanto gli gira attorno. A essere autoreferenziali, si perde anche dove papà aveva la pompa di benzina. Che di benzina, con tanti ottani e pure in grande quantità, ce ne sarebbe stato di bisogno.


L'ideale in ogni competizione elettorale è vincere. E già che ci si è, vincere pure bene non fa male. Ma non è facile e non sempre ci si riesce. Allora in subordine si pongono altre due alternative: vincere male o perdere bene. Ogni tanto succede anche nello sport, figurarsi in politica.
Il primo caso non fa immagine ma per lo meno si porta a casa un risultato magari stiracchiato e striminzito, magari passando tutto il tempo a giocare in difesa e facendo catenaccio. Il secondo caso fa nobile ma è di quella nobiltà che si accompagna con le pezze sulle terga e che alla fine fa vincere il cucchiaio di legno, come nel rugby. Che poi è il caso di quando si danno pacche sulle spalle dello sconfitto a dimostrargli affetto mentre gli occhi parlano di compatimento. E il ghigno beffardo balla dietro l'angolo.

Il Pd, che da quelle parti la creatività si spreca, non foss'altro che per la capacità di inventare un bestiario fatto di tacchini, di giaguari e simil altro, ha deciso per una strada alternativa: perdere male. Che è quello che nessuno vuole fare. Perché significa insuccesso di critica e di pubblico. Disastro. Ma d'altra parte bisogna essere originali. Peraltro la capacità di essere innovativi a quelli del Pd certo non manca. 
Il partito stesso è nato sull'idea fantasiosa di qualcuno, in seguito pentito (1), che s'è ricordato della legge di Hankel: quando due meno s'incontrano ne salta fuori un più. Quindi si sono messi insieme i nipotini poco furbi della vecchia Dc e quelli un po' tarlucchi del vecchio Pci. Ma in questo caso, solo in questo caso, la legge matematica non ha funzionato e le due negatività si sono semplicemente sommate. Il risultato: un bel meno-meno. E le elezioni ne sono la cartina di tornasole. 

Ora, in quanto a perdere visto la storia recente, un po' dovrebbero esserci abituati, che poi anche quando vincono riescono a buttar via con l'acqua sporca anche il bambino. Perché? Perché sono distratti e non si rendono conto di quanto gli gira attorno.
Così distratti che mentre gli altri vanno in piazza a parlare con la gente questi si rinchiudono in stanzette a dividersi i posti nei futuri ministeri come, con l'ingenuità degli arroganti, ha ammesso anche D'Alema Massimo, il viceconte che a farlo tutto intero non se l'è sentita neppure il Vaticano.
Anche i sassi avevano capito dello stato delle difficoltà e dell'insofferenza della gente e poco senso aveva dire che gli altri erano fuori e ragionare per parametri autoreferenziale. Che poi, a forza di essere autoreferenziali, si perde anche là dove papà aveva la pompa di benzina. Che di benzina, con tanti ottani e pure in grande quantità, in questo caso ce ne sarebbe stato di bisogno. Ma d'altra parte aver passato le settimane a chiacchierare e a sognare di una tintoria certo deve aver distratto e neanche poco l'attuale titolare della ditta. Che poi, come sanno tutti quelli che una ditta ce l'hanno avuta per davvero, si deve essere pragmatici e mettere ad occupare la posizione di general manager non quelli che son simpatici o coi quali s'è giocato quando si portavano i pantaloni corti ma quelli che ti aiutano ad aumentare il fatturato. Che in politica si chiamano voti. A viver nel recinto ci si intristisce e si invecchia prima del tempo e poi la depressione è sempre dietro l'angolo.

Va poi detto che chi deve dare il consenso non ha da temere di veder rispuntare vecchie e bolse (ancorché presentuose) facce che già ampiamente hanno poco combinato se non addirittura fallito. 
E poi è tanta la voglia di sentire parole chiare o non ondivaganti che quelle uscite nel corso delle settimane passate spesso sono parse dal sen fuggite. Come quelle che anticipavano la vittoria e contemporaneamente proponevano alleanze astruse che suonavano di pateracchio ancor prima che il destinatario, con prontezza e sofisticata delicatezza, le rispedisse al mittente.
Eventualmente l'attuale titolare della ditta, visto gli antichi trascorsi da chierichetto, potrebbe prender ad esempio quel che è successo di là dal Tevere. che un po' di meditazione non farebbe male. Magari anche solo per decidere di che colore dev'essere la tappezzeria della tintoria.

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(1) http://ilvicarioimperiale.blogspot.it/2012/09/michele-salvati-e-la-scuola-delle.html

lunedì 25 febbraio 2013

La pedofilia non è un'arma impropria


Massimo Franco scrive un sinuoso pezzo sul Conclave che si presta a diverse letture. Sgradevole il pensare che denunciare la pedofilia apra al rischio di una involontaria deriva omofobica. Questo sarà un conclave da resa dei conti.Come forse non se ne vedevamo da secoli.



Cappella Sistina, sede del Conclave
Sabato 23 febbraio Massimo Franco ha firmato per il Corriere della Sera il pezzo che ha come titolo “Pedofilia arma (impropria) anti-papabili” e come sommario “Così i sospetti e il giustizialismo ecclesiastico mirano ad azzoppare i candidati”.
Pezzo interessante, come al solito, che si dipana per tre quarti lasciando qua e là trappole e trabocchetti d'interpretazione per poi disvelare nell'ultimo quarto, un po' controvoglia, che si tratta di mera lotta di potere. As usual.
Lotta che in Vaticano già da lunga pezza è in atto, che da quelle parti sanno anche essere spicci e non aspettano certo che la chiave giri nella toppa della Cappella Sistina per iniziare la battaglia. Purtuttavia il pezzo apre a interpretazioni ambigue e svianti. Soprattutto per quel termine “impropria”, riferito ad arma e collegato a pedofilia, che scritto tra parentesi ne vede enfatizzato, in qualche modo, il senso.

Il tutto parte, apparentemente, dal caso del cardinale americano Roger Mahony, pesantemente attaccato da un gruppo di cattolici americani, “Catholics United” che chiede la sua esclusione dal Conclave. La motivazione sta, di base, nella sua difesa ad oltranza del “diritto a non rilasciare tutte le informazioni riservate”. In altre parole viene accusato di aver, in qualche modo, coperto i preti della sua diocesi colpevoli di pedofilia. E quindi va da sé che i cattolici americani preferirebbero non essere rappresentati da lui e tanto meno che Mahony fosse tra coloro che sceglieranno il futuro Papa. Visto che i “Catholics United” alla figura del Papa, loro, paiono tenerci molto.

San Pietro
In realtà Mahony non è l'unico cardinale con qualche ombra. L'elenco, al momento, ne comprende qualcheduno di più: Timothy Dolan, anche lui americano e poi l'irlandese Sean Brady, il belga Godfried Danneels e infine il canadese Marc Quellet. Anche se quest'ultimo pare sia colpito da fuoco amico o di rimbalzo a causa di una storiaccia di molestie che in verità non riguarda né lui né il clero, almeno per questa volta, ma suo fratello. Statisticamente quindi, escludendo il canadese, si tratta di quattro cardinali su 117 non è un gran numero in assoluto e anche statisticamente non rappresenta una gran percentuale ma un pochino dà da pensare. Anche considerando il fatto che quello del sesso è solo uno dei possibili peccati in cui si può incorrere che poi c'è anche la svariata gamma di quelli che hanno a che fare col prosaico denaro.
E in ogni caso a far indignare sulla questione degli abusi sui minori basterebbe pure uno zero virgola. Soprattutto considerando l'ipotesi, tutt'altro che remota, dice Franco, a che il numero degli iscritti a tale lista sia destinato ad aumentare. E questo è già di suo un po' più inquietante.

Ciò che tuttavia stupisce maggiormente nel pezzo di Franco è il fatto che l'autore tenda a rimarcare, in almeno un paio di passaggi, che si tratti di “accuse vecchie” e alcune, come quelle relative a Sean Brady, si riferiscano a “vicende di oltre trent'anni fa”. Come se il tempo possa essere un lenitivo per storie tanto dolorese e tanto vergognose. Così come si ventila il timore che tanto parlare di pedofilia porti al “rischio di una involontaria deriva omofobica”. Si ha come la sensazione che si voglia lasciare sinuosamente intendere che combattere la pedofilia possa essere di danno alla difesa dei diritti civili degli omosessuali e della omosessualità in senso lato. Quasi che si tratti di merce di scambio. Sensazioni sgradevoli. Come quando succede di masticare sabbia
Così com'è sgradevole il parallelo tra il caso di “mani pulite” e le vicende di pedofilia all'interno della Chiesa. E quell'inquietante accenno allo spuntare di “una sorta di giustizialismo ecclesiastico”.
Alla fine quel che se ne ricava è come un morbido invito a laisser tomber le scomode “incompatibilità morali”, che in fondo un buon Papa può aver (avuto) anche qualche debolezza e aver conosciuto le esperienze della vita.Peraltro la sublime arte dell'ignorare e del non vedere o della doppia verità non è estranea alla tradizione della istituzione.

La finestra dello studio del Papa
In ogni caso sarà un Conclave duro. E con ogni probabilità si farà un gran fascio tra sesso, soldi, potere e chissà cos'altro. «Mai come in questi giorni capiamo l'importanza che il Conclave sia a porte chiuse e organizzato in modo da evitare qualunque contatto e condizionamento esterno» scrive Franco riportando la voce di qualche autorevole personaggio d'oltre Tevere.
Anche se le porte chiuse non serviranno, come sempre, per impedire l'entrata di condizionamenti, ché i capi corrente son già tutti dentro, quanto per non far trapelare all'esterno i termini degli accordi. Ché difficilmente si diventa Papa senza negoziazione.
Dopo duemila anni lo s'è capito anche stando fuori.



domenica 24 febbraio 2013

Mario Monti: il primo a votare. Ma non servirà.

La mamma l'ha sempre sconsigliato ma essendo uno scavezzacollo non le ha dato retta. Dal salire in politica a scendere al livello degli altri. Come distruggere un piccolo tesoretto di credibilità e fiducia in pochi mesi.

Mario Monti al seggio
Pare che Mario Monti sia stato il primo dei candidati premier a recarsi alle urne, scortato da moglie, figlia e nipotini. S'immagina che ci fosse anche quello chiamato “spread” che vederselo crescere sotto gli occhi con quel soprannome qualche volta gli darà da pensare.
Chissà se mentre stava votando, certamente per sé stesso, ha ripensato a quel che gli diceva la sua mamma (tenersi lontano dalla politica), alla sua ambizione (entrarci invece a piedi uniti) e agli errori fatti durante il governo e nella seguente campagna elettorale . Ché questi ultimi son dati dalla differenza tra l'ambizione propria e i suggerimenti della mamma.
Che avesse voglia di entrare in politica lo si sarebbe dovuto capir da subito. Infatti se un tecnico vuol rimanere tecnico quand'è chiamato al servizio del paese accetta l'incarico, riceve uno stipendio come ovvio, e poi a compito finito se ne torna all'antico mestiere. Qualcosa di simile fece tal Tito Quinzio Cincinnato, una sorta di tecnico dei tempi antichi che è andato e poi tornato dal Campidoglio ai suoi campi, era agricoltore, per ben tre volte. I Romani eran persone serie.
Mario Monti invece, che non era certo sicuro d'esser richiamato ha ottenuto (su sua richiesta? Su spontanea offerta di Napolitano?) la nomina a senatore a vita con la fantasiosa motivazione di aver illustrato la Patria per altissimi meriti in campo scientifico e sociale. Che allora a Rita Levi-Montalcini di nomine a senatrice a vita dovevano dargliene almeno tre.

Da subito ha messo in pratica, lui varesino, la nobile arte napoletana della ammuina. Prima ha esordito con un «Alla fine del mandato me ne tornerò a fare il professore» che poi, con l'avanzare dei mesi, evolveva in un «Se il paese lo chiede e potrò essere utile...» fino a diventare il 28 dicembre dello scorso anno «Accetterò di incoraggiare lo sforzo congiunto di politica responsabile e società civile nelle forme che saranno definite, accettando di essere designato capo della coalizione o dando il mio impegno per il successo dell'operazione» Roba che non si sentiva dai tempi in cui dorotei e morotei impazzavano nella politica italiana. 


Monti con cagnolino appena adottato.
 Berlusconi l'ha già fatto
Ma il paragone con i demoni-cristiani finisce lì. Perché quelli mai nella vita avrebbero dissipato il cospicuo vantaggio che a Monti era stato regalato: un indice di fiducia che veleggiava intorno al 70%. Il suo indecisionismo, la non volontà di scavalcare le obiezioni che politici ormai logori ponevano alle riforme, l'incapacità di prendere dei rischi e soprattutto il timore di rivolgersi direttamente alla gente comune superando la stretta cerchia degli amici l'ha ridotto a ben poca cosa. A questo s'aggiunga il maldestro tentativo di cambiare in corsa il suo posizionamento nella mappa mentale degli Italiani. Nella testa di tutti Mario Monti era il professore, competente, magari un po' algido ma capace di stare sopra tutti gli altri politicanti. Severo ma in grado di capire le situazioni, di poche parole perché l'autorevolezza non è fatta di lunghi discorsi da piazzista e poi ciò che conta sono i fatti. A tal punto responsabile da non fare promesse impossibili e soprattutto non autoincensarsi o stare a recriminare. Distante come ovvio e forse come giusto. Senz'altro non uno uguale a gli altri. Quindi un posizionamento unico nel panorama politico italiano. Da mistico cistercense.

Mario Monti brinda con birra. Bersani l'ha già fatto
E invece lui, proprio lui presidente dell'università che, almeno in teoria, forma i manager, ha deciso di buttare al vento il suo elemento distintivo per apparire all'esatto contrario. Per uniformarsi. Come se ad essere uguale a quegli altri ce ne fosse di vantaggio. Si è messo a fare l'amicone: dall'improbabile soprannome del nipote, alla adozione in diretta tv del cane (copia di Berlusconi) alla conseguente bevuta di birra (copia di Bersani). Si è sempre assolto dando colpe ai politici (una spruzzatina di anticasta). Ha fatto il presenzialista televisivo. E s'è messo anche a promettere la riduzione delle tasse che lui stesso ha imposto (uno zic di populismo strisciante). Poi già che c'era si è scelto dei compagni di strada, Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, con i quali mai s'é fatto vedere insieme. Roba del tipo siamo amici ma che non lo si sappia troppo in giro. Che la metacomunicazione è: “pronto a scaricarli se conviene”. I due che credevano di essere furbi e garantirsi così un qualche spazio si sono trovati rottamati ancor prima di cominciare, Sembra, il Monti Mario, la reificazione del proverbio “i piedi in due paia di scarpe”.
Insomma ha cercato di essere uguale a tutti gli altri e ce l'ha fatta imitandone il peggio. Ormai è proprio uguale agli altri. Bel pensiero strategico.
Lui che voleva salire in politica è disceso al livello, rasoterra, degli altri. E non è certo un bel viaggio.
Almeno è stato il primo a votare. Complimenti professore.

venerdì 22 febbraio 2013

Oscar Giannino il dadaista e gli altri.


Si dimette da presidente del movimento che ha fondato perché non è vero che sia laureato e che abbia partecipato allo Zecchino d'oro. In Italia quella delle dimissioni è una consuetudine connaturata al carattere nazionale. In questo paese non c'è la cultura del “pezzo di carta” ma quella della conoscenza vera. E le bugie sono punite, severamente.

Oscar Giannino disegna gli abiti che indossa
Il fatto è noto: Oscar Giannino ha mentito sul suo master, idealmente conseguito nella assai prestigiosa Booth School of Business di Chicago, sulle sue due lauree. una in giurisprudenza ed una in economia e anche sul fatto, oltre modo grave come stigmatizza Cino Tortorella in arte Mago Zurlì, di aver partecipato allo Zecchino d'oro. 
Vergogna , vergogna, vergogna.
Non si dicono le bugie soprattutto in un paese dal forte senso dell'onestà, intellettuale e non solo, dall'estremo rigore morale come l'Italia. Dove tutto si può fare, metaforicamente parlando, tranne che mentire. La reputazione è sacra e appena una macchiolina, ancorché impercettibile, si posa o addirittura semplicemente fa ombra all'immacolato curriculum vitae ecco che l'uomo (o la donna) chiede scusa e,si dimette dalla posizione che occupa. Immediatamente.
Che il tempo tra azione e reazione deve essere contestuale altrimenti, orrore degli orrori, qualcuno potrebbe pensar male e temere che il ritardo nasconda chissà quale ulteriore magagna.
Che poi a dare il via a tutta la storia non sia stato un avversario o addirittura un nemico ma Luigi Zingales, un amico di Giannino, che con lui ha partecipato alla fondazione del movimento Fermare il declino, è normale. Più che normale. Di fronte alla bugia non c'è rapporto di parentela, d'amicizia, d'affari o di qualsiasi altra natura o convenienza che possa reggere. Non qui
Nessuno lungo tutto lo stivale vorrebbe, e potrebbe, stare accanto a uno che ha mentito sul suo titolo di studio e soprattutto sullo Zecchino d'oro, manifestazione dei bambini che notoriamente so' piezz'e core. Sono cose che in Italia non si fanno. Noooo.

Alberto Sordi nel film Il Vigile
Questo non è paese di furbi e neppure di bugiardi. Anche il famoso Alberto Sordi, che tedesco di nascita era stato naturalizzato italiano avendo una lontanissima parentela altoadesina, per rappresentare i suoi personaggi e le debolezze dell'umano essere si rifaceva ai tic dei norvegesi e talvolta anche aiquelli dei finnici.
Giannino poi, che di nome fa Oscar e in effetti c'è qualcosa di cinematografico in questo personaggio come ampiamente dimostrano i suoi autodisegnati vestiti, non si è sottratto a nessuna pena. Il giorno stesso del misfatto ha anche accettato di essere ospite a Le invasioni barbariche dove, senza cercare scusa, ha ammesso il reato. Sembrava un po' febbricitante ma d'altra parte questa è la pena che il divino Dante nel suo trentesimo canto assegna ai bugiardi. Questi debbono subire fortissime febbri che li fanno fumare come man bagnate d'inverno.
Di altri febbricitanti nei talk show o nei comizi non s'ha notizia. Neanche quelli che negavano le crisi o dicevano che l'economia era solida insomma quelli che dicono e poi smentiscono e ridicono e poi rismentiscono, quelli che sono stati definiti cialtroni il professor Monti (professore per davvero con tanto di pezzo di carta incorniciato nello studio) sono mai stati visti febbricitare. Loro no. Mai.

Che poi Giannino, in tutti questi anni in cui raccontava dei suoi bei tempi all'università e delle belle esperienze avute negli States, dicesse cose sensate, anche se non condivisibili, è un accidente della storia. Così come è un altro accidente che paresse essere un economista anche più preparato di quelli che non ne azzeccano mai una, come soavemente fece notare ad un loro convegno la regina Elisabetta II. Ma questi possono vantare “pezzi di carta” a non finire.
Alla domanda perché l'abbia fatto Oscar ha risposto «perché sono dadaista». Risposta arguta ma che lascia ampi spazi nebulosi. Giannino ha mentito sui suoi titoli di studio perché sa perfettamente quanto, in termini sociali, sia importante nel Belpaese il riconoscimento culturale. Alla faccia di chi, guarda caso laureato in economia e sedicente economista, sostiene che con la cultura non si mangia. Meglio un laureato cane che un esperto senza pezzo di carta. E' la carta che fa la differenza.Evviva.
Dopo di ché gran bella lezione, quella di Oscar Giannino che dice: «chi sbaglia paga» e si dimette da presidente del suo movimento. Proprio come avrebbe fatto qualsiasi altro politico italiano. Se ce ne fosse, qualcuno capace di mentire. Ma questi ci mancano. A quanto pare.

mercoledì 20 febbraio 2013

Bersani e Berlusconi si incontrano nei corridoi del Corriere della Sera.


Berlusconi e Bersani si sono evitati fino ad ora ma se ne sono dette di tutti i colori. Parole tante. E pure di fuoco. Forse troppe per essere veramente di fuoco. E magari anche troppo di fuoco per essere veramente vere.E poi c'è il fair play.

Le grinte di Berlusconi e Bersani
La politica ogni giorno mette in scena uno spettacolo diverso e si recita a soggetto ovunque, anche fuori dal palazzo. 
Anche quando non è previsto e bisogna essere svegli e pronti ad affrontare l'avversario. Bersani e Berlusconi ne hanno dato un bell'esempio nei corridoi del Coprriere della Sera (18 febbraio) dove il primo usciva dall'intervista con Giovanni Floris e Ferruccio De Bortolis ed il secondo attendeva d'entraci. Neanche si fosse nella sala d'aspetto del dentista: fuori uno, dentro l'altro.

Fino ad ora avevano fatto di tutto per non incrociarsi. E ci sono riusciti. Se uno parlava al nord quell'altro arringava al sud se uno era in piazza quell'altro se ne stava ben rintanato nel chiuso di qualche teatro. Proprio nessuna possibilità d'incontro. Ma non è che non se le siano mandate a dire. Anzi. Parole tante. E pure di fuoco. Forse troppe per essere veramente di fuoco. E magari anche troppo di fuoco per essere veramente vere. E di tanto in tanto si scambiano pure i ruoli. Sconvolgendo le poche certezze che gli italiani tentano disperatamente di costruirsi.
Berlusconi che lancia provocanti profferte d'incontro a deux: «Vediamoci solo noi due ché gli altri non contano». E Bersani che, si ritarae, neanche fosse Giovanna D'Arco, e poi rilancia come una messalina qualsiasi: «O lo facciamo in sei oppure niente». Ma come? Quello delle ammucchiate non era quell'altro?
O ancora, a proposito della vendita di La7, sentire Berlusconi che tuona:«Da Bersani un avvertimento mafioso». Ma come? Il mafioso non era lui? Almeno così aveva detto l'Umerto, inteso come Bossi, quando lo apostrofava come «il mafioso di Arcore». Poi, vabbè si sono messi d'accordo e hanno massacrato il paese. Ma questo è un'altra storia. Poco divertente, peraltro

Il sogno di Bersani: una tintoria cinese tutta sua
Bersani non è certo tenero parla come un tintore cinese (in Cina c'è ancora il Partito comunista, occhio alla penna) e ribatte dicendo che «Il giaguaro lo smacchiamo», facendo intendere chissà quali sfracelli. C'è da immaginarlo il trapianto capelluto messo in candeggina e poi stirato. Roba da brivido.
Certo è da temere un incontro tra i due. Potrebbe finire con chissà quale violenza. Tipo quando il gatto Silvestro va a sbattere contro il bulldog amico del canarino Titti: ciuffi di pelo sparsi al vento, occhi pesti e stelle e pianeti giranti intorno a bernoccoli bernoccolosi. Neanche Quentin Tarantino potrebbe immaginare tanta violenza.
Ecco la nuda cronaca dell'incontro ravvicinato.
Esterno giorno, il macchinone si ferma davanti all'entrata del Corsera. Le guardie del corpo la circondano Berlusconi ne esce con la grazia di una ballerina che salti fuori dalla torta per l'addio al celibato. Fotografi, giornalisti, cameramen, uomini delle luci appena lo vedono, che è una bella fatica circondato com'è da quei marcantoni, gli balzano addosso neanche fossero mosche digiune alla vista della loro pietanza preferita. La voce fuori campo gli dice che dentro c'è Bersani, lui risponde che lo sa, ha il tono di voce di John Wayne, poi la domanda carogna:«L'incontra?». Sono tutti assetati di sangue.
La risposta è di quelle da mettere i brividi: un si lungo e cupo che sembra venire dal profondo dell'inferno. L'uomo è in forma e tonico. La macchina da presa sobbalza. Poi impietosamente ne riprende la nuca: non l'hanno pettinato bene. Qua e la si vede qualche po' di cute. Speriamo non se ne accorga o per chi occupa della pettinata ci sarà il gatto a nove code. Nei dettagli si nasconde il diavolo. Tutto il gruppo entra nel camerino. Dev'essere un monolocale di almeno ottanta metri quadri vista la quantità di gente che inghiotte.
Bersani esce dallo studio dove è stata fatta l'intervista.
«C'è il giaguaro in camerino», dice la voce carogna.
«Dì che si autosmacchi», risponde secco l'uomo di Bettola che con passo deciso si avvia. 
Dove? Non lo sa. Anche lui è circondato da un bel po' di gente e qualcuno con molta malizia e ancor più abilità riesce a pilotare il gruppetto del Pd nel corridoietto cieco che porta davanti alla porta del giaguaro.
Stanno fermi, davanti alla porta chiusa, per un bel po' secondi. Sembrano questuanti in attesa che il re si affacci.
Poi Bersani, con il fiuto del sioux sente odore di trappolone e si domanda:«Cosa stiamo facendo qui?». Bella domanda, che se se la fosse fatta anche Napoleone a Waterloo la storia avrebbe preso un'altra piega. A questo punto il gruppo dei pidiini sembra capire: girano sui tacchi e tra mille ringraziamenti prendono finalmente la porta per uscire e vanno verso le auto. La macchina da presa segue tristemente la schiena curva e la pelata di Bersani.
Controcampo.
Si apre la porticina del camerino uno dei g-man allunga il collo per guardare oltre. Ché se non hai il collo lungo ed estensibile questo mestiere non lo puoi fare. Poi Bonaiuti chiede se Bersani sia andato via ed, escusatio non petita, comunica al mondo che il capo si stava cambiando la camicia. Chissà che c'aveva quella di prima che non andava. Misteri del marketing politico.

Il carogna di prima si offre di inseguire Bersani e gli urla che «Bonaiuti dice se si salutano un attimo». L'italica lingua subisce un altro un altro affronto ma questo è niente rispetto a come viene massacrata in televisione dai conduttori e dagli ospiti. Il congiuntivo ormai è morto e anche il condizionale non gode di grande salute.
Bersani oramai già in auto scende e butta fuori un «Dov'é? » che non fa presagire nulla di buono e allunga il passo fino a correre. Sembra Martin Castrogiovanni lanciato in meta.
Se lo prende lo sfascia. Ma la corsa viene stoppata dalla porta chiusa. Ancora qualche lungo secondo di anticamera. Il giaguaro sa come sfiancare gli smacchiatori. Poi finalmente esce.
Lo spazio è troppo stretto, nulla che vedere con un ok corral e quindi la piccola folla si sposta e si fa largo ai contendenti.
I contendenti sorridenti
«Presidente!» esclama querulo Bersani
«Come va?» risponde Berlusconi sorridendo che sembra l'imitazione di Crozza
«Va, va. Quattro giorni ancora e poi ci riposiamo» risponde Bersani. 
Ma come? Fra quattro giorni comincia il lavoro vero. Altro che riposarsi. Boh.
Sembrano due conoscenti che non si vedono da tempo e si incontrano, casualmente, dal droghiere sotto casa. Mancano solo le pacche sulle spalle e il classico"come sta la sua signora". Tutti intorno ridono goduti. Chissà perché.
Qualche flash, sorrisini, stretta di mano, battutina sulla smacchiatina e mentre Bersani se ne va Berlusconi lancia un : «In bocca al lupo» Chissà a chi
Che di gente che ne ha bisogno di fortuna, e pure parecchia, si potrebbe fare un lungo elenco ma la retorica è già tanta. A la prochaine fois.
E così alla fine si sono incontrati: stretta di mano e battutine loffie. C'è chi lo chiama fair play. 

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Per vedere il video:
http://video.corriere.it/bersani-berlusconi-una-smacchiatina/a46521a0-7a8f-11e2-896e-599d001aa8d7
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domenica 17 febbraio 2013

La Fornero abbandona l'Italia e va in Germania. Forse


Finalmente una buona notizia da Elsa Fornero a quindici mesi dal suo insediamento come ministro: espatria. Alcune raccomandazioni per evitare che anche all'estero commetta gli errori più macroscopici. Per non  farsi sempre riconoscere.  I tedeschi sono un po' anspruchsvoll (esigenti) con i politici e anche con gli insegnanti.

Elsa Fornero nella parte di ministro
Non è ancora certissimo ma pare che la professoressa Elsa Forneto lascerà l'Italia. Lo ha detto lei stessa in una recente intervista (Linkiesta 15 febbraio) in cui si dichiara anche avvilita e abbattuta. Dal contesto però non si coglie se questa sua prossima migrazione sia una minaccia o una promessa. Is this a threat or a promise? 
In inglese, affinché anche lei e Beppe Severgnini lo possano capire.
Destinazione della ministra, tra breve ex, con una certa soddisfazione da parte di alcuni ricchi pensionati che l'hanno fatta franca, sembra essere la Germania. Quel posto strano dove i ministri si dimettono non solo quando copiano parte delle tesi di dottorato ma anche quando combinano dei pasticci. Come ad esempio non conoscere l'esatto numero delle persone che verranno toccate da una riforma, by the way.

Se il fatto succede da quelle parti lo considerano un grave errore classificato sotto la voce “incompetenza”. Uno di quelli da segnare con la matita blu. E lì, in Germania, se una cosa simile accadesse l'autore del pasticcio in quattro e quattro otto sarebbe pump out. Colorita espressione inglese, inserita ad uso e consumo dei succitati due personaggi, che letteralmente significa “sparata fuori”. Perché loro, i tedeschi, hanno ben chiaro in mente l'insegnamento di Max Weber sull'etica protestante ed il capitalismo (1). Mica come in Italia dove lo sfrenato e a buon mercato cattolicesimo consente di salvarsi l'anima e, soprattutto, la pelle con soli tre pater-ave-gloria.
Prima della partenza, comunque, alcuni suggerimenti - some suggestions – che è bene dare a tutte le cenerentole, specialmente quelle che scendono del canavese, quando vanno in città.

1 - Dice la Fornero che «da lì (Monaco) ne approfitterò per riflettere». Ecco, brava, riflettere è la parola chiave. In Germania, anche quando si fa lezione agli studenti, si usa riflettere prima di parlare. È una consuetudine. E pure radicata. Anche in assenza di giornalisti che se poi ci sono il metodo non cambia: prima si pensa e poi si parla.
Elsa Fornero nella parte di docente
2 - Il tedesco è una lingua assai ricca e piena di sfumature. Pertanto se volesse ripetersi nell'esilerante numero dei choosy tenga a mente che l'idioma di Goethe mette a disposizione diverse alternative. Choosy può essere tradotto, come aggettivo, con wählerisch o zimperlich nell'accezione di “esigente” ma se vuole enfatizzarne il senso negativo si deve usare heikel. Però non sta bene che un ministro, ancorché docente universitario, lo dica riferendosi ai giovani che non trovano lavoro. Il fatto poi che il suo braccio destro li abbia definiti “sfigati” - per sua informazione in tedesco si dice Schwachkopf - è solo un'esibizione da avanspettacolo.
3 - Affermare di non avere competenze, o non essere “ferratissima”, per una certa posizione e tuttavia occuparla ugualmente perché chiamata da un amico, là, nella terra di Sigfrido e delle Valchirrie non lo capirebbero. Non si usa proprio. Se qualcuno non è capace di fare un lavoro semplicemente non lo fa. È ovvio.
4 - “Paccata”, altra espressione a lei cara, deriva da pacco e, guarda il caso, dal tedesco packen, indica comunemente un insieme di oggetti raccolti e confezionati, quindi una moltitudine, una grande quantità. Se però si vuole intendere una “fregatura” si usa Beschiss. Ma non è molto elegante e una professoressa, ancorché emigrata e per giunta dal sud, non dovrebbe usarlo. Non fa fine.
5 - Ad Amburgo frasi del tipo: «Abbiamo fatto questo sforzo inserendoci all’interno di un programma Istat di allargamento della base conoscitiva, perché senza una buona conoscenza dei problemi non si può fare nessuna politica», non sono considerate “epocali”. Anzi, delle ovvie banalità. Va da sé che se non non si conoscono i problemi non si può fare alcuna scelta ne prendere alcuna decisione politica. Non dimentichi che quella è la terra di Kant e di Hegel.
6 - Altra affermazione da evitare è che le riforme non sono state fatte perché mancavano i soldi. Se i teutonici la sentissero si metterebbero a ridere perché sanno che con i soldi le riforme avrebbero saputo farle anche quegli incompetenti (cialtroni li ha chiamati Mario Monti) dei politici che c'erano prima. E non avrebbero chiamato dei tecnici.

Se riesce a trattenersi e ad evitare questi sei punti forse se la può cavare. Non si sa mai.
In ogni caso sappia che il pezzo di lei che rimane in Italia sarà a lungo ricordato. Anche se non necessariamente lodato.
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(1) L'etica protestante e lo spirito del capitalismo – Max Weber - 1904-1905

sabato 16 febbraio 2013

La recente scoperta del prof. Mario Monti: «erano cialtroni».


Il professor Monti sta facendo scoperte epocali. Come ad esempio chi erano quelli che l'hanno preceduto. Sarebbe bello se scoprisse anche come sono fatti quelli che ha governato. E magari ci fosse unità di pensiero tra la gente comune e chi decide delle sorti dei più.

Prof. Mario Monti. Ha scoperto chi erano
quelli che l'hanno preceduto al governo.
E così Mario Monti, nella mattinata di venerdì 15 febbraio, che non a caso era una volta giorno di magro e di blanda penitenza per tutti fedeli di santa romana chiesa, se ne è uscito con un'affermazione che sta a metà tra la scoperta dell'ombrello e la rivoluzione copernicana. 
Durante la trasmissione Agorà su Rai3 con un tono poco rilassato per non dire addirittura un po' seccato il professor Monti ha dichiarato che si è sentito «Molto più ferito quando dei cialtroni dicono di aver lasciato l'Italia in buone condizioni nell'autunno del 2011 e che poi io l'ho mandata a male che non inorgoglito quando Obama dice che ho gestito bene l'Italia» . 

A onor di cronaca c'è da sottolineare che mentre pronunciava le parole “mandata a male” le sue sopracciglia si sono inarcate, atto che non solo segna un evidente disappunto ma anche promette, a breve seguire, una severa punizione. Peraltro l'appellativo di “cialtroni” sta a identificare persone che lavorano poco e male o ricorrono a trucchi scoperti per giustificarsi. Definizione che a occhio e croce fa venir in mente non pochi di quelli che hanno guidato il bel paese. Guarda il caso.
Senza voler scomodare l'Ecclesiaste («C'è un tempo per vivere e c'è un tempo per morire, c'è un tempo per piangere e uno per ridere...» e via dicendo) l'attuale presidente del Consiglio ha dato modo di verificare tangibilmente come ogni situazione abbia il suo tempo e ogni tempo la sua situazione. Oggi il tempo pare arrivato e la situazione invece pure.
Quindi il professor Monti e con lui i suoi amici hanno scoperto che il governo che è stato in carica fino al novembre 2011 era un governo di cialtroni. Urca. Che notizia.

I membri del governo in carica fino al novembre 2011.
Il professor Mario Monti imputa questo giudizio solo al fatto che “quelli di prima” abbiano mentito spudoratamente sulla situazione economica del paese. E questa è la scoperta dell'ombrello. Di bugie è ben lastricata la strada di chi governa.
Una bella fetta di italiani invece questa notizia, se la si vuol definire tale, l'avevano già ben metabolizzata da tempo e per tanti indicatori. Certo l'abolizione del falso in bilancio era tra questi ma anche la nonchalance con cui taluni parlamentari passavano dall'opposizione alla maggioranza, o le notizie sulle cene di classe con annesse burlesque o ancor di più la grande quantità di avvocati arruolati che la somma del tutto già dava l'impressione che il giudizio dianzi espresso non solo girasse nell'aria ma fosse pure assai pertinente. By the way gli avvocati erano tutti operativi, e non pochi di questi avevano da difendere lo stesso unico cliente nelle situazioni più disparate. E che poi quegli stessi,professionisti, ben dislocati nelle varie commissioni e sottocommissioni, mettessero pure mano alle leggi che una volta approvate sarebbero state di vantaggio a pochi per non dire a uno solo era un ulteriore accidente della storia. Tutto questo con l'aggiunta di corollari a base di cucù e pagliacciate varie non faceva che confermare ante litteram il giudizio del professore esimio. Peraltro, essere professori non necessariamente richiede capacità di giudizio fulminea e tanto meno maliziosa, ché la scienza vola alto. Questo si sa. Anche se poi non così in alto da poter schivare l'impatto con qualche commissariato europeo o qualche banco senatoriale, magari ad perpetuum, vantaggio che oramai neanche più i papi si concedono, o talvolta, più semplicemente, qualche consiglio di amministrazione. 

Quelli che aspettano la metropolitana.
Comunque è bello che i vertici della società si stiano mettendo in asse con quello che pensa la gente comune. Così come sarebbe altrettanto bello se il professore e gli altri della “società civile”, grazie a questa prima scoperta, si dessero un po' da fare per arrivare a conoscere come son fatti quelli che prendono il tram o i treni pendolari. Per intendersi non quelli che hanno il problema di come passare la fine della settimana, che probabilmente gli son vicini di casa ma, con gittata un po' più lunga, quelli che il problema ce l'hanno con la fine del mese. Anche questi sarebbero bei campi da esplorare e senz'altro gli aprirebbero la mente. 
E sarebbe l'avvio della rivoluzione copernicana. Fase due. Potrebbe così il professor Monti arrivare a scoprire che i consumi ripartono se sono in tanti quelli che hanno denaro e che per far ricco lo Stato oltre che sulle tasse si potrebbe giocare anche avversando le ruberie, gli sprechi e magari pure l'evasione fiscale. E anche questa sarebbe una scoperta degna di passare alla storia come e forse più di chi scoprì l'acqua calda.

La domanda quindi verte sull'uso che il professor Monti vorrà fare di tale epocale scoperta che, con probabilità lo porterà a competere per qualche sezione del premio Nobel. Perché se dalla consapevolezza della pratica scaturisce l'elaborazione teorica questa per essere credibile e funzionale dovrà nuovamente rendersi operativa e dunque rientrare nel prosaico fare. Quindi, caro professore ora che ha scoperto che “quegli altri” erano e tutt'ora sono, poiché nessun atto di contrizione o pentimento sembra averli spostati dal loro modus operandi precedente, dei sonori cialtroni lei che farà? Non vorrà mica accingersi anche alla scoperta della ruota o reinventare il triciclo? Poiché questa è la politica. Quella cosa dalla quale la sua mamma cercava di tenerla lontano ma nella quale lei si è ficcato con discreta abilità anche se, ti tanto in tanto, pare che le manchino un paio di attributi.
Ancora una settimana di impegno e poi, alla peggio, potrà sonnecchiare in Senato. Per i prossimi decenni.

venerdì 15 febbraio 2013

Papa Ratzinger come il Presidente Cossiga. Via i sassolini dalle scarpe.


Non sono pochi i punti di contatto tra il prossimo Papa Emerito e il Presidente Emerito Francesco Cossiga. Li accomuna la passionaccia a liberarsi dei sassolini che gli si sono infilati nelle scarpe e un sottile senso dell'umorismo. E mancano ancora tredici giorni all'ora x.

Il Papa, futuro emerito, Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger assomiglia curiosamente, ma poi forse neanche tanto, a Francesco Cossiga, il primo Presidente emerito della storia repubblicana.
Benedetto XVI, il primo Papa Emerito
dell'era moderna
Entrambi furono eletti quasi subito: Ratzinger al quarto scrutinio (che da quelle parti è quasi un miracolo che la colomba mandata in trasferta dal cielo riesca ad orientarsi in tempi brevi in quel guazzabuglio di porpore e di lingue) mentre Cossiga addirittura al primo. E quello nel Bel Paese fu un miracolo vero e proprio. O magari anche di più avendo una vaga idea dei personaggi (e degli interessi) che tradizionalmente stazionano tra Camera e Senato.
Entrambi, poi, viste le premesse, hanno deciso di levare il disturbo prima del tempo. Cossiga lo fece con dieci settimane d'anticipo ma lui, tutto sommato, era a termine, almeno di calendario, mentre di Benny il sedicesimo non si sa ancora di quanto abbia anticipato l'uscita di scena dato che millenni di tradizione hanno stabilito che per chi copre quel ruolo sia anche quella definitiva.
Entrambi hanno cominciato con il dire di stare dalla parte della gente. Cossiga lo disse mentre era in Francia (1990) in modo ruspante e chiaro . Tanto da sollevare qualche sturbo in Patria. Ratzinger l'ha annunciato alla moda del luogo cioè con parole e modalità curiali. Il che significa che per decriptarlo ci vollero il codice α e una decina di vaticanisti di vaglia, e lo fece fin da subito. Addirittura nel discorso di insediamento. Fu un messaggio così soft che la gran parte dei destinatari non lo colse.

Poco alla volta, poi, entrambi hanno cominciato a mettere qualche zeppetta nell'ingranaggio della istituzione che rispettivamente avevano avuto in leasing. Il che non necessariamente è a significare che lo stavano facendo nell'interesse dei più e con spirito progressista. Questo lo dirà la Storia, quella con la esse maiuscola e per giunta solo in seguito. Toccherà aspettare.
Nel frattempo la cronaca dice che entrambi partirono con appiccicata sulla schiena la targetta di conservatori ma tutti e due hanno avuto un modo tutto loro di interpretare il ruolo. E, oggettivamente hanno condotto il gioco con la fantasia trigonometrica di un campione del biliardo, che neanche Paul Newman ne “lo Spaccone”. E con l'abilità dello spariglio che neanche Bette Davis in “Lo scopone scientifico”.

Francesco Cossiga, alias  dj-K,
è stato il primo Presidente emerito
della Repubblica
I due andandosene a rappresentazione ancora in corso hanno creato qualche scompiglio e magari anche qualche turbamento. Nel ramo “pianti e commozione” Benny rispetto a dj-K (così si faceva chiamare Cossiga a fine carriera dai suoi amici della radio) è più esperto e la scenografia all'interno della quale recita gli dà molte chance in più. E infatti nel mercoledì delle Ceneri pare che, a turno abbiano applaudito e quindi pianto tutti: prima i fedeli, più facili alle emozioni, poi i cardinali, un tantinello più algidi e quindi i monaci e le monache per finire con i vescovi. Che da loro proprio non ce lo si aspetta. Comunque, un tripudio di lacrime. 
Tra i fedeli si è disperato anche Gianni Letta, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio di tutti governi Berlusconi. Proprio quel Berlusconi, per intenderci. Kirie eleison, che sta per “signore pietà” come sanno tutti i chierichetti d'antan. Proprio quel Gianni Letta che ci si immaginava di ghiaccio e che quasi certamente non ha pianto (almeno in pubblico) per i ritardi nella ricostruzione de L'Aquila o per la conversione di Scilipoti e Razzi o per le leggi sul falso in bilancio o ancora per il processo lungo e poi per quello breve o magari per il legittimo impedimento o per i ragazzi della Diaz o per le milionate buttate al vento sotto l'egida de “il ponte sullo stretto”. E si potrebbe pure andare avanti che s'è detto solo della più piccola parte della punta dell'iceberg. Per tutti questi neanche una piccola lacrimuccia, caro l'ex sottosegretario, mentre per il Papa che si chiama fuori giù a frignare che neanche un battaglione di vitelli. Che per rimanere nello stile della dichiarazione delle dimissioni si potrebbe chiosare con nil est fletu facilius (nulla è più facile che piangere), sempre tradotto dai chierichetti di prima.

Comunque lui, Benny il sedicesimo, ad imitazione di dj-K, coglie l'attimo fuggente e toltasi, metaforicamente s'intende, una delle sue belle scarpette rosse (forse targate Prada?) lascia cadere un sassolino. Di peso. E quindi dice di come «il volto della Chiesa venga a volte deturpato da colpe contro l'unità e da divisioni del corpo ecclesiale». E, questa volta, per non lasciar nulla di oscuro, deo gratias, aggiunge un affilato invito a superare «individualismi e rivalità» e «l'esibizionismo di chi vuol apparire». Frasi che dette in quel del Vaticano è come parlare di vino stando in cantina o di birra in un pub.
E anche nel pomeriggio, durante l'udienza di Quaresima, dice non si può utilizzare la Chiesa per il proprio egoismo ipocrita. E via sassolineggiando.
Mancano ancora tredici giorni alla fatidica data del 28 febbraio quando Joseph Ratzinger non avrà più le funzioni operative di Papa e quindi ce ne si può aspettare di altre. Intanto c'è da sistemare la questione del general manager dello Ior. Che non è da poco. E poi, sull'esempio di Cossiga, non è detto che prima delle ore 20,00, cosa vuol dire la precisione teutonica, magari alle 19,45 non piazzi un altro bello scherzetto da prete. Che allora sì che la Storia, sempre quella con la esse maiuscola, lo fa diventare un mito.